[Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Valiani. [...] E ancora vi dirò che la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, che è invece un'esigenza giusta e concreta, non trova, a mio parere, posto in questo articolo 1, perché non costituisce un principio giuridico e politico, ma è un obiettivo sociale concreto. Quando verremo a discutere dei consigli di gestione, per i quali noi voteremo, là evidentemente questa volontà di far partecipare tutti i lavoratori alla realtà economica del Paese potrà essere affermata.

Per il resto, questo è l'obiettivo che si possono porre i partiti politici che hanno l'ambizione di organizzare le masse lavoratrici e di portarle alla vita pubblica: quando è garantita la libertà di propaganda; la libertà di stampa, la libertà di organizzazione, quando, in seno alla fabbrica, è garantito il consiglio di fabbrica, il resto non dipende che dalla volontà pratica e dal successo che questa politica ha nella classe lavoratrice stessa.

Quindi, approvata la dizione «L'Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori», il successivo capoverso diventa pleonastico.

Non faccio qui una questione secondaria; almeno non mi pare. Credo che uno dei difetti fondamentali dell'antifascismo — difetto che noi scontiamo amaramente — fosse e sia quello di non aver tenuto e di non tenere presente l'importanza della chiara formulazione giuridica. Se l'epurazione è fallita, se l'amnistia ha dato risultati diversi da quelli di pacificazione che da essa ci si ripromettevano, ciò si deve, sì, a ragioni sociali e politiche complesse, che sono essenzialmente quelle di non aver potuto portare a termine in Italia la rivoluzione popolare, ma si deve anche alle incongruenze giuridiche di queste leggi stesse.

Io vi esorto perciò a non fare formulazioni incongruenti nella Carta costituzionale italiana.

Nell'articolo 6 — anch'esso formulato in modo confuso, ma che tuttavia esprime un principio generale giusto, cioè che la libertà e la dignità della persona umana, nonché l'interesse generale della società, dello Stato, sono principî filosofici ai quali si richiama la nuova Costituzione in questo articolo — sono comprese implicitamente, e si possono rendere più esplicite, le esigenze che hanno mosso i redattori del secondo capoverso dell'articolo primo. Rifacciamo l'articolo 6, in modo che sia chiaro che l'interesse generale della società è superiore ad ogni altro interesse particolaristico; e allora avremo dato alla Costituzione il suo nerbo.

[...]

Mancini. [...] Ed a buon diritto, perché da solo si è conquistato il potere. Il popolo ha tolto agli usurpatori, cioè alla monarchia dei Sabaudi e a Palazzo Venezia, dove avea asilo la tirannia, la sovranità e l'ha fatta sua. Sovranità significa potere. Onde si dice bene quando si scrive, come si è scritto: il potere emana dal popolo, cioè «appartiene al popolo». Questo potere, nella nostra Costituzione, reclama due requisiti: un limite nelle forme della Costituzione e della legge; ed una sostanza concreta. Infatti il popolo lo esercita partecipando effettivamente all'organizzazione economica, sociale e politica del suo Paese.

Per noi «popolo» non vuol dire agglomerato indistinto e indifferenziato di gente povera o di gente da nulla: Popolo significa classe, qualificata dal lavoro, dal lavoro che solleva tutto il popolo e lo fa diventare l'artefice insonne del proprio destino.

La vecchia classe dirigente italiana storicamente è decaduta insieme con il fascismo, perché essa creò il fascismo, lo portò al Governo e ve lo mantenne per 20 anni fino alla disfatta. Onde oggi non ha più il diritto di rimanere al suo posto; ma il dovere indiscutibile di lasciare libero il passo alle nuove energie del lavoro, che si avanzano impavide per assumere la direzione dello Stato.

Se volessi ricordare e parafrasare un noto e storico motto di un Abate francese, direi che il quarto stato è niente. Ma sarà tutto domani con la partecipazione effettiva alla organizzazione politica, sociale ed economica dello Stato.

Sottolineo la parola: «effettiva». Il terzo principio, affermato in queste disposizioni generali, è quello dell'eguaglianza. Eguaglianza non dal punto di vista formale, legista, per cui nelle aule giudiziarie si legge il tabellino con la sigla: la legge è uguale per tutti; ma nel senso di una eguaglianza sostanziale, reale di tutti i cittadini. I quali sono uguali di fronte alla legge, non solo; ma di fronte all'ordine economico e sociale, che annulla ogni privilegio di nascita e di ricchezza.

In altri termini, un'eguaglianza ed una libertà, che non possono essere turbate dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Onde la bellezza di quell'imperativo, per cui la repubblica assume l'obbligo di intervenire per eliminare tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano la libertà, e l'eguaglianza fra i cittadini o impediscono lo sviluppo della personalità umana.

Il quarto principio ha importanza superiore agli altri tre. Esso ha due termini: il diritto al lavoro, ed il dovere del lavoro. Non si è compreso e non si comprende l'importanza di questa enunciazione. Si è parlato del lavoro, gli sono stati resi tutti gli omaggi e lanciati tutti i fiori, ma si sono ad arte dimenticati i lavoratori.

L'onorevole Condorelli, nel suo dotto discorso dell'altro ieri, ha affermato che il lavoro è la forza d'Italia, che esso è la base dell'economia italiana, che egli vive di lavoro, che il patrimonio della sua famiglia è frutto di lavoro. Ma ha taciuto di chi stenta la vita alla ricerca di lavoro è di chi ozia nell'opulenza della vita.

Quando lor signori si oppongono alla nostra definizione è perché prevale quella sensibilità di rango, che li tiene lontani da coloro che hanno le mani callose, le vesti a brandelli, e le carni con le stimmate degli agguati e delle insidie padronali. Si vede nel lavoratore la classe. Ebbene si erra quando alcuni si ostinano nella nomenclatura di «cittadino» e dei relativi dritti di esso. La Rivoluzione francese affermò i diritti del cittadino. La Rivoluzione russa ha affermato i diritti del produttore. La Costituzione italiana riconosce i diritti del lavoratore. Prima lavoratore e poi cittadino. È lo spirito di Giano de la Bella, che ritorna.

Il pio ed austero Giano de la Bella,

che i baron trasse a pettinare il lino.

Questo principio nuovo, che considera il lavoro umano non più come merce, che si scambia e che subisce le oscillazioni della richiesta e dell'offerta, ma come il più alto dei valori nella scala sociale ed il solo nella società odierna.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti