[Il 31 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni». — Presidenza del Vicepresidente Conti.]

Presidente Conti. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo V relativo alle regioni.

È iscritto a parlare l'onorevole Bordon. Ne ha facoltà.

Bordon. Onorevoli colleghi.

Come la discussione svoltasi fin qui sembra aver dimostrato, il progetto di autonomia ha contro di sé due nemici: la prevenzione e la retorica.

Una certa prevenzione può essere in qualche modo giustificata: si tratta d'una riforma importante, profondamente innovatrice: si parla di un salto nel buio, si ha paura del nuovo.

Vi sono, anzi, colleghi che si spaventano persino della nomenclatura del progetto. Mi pare che non più tardi di ieri un collega, che è pure avvocato, diceva da questi banchi: «Ma la regione farà concorrenza allo Stato in materia legislativa...».

Il secondo nemico, la retorica, dovrebbe essere ancora meno preoccupante, perché si tratta di retorica che ha fatto ormai il suo tempo. Già quando questa riforma era stata portata alla ribalta della vita parlamentare, per la prima volta, i suoi avversari dicevano: badate, voi disgregate l'unità nazionale...

Era retorica che ha tambureggiato per molti anni, perché vi era chi aveva interesse di farlo: la monarchia non sapeva dir altro, perché essa non sentiva i bisogni del popolo, essendo questa nostra riforma squisitamente democratica.

Fin dall'indomani però dell'unificazione vi furono uomini, che pur essendo stati unitari, avevano avvertito la necessità della regione.

Cavour stesso, nella sua grande e illuminata coscienza, fu l'inspiratore del progetto Minghetti, che, non a caso, venne discusso dopo la sua morte. Non è vano ricordare, che nella tornata del 28 giugno 1860 il Minghetti non esitava di dichiarare che «la centralità francese è un prodotto della storia di quel Paese, mentre la storia d'Italia sembra indicarci un andamento diverso e sembra farci preferire il sistema del decentramento amministrativo, che porta il grandissimo vantaggio di essere più favorevole alla libertà».

Facendo eco a tali parole, da parte sua, il Farini, quale membro della Commissione costituita il 24 giugno 1860 per l'esame di tale progetto, si domandava: «Non dovremmo conoscere che le Provincie italiane si aggruppano naturalmente e storicamente fra loro in altri centri più vasti ed hanno avuto ed hanno tutt'ora ragione di esistere nell'organizzazione italiana? Questi centri possiedono notevolissime tradizioni fondate su varie condizioni naturali e civili. La politica italiana fra i Comuni e le Repubbliche del Medioevo ha trovato in essi una precisa forma e disciplina di Stato: la stretta colleganza politica e sociale ha portato particolari risultamenti di civiltà che ad ognuno sono cari e preziosi. Al di sopra della provincia e al di sotto dello Stato, io penso che si debba tener conto di quei centri, i quali rappresentano quelle antiche autonomie, che fecero sì nobile omaggio di sé all'unità della nazione».

Ma, oltre i suddetti, altri grandi spiriti del nostro Risorgimento hanno scritto pagine memorabili in questo campo.

L'unità nazionale non poteva consistere soltanto nell'unità territoriale e tanto meno nell'unità amministrativa, in un Paese come il nostro, così diverso da regione a regione.

Non contrario al regionalismo era pure Giuseppe Mazzini, che, nella sua opera: «L'unità italiana», vagheggiava la creazione di 12 regioni.

Federalista era Cattaneo, le cui parole e il cui pensiero hanno oggi la grandezza di una divinazione profetica.

Così infine Garibaldi stesso.

Trovandosi egli a Napoli, in una circostanza, in cui vi si trovava pure Carlo Cattaneo, egli chiese a Mario Alberto: «Come un tant'uomo è federalista ed è così fiero avversario dell'unità?» «È unitario, gli rispose l'Alberto, in quanto vuole in mano del governo nazionale gli interessi generali, è federalista in quanto vuole in mano dei governi regionali tutti gli interessi regionali, locali e particolari». «Allora, non possiamo che trovarci d'accordo», rispose Garibaldi, e nessuno dimentica che egli, prima di morire, scrisse da Caprera: «Io sono federalista».

Ma onorevoli colleghi, l'unità nazionale intesa nel vero senso della parola, quale noi la intendiamo, esula completamente dal problema in esame, come del resto è ammesso da non pochi dei nostri avversari stessi.

Il Vitta, autore di un pregevole scritto sul regionalismo, dice a pag. 130: «Che se poi si desidera la mia opinione dal lato politico, qualunque valore essa possa avere, io dichiaro francamente che un pericolo per l'unità nazionale, come introduzione del regionalismo non mi sembra serio. E non è quindi sotto questo aspetto che il regionalismo può essere avversato. Ben s'intende che, in fatto di unità, tutto ciò che sapeva di ricordo delle antiche separazioni, poteva portare il sospetto così forte da essere anzi senz'altro scartato, ma dopo un esempio tanto evidente di vita unitaria, quando ad esempio scrivevano il Bartolini e il Saredo, il pericolo si era già grandemente attenuato ed oggi appare secondo me del tutto scomparso. Oltre mezzo secolo d'esistenza dello Stato italiano, la prova vittoriosa che esso ha subìto, l'affratellamento delle genti che lo compongono, dimostrato nell'ultima guerra lunga ed aspra, rendono tranquilli. Le istituzioni unitarie non sono suscettibili di alcuna minaccia e qualunque riforma, anche la più ardita, non ne scuoterebbe le sicurissime basi».

È un avversario del regionalismo che parla.

Dopo questo, possiamo dunque, onorevoli colleghi, procedere oltre. Noi autonomisti convinti, che vediamo nel problema dell'autonomia non un problema di semplice amministrazione, ma un problema di libertà e di democrazia, siamo in buona compagnia.

L'unità nazionale che noi vogliamo è un'unità nazionale fondata sul rispetto e sullo spirito di tutti i popoli, sul diritto delle minoranze e sulla fusione democratica di tutti gli italiani.

L'onorevole Nobile (il quale attraverso tutti i lavori della Commissione si è mostrato più realista del re) è venuto nel suo ultimo discorso a queste conclusioni: egli ammette che un decentramento, dopo tutto, è necessario. È tempo di liberarsi da questa struttura che soffoca il Paese, che mette gli uni contro gli altri, che lascia tutti scontenti. Anche in base a questa ammissione sintomatica, si deve convenire che il clima storico, che ci ha dato la Repubblica, deve darci l'altra riforma, quella dell'ordinamento regionale, perché essa è riforma di progresso e di democrazia. (Approvazioni).

Né essa può spaventare alcuno, poiché se fosse da alcuni avversata in quanto ritenuta federalista, la verità è che una tale valutazione sarebbe errata.

Penso che la nuova struttura dello Stato, sull'esempio di quella Svizzera, avrebbe dovuto improntarsi al principio federalista ma la maggioranza del Comitato dei dieci e della seconda Sottocommissione, come risulta dai verbali dei lavori, si pronunciò contro l'idea federalista.

Le vostre preoccupazioni sono pertanto fuori di posto.

Nel progetto in esame non soltanto è rigettata l'idea federalista, ma purtroppo anche quella d'una vera autonomia. Non si può parlare di autonomia, svuotandola della libertà, che ne è l'anima.

Che non si tratti di una struttura federalista basta tener presente le linee del progetto, raffrontandole con gli insegnamenti della dottrina sul regionalismo.

A pagina 11 del suo libro succitato, il Vitta scrive: «Nella realtà pratica si vede che si sono tradotte tre gradazioni dell'idea regionalistica.

«Vi è la estrinsecazione più forte più caratteristica e radicale del regionalismo, che si manifesta nello Stato federale, come in Germania, Svizzera, Nord America e Brasile; qui ad un ente superiore sono riservate soltanto talune fra le attribuzioni che ha altrove lo Stato italiano, cioè quelle essenziali alla difesa della società in ispecie dai nemici esterni e la legislazione in talune fondamentali materie di diritto pubblico o privato, mentre le altre funzioni, per quanto sempre in minor numero, restano di spettanza dei singoli stati in esso incardinati.

«Vi è una forma intermedia, transeunte di regionalismo, come era nell'ex Impero di Austria: essa consiste nel riconoscere a taluni enti, che sono del resto il rimasuglio di antichi Stati e che tornano spesso col tempo a formare nuovi enti (come ad esempio la Boemia), qualcuna delle attribuzioni, come l'intervento nella legislazione, che si trovano altrove esercitate dallo stato unitario: a codesti enti, in cotesto stadio di ordinamento, non si da più il nome di stati, ma sibbene di minori persone di diritto pubblico, per quanto abbiano talune note che in parte li fanno ancora somigliare agli antichi stati.

«Vi è infine la forma più tenue del regionalismo, come è attribuita in Prussia, laddove la regione, perduto ogni vestigio statale, ogni ingerenza legislativa, è l'ente destinato dallo stato unitario a funzioni amministrative».

Dunque, secondo questi insegnamenti, delle tre gradazioni, in cui l'idea regionalista può concretarsi, solo la prima è federalista ed anzi, stando alla dottrina del Rhem, neppure questa.

«Taluno, dice il Vitta, riferendosi alla teoria del Rhem, ritiene che lo Stato per essere degno di quel nome debba avere non solo poteri suoi propri, non da altri attribuitigli, ma bensì anche sovrani, cioè ad altri poteri non sottoposti, in sostanza lo Stato è sovrano oppure non esiste».

Sulla scorta di questi principî, a quali di queste tre forme risponde la riforma regionalista adottata dal progetto?

Alla prima, a quella federalista (che secondo il Rehm neppure sarebbe tale)? Evidentemente no, poiché se fosse la struttura federalista quella adottata, occorrerebbe che la regione venisse eretta a dignità di Stato, con poteri suoi propri, non da altri attribuiti, che essa non fosse sottoposta ad alcun altro potere e che in conclusione essa avesse piena sovranità.

Ora come potrebbe essere sovrana una regione, sottomessa al controllo del potere centrale, che trae i suoi poteri dallo Stato, che ha poteri normativi delegati, che, anche per le materie di legislazione primaria, deriva questa facoltà non dalla sovranità propria, ma dalla sovranità dello Stato e tale facoltà non può esercitare se non nei limiti e modi fissati dalla Costituzione?

Questi interrogativi bastano a dimostrare come sia assurdo parlare di un regionalismo federale.

A nessuno potrebbe venire in mente, in base al progetto in esame, di sostenere che la regione sia un ente sovrano.

Risponde esso alla seconda formula, cioè a quella intermedia, transeunte, in cui perduto ogni vestigio statale, la regione non è che una minore persona di diritto pubblico, che conserverebbe però ancora note particolari da farla assomigliare agli antichi Stati?

La risposta non sembra possa essere che negativa anche per questa forma intermedia, poiché alle regioni che si creerebbero, la Costituzione non conferirebbe affatto tali note particolari.

La risposta non può essere dunque affermativa che per la terza forma, per cui non solo, secondo il Rehm, il regionalismo che si creerebbe non sarebbe mai federalismo, ma la struttura progettata non assumerebbe in pratica che il valore di un decentramento autarchico.

Questi rilievi bastano a fugare tutti i fantasmi che si sono voluti drizzare contro il progetto.

Da cui si spiega perfettamente perché anche l'onorevole Einaudi non siasi sentito di pronunciarsi contro la riforma. Egli affermò di non essere contrario al principio regionista ed io mi auguro che egli non si fermi a metà strada.

Qualcuno ha interpretato erroneamente il suo pensiero, affermando che egli avrebbe additato gli articoli 110 e 111 del progetto come fonte di pericoli per l'unità nazionale, confondendo questa con l'unità dell'economia nazionale, il che è altra cosa. Ma anche sul terreno dell'economia nazionale, nessuno intende ledere siffatto principio, purché esso non serva semplicemente a mascherare privilegi privati o monopoli di società capitalistiche.

Voci. Bene, bravo!

Bordon. A questo punto si pone un quesito; l'ordinamento regionale dovrebbe essere uniforme per tutte le regioni? Evidentemente no, poiché esso non può non tenere conto delle singole condizioni locali ed in modo diverso deve essere congegnato quello spettante alle regioni che rappresentano peculiari etniche linguistiche geografiche inconfondibili.

Sarebbe un errore considerare tutte le autonomie alla stessa stregua, poiché vi sono autonomie ed autonomie.

Vi sono autonomie che sono profondamente sentite ed altre che non lo sono affatto. L'onorevole Gullo, per esempio, contesta che esse abbiano fondamento nel mezzogiorno. Per contro sarebbe negare la realtà disconoscere che vi siano regioni particolari, in cui le radici dell'autonomia sono radicate nel sottosuolo stesso della loro storia, zone in cui l'autonomia è nell'intima coscienza della popolazione, in cui l'autonomia è sempre stata un diritto vissuto affermato e praticato attraverso tutti i secoli, zone in cui l'autonomia è sentita come un bisogno di libertà insopprimibile, che si identifica con la lotta stessa da esse combattuta per rispetto di questo sacrosanto diritto.

Prima, fra tali regioni, è la Valle d'Aosta, di cui tanto si è parlato, a torto e a traverso.

Sono stato tra i primi, fin dal periodo cospirativo, quale membro del Comitato di liberazione nazionale clandestino, a difendere la sua autonomia, che è una condizione di vita per essa, date le sue condizioni speciali, ma la nostra autonomia — e voglio dirlo ben chiaro da questo seggio — non ha mai avuto né ha nulla di comune né col separatismo, né con altre forme sacrileghe. (Approvazioni).

L'onorevole Nitti diceva un giorno in quest'aula che, nel suo esilio, aveva appreso come a Parigi si stampasse da un prete un giornale: La Vallée d'Aoste, col quale veniva fatta una propaganda sistematica contro l'Italia.

Ma l'autonomia della Valle d'Aosta non ha nulla a che fare con tale giornale e se è vero che la sua campagna è condotta da un prete, anzi da due preti, sarebbe un errore identificare con costoro la maggioranza stessa del clero valdaostano.

L'onorevole Nitti non conosce la Val d'Aosta: se egli la conoscesse, non confonderebbe, la nostra autonomia, con alcun movimento annessionista o separatista.

Noi autonomisti non ci confondiamo con quei signori, di cui ha parlato l'onorevole Nitti.

Noi difendiamo i nostri diritti sacrosanti di libertà e rigettiamo, con disprezzo, lontano da noi tutto ciò che non risponde a questi nostri sentimenti chiari e onesti.

La storia della Valle d'Aosta non è conosciuta da molti di voi che per sentito dire.

Esso è un piccolo popolo che in tutti i tempi ha lottato sempre strenuamente per la sua libertà e indipendenza.

La sua libertà è la sua vita.

Mai essa, attraverso tutta la sua storia, si piegò di fronte ad alcuno e anche quando col Vaud, con Nizza, con la Savoia, col Piemonte, accettò volontariamente la protezione della casa Savoia, essa ne dettò però le condizioni.

Fin dal 1161 ha la sua carta di libertà, negoziata fra il vescovo di Aosta e il conte Tomaso I e tale carta viene rinnovata e rispettata per sette secoli, fino a che fu violata dalla Casa Savoia stessa.

Fin dal secolo XII essa crea i suoi ordinamenti, ha il suo «Consiglio Generale di Tre Stati», il suo «Conseil des Commis», che provvedono saggiamente al suo governo.

Tale è la sua indipendenza e la sua autonomia che il 4 aprile 1537, piccola ma indomita, difende la sua libertà e stringe con la Francia un trattato di neutralità, in virtù del quale non temerà di tener fronte a tutti.

«Le clauses en sont — dice l'abate Henry, nella sua storia sulla Valle d'Aosta — que les français ne rentreront point dans la vallée».

Difatti quando Francesco I re di Francia, farà chiedere alla Valle d'Aosta di passare con le sue truppe, la Valle non esiterà di respingere la sua domanda.

Quando nel 1554 Enrico II, re di Francia, rinnoverà il tentativo, esso avrà lo stesso esito del primo.

I patti non si violano, per questo grande popolo annidato come un'aquila fra le sue montagne superbe, che sono la sua forza e la sua gloria. Nulla le è più caro che la sua libertà ed esso la difenderà sempre in tutti i secoli «ch'a cousta lon ch'a cousta».

Ne è prova anche il responso del 2 giugno: a grande maggioranza il suo voto fu per la Repubblica. La Valle d'Aosta libera, democratica ed antifascista non può volere che un'Italia del popolo.

Difendendo la sua autonomia, non difende solo le sue tradizioni, la sua civiltà, la sua storia, ma altresì la sua individualità etnica, linguistica, geografica giuridica, economica e culturale.

Per questi riflessi provvide furono le leggi del 7 settembre 1945 colle quali venne ad essa riconosciuto il diritto di autonomia, che le spetta in virtù delle sue particolari condizioni, e il diritto di zona franca.

Due anni sono quasi trascorsi da allora, e di fronte a coloro che l'attuale riforma vedono con perplessità, voglio dire qui una parola rassicuratrice di fiducia e di esperienza.

In base all'autonomia riconosciutale, la Valle d'Aosta ha oggi una amministrazione libera, un autogoverno democratico, che non mancherà di rispondere ancora meglio alle sue esigenze, quando al suo diritto acquisito saranno date quelle maggiori potestà che sono necessarie per l'esercizio di una vera autonomia e per l'applicazione dei diritti, che sono ad essa connessi.

Per tali considerazioni, l'ordine del giorno del compagno Nobili Oro, nel quale si chiede lo stralcio, dal progetto di Costituzione, dell'ordinamento regionale sino ad esito del risultato delle autonomie concesse, diventa perfettamente ozioso.

L'esperienza affermativa dei due anni già trascorsi per la Valle d'Aosta, è decisiva al riguardo, per cui non v'è ragione che la riforma debba essere oltre rimandata.

Per questi riflessi, onorevoli colleghi, vi domando di dare il vostro consenso alla riforma, come vi domando, quando vi sarà sottoposto nelle prossime sedute, di approvare l'articolo 108 del progetto, che consacra e garantisce costituzionalmente i particolari diritti della Valle, che ho l'onore di rappresentare.

Farete in tal modo opera saggia ed illuminata, di cui la Valle d'Aosta, la terra dei nostri eroici alpini, è ben meritevole e degna, per i sacrifizi che generosamente essa ha fatto sempre in ogni tempo verso la Madre Patria. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Conti. È iscritto a parlare l'onorevole Pignatari. Ne ha facoltà.

Pignatari. Onorevoli colleghi, uno Stato veramente democratico deve essere soprattutto uno Stato anti-demagogico. Ma non mi sembra, purtroppo, che i partiti politici, nessuno escluso, e la stessa nostra Assemblea dimostrino di voler estirpare del tutto dalla vita nazionale questo pericoloso bacillo, che può minare la vita della democrazia, e con essa la stessa vita e l'unità della Patria.

Ma, intendiamoci: quando parlo di demagogia, non intendo riferirmi al concetto che se ne ha volgarmente, di promesse mirabolanti fatte con la consapevolezza di non poterle mantenere. Questa è una forma deteriore da cui rifuggono — ne sono sicuro — tutti i componenti della nostra Assemblea, anche quando, portati forse dal loro entusiasmo, vedono nel nuovo ordinamento regionale la panacea per tutti i mali e la soluzione quasi automatica di quei problemi del Mezzogiorno, di quella questione meridionale di cui si parla ormai da tre quarti di secolo, ma che non è stata mai organicamente e seriamente affrontata dai governi accentratori del nostro Paese, e di cui guerre e calamità hanno impedito la soluzione, anche quando si erano create le condizioni obiettive, oltre che morali e psicologiche, che ne avrebbero permesso la soluzione.

La demagogia più pericolosa consiste nel porre sul tappeto dei problemi che non sono sentiti dalla coscienza nazionale e la cui soluzione è o difficile o controproducente, principalmente per le conseguenze e per le reazioni che ne possono derivare.

Ora, io esaminerò il problema dell'ordinamento regionale esclusivamente come uomo del Mezzogiorno d'Italia, di questa nostra terra che si trova purtroppo in una situazione di inferiorità per la mancanza di vie di comunicazione, per la mancanza di assistenza igienica e sanitaria, per i suoi torrenti che straripano senza che si provveda ad arginarli e a bonificare le terre, per lo stato primordiale in cui vive la sua agricoltura, per l'analfabetismo, per la mancanza di scuole professionali. E se si tengano presenti le condizioni in cui vivono principalmente i nostri contadini, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione meridionale, se si tenga presente che essi vivono ancora in capanne o in stamberghe che dovrebbero far vergogna alla civiltà umana, se si tenga presente d'altra parte lo spirito laborioso di queste popolazioni (qualcuno ha accennato in quest'Aula ad una forma di apatia e ad una mancanza di laboriosità: orbene, i contadini del Mezzogiorno d'Italia sono dei lavoratori che non temono con alcun altro il confronto!); ebbene, si deve soltanto a questo spirito di laboriosità, si deve soltanto a questo spirito di sacrificio se essi coltivano ancora una terra infeconda vivendo, come ho detto, in capanne o in stamberghe, nutrendosi soltanto di cereali e di verdura!

Ebbene, fra le loro capanne, fra le loro stamberghe troneggia il castello semidistrutto o riattato dal borghese arricchito, simbolo di una feudalità che non è ancora scomparsa! Al vecchio feudatario si è sostituito ieri il podestà e il segretario politico. C'è il pericolo oggi che vi si sostituisca il sindaco o il deputato alla rappresentanza provinciale.

Perché, onorevoli colleghi, allorquando si è voluto indagare sulle cause che hanno ridotto il nostro Mezzogiorno d'Italia in una situazione d'inferiorità di fronte alle altre regioni d'Italia, si è stati forse esclusivisti e si è voluto guardare da un lato solo il problema: la classe dirigente, contro la quale giustamente lanciava i suoi strali l'onorevole Gullo. Sì, la classe dirigente ha le sue colpe: la clientela è uno dei mali dell'Italia meridionale. Questa classe dirigente che, secondo scriveva Dorso, ha creduto di risolvere il suo problema sociale col contratto di fitto quando si è tramutata in una borghesia terriera; questa classe dirigente che non partecipa alla direzione e alla conduzione della terra, che è formata in gran parte o di quei cosiddetti galantuomini (che non sono i gentiluomini di campagna) che vivono nell'ozio e nell'ignavia, o dei grandi proprietari terrieri assenteisti che vivono nelle città e conoscono i loro fondi soltanto per poterne esigere le rendite.

Certo, a questa classe dirigente risale in parte la colpa delle condizioni di inferiorità in cui si trova il Mezzogiorno d'Italia.

Altri ha voluto ricercarne le cause nell'accentramento statale. Vi è certo bisogno di un largo e radicale decentramento. Ma a questo decentramento bisogna concorrere coi fatti, non bisogna soltanto invocarlo a parole. Noi abbiamo degli organi di decentramento. Abbiamo, per esempio, un Provveditorato alle opere pubbliche. Ora, non v'è cosa più pericolosa, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, che voler creare delle illusioni.

Nella mia povera terra, nella terra di Basilicata, si fece un programma seducente: sette miliardi dovevano essere spesi per i lavori pubblici. Fu un'euforia: ogni comune presentava i suoi progetti; e si parlava di bonifiche, si parlava di costruzione di edifici scolastici, di arginature di torrenti, di consolidamento degli abitati. Poi i sette miliardi per i quali tanti programmi di utilizzazione erano stati stesi, si ridussero a qualche centinaio di milioni e, quel che è peggio, il programma redatto dal Provveditorato per le opere pubbliche, che teneva presenti le reali necessità e le più urgenti esigenze della regione, fu invece manipolato dal centralismo governativo. Si è così assistito a questo: una nostra cittadina, Venosa, nota non fosse altro che per essere stata patria di Orazio, aveva con stenti e sacrifici costruito un ospedale. Mancavano cinque milioni per poterlo ultimare, e cinquantamila cittadini avrebbero finalmente ottenuto il nosocomio che rispondeva alle loro esigenze. Ebbene, onorevoli colleghi, non voglio dire che sia stato per ragioni politiche o per influenza di Tizio o di Caio; ma il fatto è che i cinque milioni non sono stati dati a Venosa, che aspetta ancora il suo ospedale.

Parlo del centralismo che, siamo d'accordo, è la rovina d'Italia, che è stata una delle cause maggiori delle tristi condizioni nelle quali si trova il nostro Mezzogiorno; ma che non è l'unica causa; né si creda che abolendo i prefetti verranno meno le clientele. Il male è molto più profondo, il male è alla radice. Bisogna anzi riconoscere che molte volte il prefetto è un elemento moderatore, perché si trova al di fuori delle consorterie locali. Quando saranno istituiti i parlamenti regionali con gli ampi poteri che saranno loro dati, il fiore oscuro della clientela vegeterà non più nell'ombra, ma fiorirà alla luce del sole.

Per andare alle cause della depressione del Mezzogiorno d'Italia bisogna farne l'esame da un punto di vista economico, da un punto di vista sociale e da un punto di vista politico.

Dopo la formazione dell'unità d'Italia, quante speranze non sorsero, quante speranze non si ravvivarono! E non si chiedeva molto. Sarebbe stata sufficiente una rete di strade che avesse unito fra loro i vari centri della regione; un rinnovamento della cultura, una educazione popolare. Ma una prima maledizione cadde sul Mezzogiorno d'Italia: il brigantaggio, le cui conseguenze furono deleterie, perché attorno a questi ribelli e fuori legge si riunirono tutte le consorterie politiche che avevano dominato sotto il regime borbonico; e per dieci anni la vita del Mezzogiorno d'Italia divenne insicura: le campagne furono disertate, i contadini si ritirarono nei borghi e l'emigrazione, che oggi è invocata come un rimedio dei nostri mali, fu purtroppo una delle cause del disagio in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno d'Italia, perché la terra rimase spopolata, alcuni paesi videro addirittura ridotti a metà i loro abitanti e la coltura rimase una coltura intensiva senza che la depressione economica, dovuta al nuovo sistema tributario dello Stato italiano, potesse sollevarsi. Noi siamo un po' (noi del Mezzogiorno) le vittime del capitalismo; abbiamo risentito tutti i danni del capitalismo senza poterne risentire vantaggi.

In questo paese dall'agricoltura primitiva e con una pressione fiscale e tributaria che viene sempre aumentando, quelle stesse classi dirigenti, favorite d'altra parte dalla loro ignavia, si trovarono quasi nell'impossibilità di poter investire i loro capitali nella terra: e così la industrializzazione della terra è rimasta un sogno o un'aspirazione di pochi. Si è continuato come prima e peggio di prima, ed ora ci affliggono due mali: da un lato il latifondo, e dall'altro la polverizzazione della terra. Perché la polverizzazione della terra rende impossibile una cultura progredita; la polverizzazione della terra rende assolutamente impossibile una direzione tecnica in queste aziende frazionate e, come giustamente osservava ieri il compagno onorevole Canepa, si sono soppresse perfino, durante il regime fascista, quelle Cattedre ambulanti d'agricoltura che tanto bene avevano fatto, non per la esposizione di principî teorici che lasciano il tempo che trovano, ma per l'insegnamento pratico che esse potevano dare agli agricoltori. Ora la popolazione è aumentata e, naturalmente, come comprendete di leggieri, è enormemente aumentato il disagio. Oggi le colture sono le stesse, ma vi è la fame della terra e la distruzione dei nostri boschi. Molto abbiamo dato quel poco che avevamo quando la Patria ne aveva bisogno. La Lucania, regione boscosa, la Lucania che doveva vivere e doveva incrementare principalmente l'industria armentizia, perché l'industria granaria è in gran parte antiproduttiva, ebbene la Lucania ha avuto i boschi distrutti, e l'agricoltura abbandona le pendici montane dove infuria la malaria e le frane si ripetono con un crescendo pauroso. Ed a tutto questo quali rimedi arrivano dal Governo centrale? Il decreto Segni. Ma il decreto Segni ha avuto; e può avere delle gravi conseguenze. Perché, onorevoli colleghi, con la fame di terra che vi è in Lucania e in molti altri paesi del Mezzogiorno, invece di risalire alle cause, di incrementare l'agricoltura, di cercare, dove possibile, di tramutare l'agricoltura estensiva in intensiva, si concedono le cosiddette terre incolte, che non esistono, si distruggono i pascoli, e quindi la riserva della nostra regione, che non è adatta alla coltura granaria. Né si affidano questi terreni alle Cooperative, che esistono soltanto di nome, perché non si pensa a fornirle di mezzi; ma si continua nel vieto sistema di polverizzare ancora più la terra, con conseguenze davvero disastrose.

Ed allora, per tentare di risolvere questo problema, vi è bisogno d'una trasformazione agraria e fondiaria, tenendo presenti i tre mali che affliggono la nostra agricoltura, e cioè: deficienza tecnica della coltura del suolo, polverizzazione della terra, coltura estensiva del latifondo.

Occorre bonificare i terreni, arginare i fiumi, fare opere di irrigazione o di viabilità, che facciano sorgere attorno al vecchio latifondo piccole, medie ed anche grandi aziende consorziate.

Lo Stato deve intervenire, in via indiretta, per porre, cioè, le condizioni necessarie alla restaurazione dell'agricoltura, della viabilità, del risanamento dalla malaria, della irrigazione, dell'igiene, dell'istruzione elementare e tecnica; in via diretta, dando i fondi necessari per agevolare la trasformazione delle aziende agrarie.

Con il miglioramento delle colture potrà sorgere nella nostra regione un'industria che possa utilizzare i prodotti della terra.

Non fa pena al cuore attraversare per diecine e diecine di chilometri la nostra regione, senza scorgere nel lontano orizzonte un fumaiolo che sia segno di attività industriale?

Noi abbiamo, ad esempio, vini ed uve pregiate, le uve del Vulture. Ebbene, ogni anno vengono gl'industriali del Piemonte a prelevare queste uve, che ritornano poi sotto forma di Barbera e Grignolino.

Non è sorta una cantina sperimentale, non vi è un solo vino tipico nostro.

Noi abbiamo legno in abbondanza ed anche legni pregiati.

Durante la grande guerra, e durante l'ultima guerra, il legno della Lucania è servito per costruire i compensati degli aeroplani; viene prelevato per essere portato nei grandi mobilifici industriali. Non vi è, onorevoli colleghi, una sola industria che utilizzi queste materie prime.

Abbiamo olii pregiati. Non vi è una sola raffineria.

I prodotti della nostra terra non servono come mezzo di consumo; servono come mezzo di speculazione.

E questa è un'altra delle cause che, purtroppo, hanno dato al Mezzogiorno d'Italia il marchio ed il sigillo di inferiorità.

E vi è un altro pericolo: la politica tributaria, la politica fiscale.

Noi non abbiamo altre risorse, mentre nel nord d'Italia vi è il flusso della esportazione ed il riflusso delle monete pregiate; da noi si sentirà soltanto il peso e il danno delle necessarie imposizioni fiscali, le quali, se non saranno applicate con opportune esenzioni, con idonee facilitazioni tributarie, finiranno col recidere ed esaurire le fonti stesse della produzione. E vanamente cercheremo di creare un movimento di industrializzazione della terra e di far sorgere l'industria. Per cui, quello che oggi è un solco profondo, che divide il Nord e il Sud, potrà diventare domani un baratro davvero incolmabile.

Ora, qui sorge il problema: per noi del Mezzogiorno d'Italia il nuovo ordinamento regionale è un bene o è un male?

Una voce. È un bene.

Pignatari. Non credo che possa essere un bene. Dovremmo essere regionalisti, noi del Mezzogiorno, per protesta, per un innato spirito di ribellione contro lo stato di inferiorità in cui ci hanno lasciato. Ma credete davvero che con l'instaurazione, con l'adozione dell'ordinamento regionale, la nostra situazione possa avviarsi verso una favorevole soluzione? Troppo imponenti sono i problemi e vi è bisogno di una concezione unitaria, la quale potrà avviare la questione meridionale alla sua soluzione, attraverso un profondo decentramento amministrativo.

Io non sono aprioristicamente contrario all'ordinamento regionale: ne vedo i vantaggi, ma ne vedo i danni che possono derivare al Mezzogiorno d'Italia.

Si parla, onorevoli colleghi, di un fondo di solidarietà nazionale, perché tutti i nostri bilanci saranno deficitari. Non facciamoci illusioni.

Un oratore della democrazia cristiana diceva ieri: anche oggi lo Stato deve spendere e dare 30 miliardi per cercare di sanare i dissestati bilanci delle province e dei comuni. E malgrado questo fondo di integrazione, siamo quasi in uno stato preagonico. Vi dovrebbe essere un fondo di solidarietà nazionale, ma l'egoismo è purtroppo la molla delle azioni umane e l'egoismo è anche la molla dei vari particolaristici aggregati sociali.

La perequazione dei bilanci delle future amministrazioni regionali dell'Italia Meridionale (come pure di quelle del Nord) sarebbe soprattutto un atto di giustizia e di riparazione sol che si tenga presente che nei momenti del bisogno e del pericolo l'Italia meridionale ha dato le scarse materie prime di cui disponeva per requisizioni disposte dal Governo centrale nell'interesse del Paese.

Il Mezzogiorno soffre soprattutto per la sua stessa scarsa economia, per la inesistente attrezzatura industriale, oltreché per la pavidità dei suoi risparmiatori che preferirono l'investimento in titoli dello Stato, la cui dolorosa svalutazione costituisce altra causa della fuga del capitale.

Noi siamo come un naufrago e ci troveremo domani nelle condizioni di non aver aiuti da nessuno. È inutile farsi illusioni. La lotta è fra lo Stato e le regioni, fra le regioni e le province. Ne abbiamo la prova nello Statuto siciliano. Faccio una parentesi: perché è stato concesso lo Statuto siciliano, l'autonomia alla Sicilia? Diciamolo con franchezza: perché vi era un movimento separatista che si è voluto fronteggiare, non perché la Sicilia avesse bisogno della sua autonomia. Ma la Sicilia, onorevoli colleghi, ha un suo Statuto che servirà di esempio a tutte le altre regioni d'Italia. Quando nello Statuto siciliano noi leggiamo che lo Stato riscuoterà soltanto le entrate di produzione e i proventi dei monopoli e che lo Stato contribuirà con un fondo speciale in favore della Sicilia, lo Statuto siciliano sarà preso ad esempio da tutte le regioni. Allo Stato verranno a mancare i mezzi per poter far fronte alle richieste e vanamente si chiederà alle fortunate regioni del Nord di venire incontro ai nostri bisogni, e quell'antagonismo che purtroppo affiora tra Nord e Sud diventerà ancora più manifesto, renderà ancora più insuperabile la barriera che minaccia di separare queste due parti.

Ed allora, onorevoli colleghi, io mi domando: potrà lo Stato, cui verranno meno i mezzi, provvedere alla soluzione di questo grande problema meridionale che è il problema che interessa la stessa vita e la stessa unità della Patria?

Potrà lo Stato creare davvero questa industria manifatturiera nel nostro Mezzogiorno, che è problema unitario e non potrà essere risolto dai singoli parlamenti regionali? Potrà, onorevoli colleghi, provvedere, sia direttamente che indirettamente, a creare quelle condizioni che possono permettere il risorgere delle industrie locali?

A Napoli si è tenuto un interessante convegno, un congresso per lo studio dei problemi del Mezzogiorno, le cui conclusioni non hanno avuto la diffusione che avrebbero meritata. Premetto che in questo convegno si è espresso un voto favorevole al problema dell'autonomia regionale, ma vi è stata una deliberazione che suona così: «Chiediamo che il passaggio al nuovo ordinamento regionale sia attuato con gradualità e che, fino al completo risanamento della vita economica nazionale e soprattutto meridionale, lo Stato concorra mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie e con concessioni opportune, specie tributarie, alla perequazione finanziaria degli enti regionali del sud con quelli del nord».

Ora, io avevo proposto un ordine del giorno in cui riassumevo, questi concetti. Se la nostra Assemblea approverà l'ordinamento regionale, bisognerà andar cauti e procedere per gradi. Bisogna cercare di eliminare questa profonda sperequazione che vi è tra nord e sud; bisogna mettere i nostri parlamenti e le nostre amministrazioni regionali in condizioni di poter vivere e di poter espletare le loro mansioni, in condizioni di poter raggiungere i compiti che essi si propongono di raggiungere. E bisogna andar cauti perché, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, sorgerà la lotta tra provincia e provincia e, siatene sicuri, anche in quest'Aula. Ne abbiamo avuto le prime avvisaglie nel progetto originario della Sottocommissione. Non si parlava dell'ente provincia, ma l'ente provincia è risorto poi pericolosamente nel progetto definitivo. Oggi che avviene? Vi è un fermento: ogni provincia aspira a diventare capoluogo di regione. Sento dei nomi, e — lo confesso — li ricordo vagamente come lontane reminiscenze dei miei studi liceali: i Dauni, i Peuceti; mi sono domandato chi fossero, credo che siano i baresi, i quali aspirano ad avere il loro capoluogo di provincia come capoluogo di regione; e Taranto e Lecce sono in lotta tra loro, e, se andiamo in Abruzzo, vi sono Aquila e Pescara «l'un contro l'altra armate»; Sassari e Cagliari; Avellino e Salerno, città della quale così simpaticamente parlava l'altro giorno l'amico Rescigno. Tutto questo si verifica soprattutto nel Mezzogiorno, perché dove non vi è coscienza politica elevata, dove la coscienza politica sorge ora, vi è ancora il campanile e la fazione che si ammantano a volte di rosso e a volte di nero, per mettere innanzi vecchi uomini e per sostenere le vecchie clientele: il capoluogo della regione deve costituire il mezzo perché le clientele possano vivere e prosperare, a mezzo delle leggi e dei regolamenti, spandendo i loro tentacoli nell'intera vita regionale.

Ma tutta questa, signori, è roba deteriore. Sono inconvenienti che passeranno col passare del tempo. Mettiamo questo nostro Mezzogiorno d'Italia, questo povero Mezzogiorno d'Italia, in condizioni di poter vivere: non è soltanto un problema che riguarda il Mezzogiorno, ma riguarda tutta l'Italia. (Applausi).

Presidente Conti. È iscritto a parlare l'onorevole Grazi. Ne ha facoltà.

Grazi. Io sono uno di quei socialisti, cui alludeva il compagno Bordon, che non capiscono la regione. Non capisco la regione, perché effettivamente non so in che cosa consista in Italia. Può darsi che gli oratori che hanno sostenuto con grande calore la regione, di cui uno è stato Bordon — ed è logico che lo sia perché è un valdostano e la Val d'Aosta è stata sempre una regione, mentre è stata elevata a provincia pochi anni fa — abbiano le loro ragioni per sostenere la creazione del nuovo ente. Un altro che ha creduto di poter creare la regione è stato l'onorevole Tessitori, perché lui confonde la regione con la provincia di Udine. Ho sentito molti altri regionalisti che confondono la regione con la provincia. Io non farò la storia né della regione né della provincia, perché sarebbe una cosa di poco buon gusto; però osservo che i più sinceri ed accaniti assertori dell'Ente regione sono proprio quelli che assimilano la regione alla provincia. Naturalmente, fra questi, ci sono anche gli onorevoli Lussu e Mastino, ma essi sono degli isolani, quantunque io non condivida le loro opinioni, perché se non sono isolano nato lo sono di adozione, perché ho vissuto tanti anni in Sardegna, e la Sardegna la conosco così bene che vi posso assicurare che il movimento sardista è tutt'altro che un movimento a carattere regionale. È un movimento che è nato e che ha avuto il suo periodo di grande splendore nel 1919, 1920 e 1921, quando i sardi, dopo la guerra vittoriosa, si sono accorti e si sono convinti che effettivamente la Sardegna era stata trascurata dal governo centrale. Poi, il movimento sardista si trasformò in un movimento di ribellione vera e propria contro il fascismo, e si identificò in quegli uomini che abbiamo anche al Parlamento: Lussu, Mastino ed altri, che effettivamente rimasero fedeli a questi principî. Non cito quelli che si sono sbandati, ma quelli che hanno mantenuto effettivamente al movimento sardista quel carattere di antifascismo che è stato veramente tipico. Lussu e Mastino sono stati perseguitati, e Lussu è dovuto andare perfino all'estero. E così tanti altri ancora di cui mi sfugge il nome. In ogni modo, però il fenomeno sardista è andato attenuandosi quando è caduto il fascismo, è andato attenuandosi attraverso una grande crisi, perché il sardismo era un movimento idealistico, era un movimento di protesta e racchiudeva sotto le sue larghe ali tutti i sardi, dal latifondista Pietro Paolo Comida al servo pastore. C'era gente di tutte le categorie, e francamente il movimento non poteva essere che un movimento creato anche per ragioni di carattere particolare. In Sardegna ci sono moltissimi paesi che erano sardisti al cento per cento e che ora non lo sono più: ora sono democristiani, comunisti, socialisti, qualunquisti ecc., e del resto lo dimostra il fatto delle elezioni.

Chieffi. Perché tutti i partiti hanno fatto una propaganda autonomistica.

Grazi. Effettivamente oggi il fenomeno del sardismo si è riportato nei suoi giusti termini e non ci sono più tanti equivoci: abbiamo visto una differenziazione per cui ognuno, secondo i propri interessi, si è tirato da una parte o dall'altra. Si può dire che il sardismo esiste ancora in quanto esistono uomini come Mastino, Lussu e qualche altra figura che tengono vivo questo movimento. Questo vi dice che la tendenza regionalistica non esiste nemmeno in Sardegna. In Toscana poi non esiste affatto.

Lussu. È accaduto che i comunisti, per esempio, per costituirsi in partito, hanno dovuto dichiararsi autonomisti.

Grazi. Di questo le do ragione.

Lussu. In realtà il partito sardo di azione è stato creato perché tutti i partiti hanno fatto dell'autonomismo.

Grazi. Io le auguro che il suo partito di azione conservi a lungo uomini come Lussu e Mastino; ma effettivamente bisogna convenire che non esiste una coscienza regionalistica in Sardegna.

Quale è il vantaggio della costituzione della regione? È quello di costituire sostanzialmente un apparato burocratico ed una legislazione più aderente ai bisogni locali. Ma lei crede, onorevole Lussu, che in Sardegna, con l'autonomismo sardo, sia possibile fare una legislazione più aderente di quella che si può fare a Roma?

Lussu. Io sono per l'unità nazionale, ma le dico che se la Sardegna potesse avere una organizzazione tipicamente federale, per cui tutti i problemi venissero affrontati e risolti in Sardegna, sarebbe l'ideale per la Sardegna e per l'Italia.

Grazi. La Sardegna vive essenzialmente del suo allevamento di bestiame, del carbone Sulcis (fino a che non ci saranno le concorrenze straniere), vive dei minerali di zinco e di piombo e nient'altro; perché il rame non è utilizzabile in Sardegna, così come non è utilizzabile il manganese, e non estraibile nemmeno il ferro. E le dirò di più, onorevole Lussu: che la Sardegna se, per disgrazia, come ricordava anche l'onorevole Mastino, dovesse avere gli operai in sciopero avrebbe la fame, morirebbe di fame. E così anche per quanto riguarda il bestiame, lei sa che c'è una morìa, delle pecore specialmente perché, quando c'è troppa siccità, il bestiame muore di fame ed è colto da particolari malattie.

Lussu. Scusi, perché questo?

Grazi. La Sardegna non è affatto autosufficiente.

Lussu. Ma permetta: io sono, come parecchi in quest'Aula, amico intimo dei massimi rappresentanti del Canton Ticino che è uno dei più poveri, ed è forse per questo che il Canton Ticino non entra in quella solidarietà nazionale che sarebbe auspicabile, come è naturale? (Commenti Interruzioni).

Presidente Conti. Onorevole Lussu, non interrompa.

Grazi. L'onorevole Lussu diceva che, se la Sardegna avesse una sua amministrazione propria, essa sarebbe felice. Ora, io non ho dubbi sul sentimento italiano dei sardi: su questo sarebbe inutile discutere. Ma io voglio dire un'altra cosa, ed è che non sono per niente convinto che un'amministrazione creata per la Sardegna dagli stessi sardi sarebbe più provvida che non un'amministrazione creata dal potere centrale. Io, in altri termini, non accedo al criterio che i sardi sarebbero in grado di creare per loro una legislazione più aderente ai bisogni del luogo che non sia quella creata dal potere centrale per tutte le altre parti d'Italia.

È da notare inoltre che le varie zone della stessa Sardegna presentano caratteristiche diverse ed è quindi, anche sotto questo aspetto, inutile che legiferi Cagliari per tutta l'isola.

Io vedo per esempio la stessa Toscana, che ha caratteristiche così diverse: vedo che, quando vengono disposizioni relative agli ammassi del grano, si verifica questo: si dà il premio a chi ha meno faticato perché favorito dalla natura e chi porta dopo il grano, come quel disgraziato che lavora in montagna, dove la resa è di sei o sette per uno e anche di meno, non ha il premio. Eppure quelle disposizioni sono state attuate localmente.

È difficilissimo quindi poter fare una legislazione aderente alle località, solo perché legiferano Firenze o Cagliari anziché Roma.

Si potrà studiare, sì, localmente l'adattamento delle leggi, ma non si dovrà legiferare ex novo. La regione, così come voi la volete configurare, non è né carne né pesce.

Io vedo nella regione, così come essa è concepita nel progetto di Costituzione, un pericolo gravissimo. Che cosa facciamo noi infatti? Per limitare quella burocrazia di cui abbiamo tanta paura, per tagliare ad essa le unghie, noi facciamo una cosa semplicissima: creiamo ancora dell'altra burocrazia.

Che cosa avverrà poi? Avverrà che il numero delle regioni finirà col diventare inverosimile, perché tutti o pressoché tutti i capoluoghi delle attuali province aspireranno a formare una regione. Noi creeremo allora una burocrazia mastodontica, soffocante, costosa.

Mi meraviglia soltanto una cosa, che cioè l'onorevole Einaudi, il quale fece un esame così acuto dei pericoli che può rappresentare la regione, non si sia soffermato — lui, economista — su quello che è il costo della nuova burocrazia che si costituisce, il costo di tutti questi nuovi Parlamenti, non dico «parlamentini», perché non voglio disprezzare quelli o questi che verranno. Ma tutto questo quanto ci costerà? Io non mi voglio indugiare su tutti gli altri inconvenienti che ci possono essere; dico semplicemente questo: che noi, per evitare questi pericoli, per cercare di fare una riforma della burocrazia, per snellirla, ne facciamo dieci, venti o trenta, secondo quante saranno le regioni.

E quando si sono fatti gli esperimenti del decentramento anche amministrativo sotto certe forme, proprio sul modello ministeriale, sono successe delle catastrofi; perché io ho vissuto in Sardegna prima dell'istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche e dopo: si stava molto meglio quando il Provveditorato non c'era. Alcuni hanno confuso il Magistrato delle acque di Venezia come un organismo meraviglioso di decentramento amministrativo. Il Magistrato delle acque è una cosa vecchia quanto la Repubblica veneta, è un organismo particolare che ha una mansione speciale, quella di disciplinare le acque — problema fondamentale del Veneto, con la laguna e tutti i suoi fiumi — e niente altro. Ma il giorno in cui al Magistrato delle acque si dovesse dare la caratteristica che si dà al Provveditorato, noi otterremmo questo risultato meraviglioso: invece di avere una sola Corte dei conti, avremmo la Corte dei conti centrale e venti Corti dei conti periferiche. Io so per esperienza, perché ho lavorato coi Provveditorati, quanto mi è costato incassare quattro soldi; perché un mandato deve prima passare dall'ufficio revisione alla Corte dei conti impiegando una settimana; ma per uscire dalla Corte dei conti, caro mio, ce ne voleva! Poi quando si tratta di cifre più imponenti, non basta più il Provveditorato ma devi ricorrere al Ministero. È tutta una complicazione tale che fa paura. Poi, si prenda un altro esempio: è stata fatta una prova coi Provveditorati agli studi in campo regionale: è stato un altro fallimento.

Ambrosini. Perché hanno soppresso quelli provinciali! (Commenti).

Grazi. Non voglio parlare della Regione per il gusto di parlare contro: voglio portarvi qualche cosa di concreto. Io sono un sindaco, oggi, amministro una città modesta, capoluogo di provincia. Ho fatto il consigliere comunale quando ero giovanotto, nel 1919-1920 circa; quindi so un pochino come vanno le cose. E vi dico perciò: voi avete fatto un progetto per stabilire tutta la regolamentazione di una regione, e vi siete dimenticati di mettere un articolino, piccolo piccolo, relativo all'autonomia dei comuni. Voi mi risponderete facilmente che sarà una legge, una legge speciale che vi provvederà. D'accordo. Però vi dico che il problema della creazione di un ente nuovo è un problema grave, più di quello della regolamentazione di un ente che bene o male ha funzionato. E voi oggi volete che vi dica che questa regolamentazione va bene? Io vi dico di no. Il collega Bordon ha fatto presente magnifiche situazioni storiche e ha detto tante belle cose, ma che si riferiscono solo alla Val d'Aosta. Io per fare la stessa documentazione di Bordon dovrei riferirmi al comune di Firenze, al comune di Siena, per quanto si riferisce alla Toscana; e così potrei portare esempi anche per i comuni della Venezia e di altre regioni d'Italia. E allora identifichiamo la regione col comune meridionale, e su questo posso essere d'accordo con voi. Ma quel comune è la provincia di oggi e non è vero che la provincia di oggi sia un ente inventato per il gusto di inventare. Per esempio, la Toscana: nell'opinione pubblica è assolutamente radicata la convinzione che la Toscana sia omogenea, sia qualche cosa di perfettamente definito. Si dice: la Toscana è la terra dove si parla la vera lingua. Ebbene: io, toscano e senese, vi dico che neanche in provincia di Siena si parla la vera lingua. C'è una notevole differenza fra un paese e l'altro. Molti, anche persone assai colte, credono che sia così. Ma non è così, e la ragione c'è: perché la Toscana è stata caratterizzata essenzialmente, dopo la caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche, dai comuni che l'hanno riordinata, che hanno stabilito delle caratteristiche; i comuni si sono affermati in determinati spazi vitali, chiamiamoli così, che hanno notevole omogeneità dal punto di vista geofisico, che hanno dialetti e tradizioni comuni, che hanno tutte quelle caratteristiche che erano le caratteristiche del comune toscano e sono la provincia di oggi.

Ora, io capirei perfettamente che le autonomie si potessero reclamare per provincia. E quando voi mi dite che la provincia non ha mai funzionato, io sono d'accordo con voi. La provincia non ha funzionato per molte ragioni, perché la provincia, intanto, è stata organizzata come un qualche cosa di estraneo al comune. Fino al 1888 la provincia mi pare avesse un'ingerenza su quello che era l'andamento dei comuni, ma dopo quella data la provincia è stata un organismo a sé che non ha avuto più niente a che fare col comune. E, quindi, la presenza del prefetto e la confusione fra prefettura e provincia. È una confusione che molti hanno fatto, poiché molti identificano, per esempio, il medico provinciale con un funzionario della provincia. Ed ecco l'odio contro il prefetto, che è stato visto sempre come la mano governativa, come l'oppressione di quelle libertà più elementari reclamate e sentite da tutti i comuni. Per tutte queste ragioni la provincia è stata sempre quasi disprezzata.

Non vi farò citazioni storiche perché sarebbe fuori luogo e sarebbe pura retorica, perché noi non dobbiamo guardare la storia oltre certi limiti, ma dobbiamo guardare a quella che è la realtà delle cose e a quella che è la reale esperienza. Noi dobbiamo dire che la provincia può essere un ente di grande utilità, a patto che la provincia si trasformi in un elemento coordinatore dell'attività dei comuni. (Interruzione dell'onorevole Targetti).

Il consorzio no; il consorzio è una cosa troppo aleatoria ed ho una esperienza in proposito di consorzi che si fanno per le strade comunali, per le condotte veterinarie ecc. Non funzionano mai.

Uberti. Ma io non ci tengo al consorzio.

Grazi. Benissimo, se noi partissimo dal comune al quale si desse una vera autonomia finanziaria, noi potremmo coordinare l'azione dei Comuni, con un organismo del quale facessero parte anche i rappresentanti dei Comuni, ma dando il carattere provinciale a questo organismo, affinché si occupasse di tutti quei problemi che sono insolubili nell'ambito comunale come per esempio il problema ospedaliero. È insolubile perché tutti i Comuni, piccoli e grandi, hanno la pretesa di avere degli ospedali che sono in genere sproporzionati alle loro possibilità. Il Comune piccolo quindi è insufficiente a tenere l'ospedale, mentre il Comune grande è insufficiente a tenerlo così come dovrebbe esser tenuto. Perché è insufficiente? Perché all'ospedale affluisce gente di altri Comuni, che non paga la quota di spedalità.

Quindi se la provincia, così concepita, provvedesse alla organizzazione di tutto il servizio ospedaliero, creando un ospedale sufficiente nel capoluogo della provincia e riducendo le proporzioni degli ospedali periferici, istituendo posti di pronto soccorso, posti di degenza per malattie brevi, si potrebbe ottenere una compensazione delle spese, ed allora si potrebbero organizzare veramente ospedali funzionanti e rispondenti. (Interruzione dell'onorevole Uberti).

Oggi siamo nella situazione per cui in molte città e in molti capoluoghi di provincia si deve ricorrere al capoluogo di regione se si vogliono determinate cure. Questa è una realtà.

Vi è ancora un problema molto serio. Noi abbiamo le imposte di consumo. La esazione delle imposte nei Comuni poco progrediti si fa in economia diretta. Bisognerebbe quindi creare uno strumento provinciale che facesse tutto questo servizio di imposte e di tasse sfuggendo allo strozzinaggio degli esattori comunali, ai guadagni troppo grossi che fanno gli appaltatori attuali. Non si incapperebbe nell'altro guaio di avere alle dipendenze dirette dei Comuni un personale che finisce per adattarsi alle situazioni e per non fare più bene il suo servizio. Su basi provinciali si avrebbero le caratteristiche di una burocrazia quasi nazionale con la snellezza e la facilità di controllo che si può avere nell'ambito della provincia. Bisognerebbe quindi studiare una organizzazione, una riorganizzazione su queste basi.

Non pretendo di fare il legislatore all'impronta. Non pretendo di portare la panacea a tutti i mali. Sono suggerimenti che non credo siano inutili. Se noi facessimo una cosa del genere, noi arriveremmo ad organizzare un qualche cosa di veramente decentrato, di veramente serio, che potrebbe avere un carattere provinciale e potrebbe assumere addirittura quell'importanza che oggi si vuole dare alla regione. Non discuto i limiti dei poteri che devono essere dati. Non li so. Non ho la pretesa di saperli, perché credo che chiunque dica «si deve fare così» sia un presuntuoso.

Giudicare su un problema di questa importanza semplicemente su articoli che sono stati esposti e non domandarsi di quelle che possono essere le conseguenze nel campo pratico, è un errore fondamentale.

Non ho paura di federalismi, io. Ma dico: per arrivare a questo, guardiamoci bene dentro in questo problema; cerchiamo di farlo e invece di fare un esame affrettato (se noi pretendessimo di fare un esame affrettato ci vorrebbero sei mesi)...

Una voce. Sono sessanta anni che si studia.

Grazi. Ma non è stata mai proposta una soluzione pratica. Io vi dico: invece di andare a fare grandi considerazioni ed a spendere tante parole mettiamoci d'accordo e diciamo: stabiliamo il principio di creare questi enti nuovi (la ripartizione in regioni non saremmo noi che riusciremo a farla, perché prima di stabilire quali devono essere le regioni ed i capoluoghi di regione noi saremmo seppelliti di lettere); diciamo, inoltre, in modo molto semplice: ammettiamo in linea di principio la costituzione di questi nuovi enti e demandiamo al futuro legislatore l'organizzazione di essi. A questa cosa, con un po' di buona volontà, oggi, si può arrivare.

Io, per esempio, sono un fautore dell'autonomia della Venezia Tridentina, perché effettivamente c'è della gente che vuole l'autonomia. Noi, quell'autonomia l'abbiamo concessa volentieri perché speravamo nella contropartita: l'autonomia della Venezia Giulia.

Le autonomie, come sono impostate nel nostro Statuto, sia per la Sardegna che per la Sicilia, non le concepisco: sono due aberrazioni. Capisco, per quanto riguarda la Sardegna, che si conceda l'autonomia a Sassari, Cagliari e Nuoro, ma quando si concede a tutta la Sardegna!... (Commenti, interruzioni).

Lussu. Ha visto la Sardegna?

Grazi. La realtà è questa.

Lussu. Porterò i bollettini segreti dell'Ente nazionale per le ricerche scientifiche e vedrete il miserabile sfruttamento che questo centralismo ha fatto in Sardegna. Parlerò in questa sede.

Grazi. Io ho detto, e non intendo ripetere quello che hanno detto altri; la base dello Stato è il Comune; e l'autonomia dei Comuni deve essere studiata, come si deve; poi è desiderabile che, al di sopra del comune, ci sia un organismo coordinatore dell'azione dei comuni; io l'ho già creato, ho fatto la Lega provinciale dei comuni, alla quale aderiscono indistintamente tutti i comuni della provincia, che studiano insieme tutti i problemi che ciascun comune non può risolvere per conto proprio.

Per la provincia vedere quale sistema seguire per darle autonomia.

Io non sono in grado di improvvisare e ritengo nessun altro; chi pretende di farlo, probabilmente è presuntuoso.

Questo problema è grave ed importante, perché interessa l'organizzazione nuova dello Stato.

Mi si diceva l'altro giorno che Caldara era per l'autonomia delle regioni; Zanardi, che è stato sindaco valente quanto Caldara, è contrario all'autonomia regionale.

Quindi, uno la pensa in un modo, l'altro in un altro.

Io posso pensarla a modo mio.

E vedo che l'organizzazione dello Stato su basi nuove non si può fare altrimenti che valorizzando l'autonomia dei Comuni e poi delle province, quali organi coordinatori dei comuni.

La regione è creazione completamente artificiosa. Se volete, cambiamo per regione le province, e così sarete contenti. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti