[Il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Malvestiti. [...] A questo punto la nostra rivolta ci ha suggerito una formula liberatrice: «La Repubblica è fondata sul lavoro». E, in questo terzo titolo diciamo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Il problema non è nuovissimo. Affermato per la prima volta dal Locke nella formula che il bisogno del lavoro implica necessariamente il diritto di poter lavorare; poi da Montesquieu e da Rousseau, è dichiarato da Turgot nel preambolo dell'editto del 1776 («Il diritto di lavorare è proprietà di ogni uomo, la più sacra ed imprescrittibile di tutte»); poi, durante la Rivoluzione francese, nei decreti della Costituente, della Camera legislativa e della Convenzione. Fichte ne fa obbligo per lo Stato, come Winkelblech, Lassalle e Menger: così Fourier e Proudhon. In Inghilterra è affermato dal Cartismo; è ripetuto da Marx e da Louis Blanc: il Lacordaire lo invoca come principio cristiano nell'Assemblea Nazionale; è finalmente enunciato dagli stessi regimi autoritari e dal Libro Bianco inglese sui problemi del lavoro del 1944.

Si tratta di badare bene a due ordini di considerazioni: anzitutto che la Costituzione è un documento giuridico che deve esprimere norme di diritto; ma che appunto per ciò le formule ideali, ma obiettivamente irraggiungibili, possono portare ad uno stato di delusione che comprometterebbe la serietà stessa della Carta costituzionale.

Dobbiamo però dire subito che dicendo «lavoro» noi non ci riferiamo al suo carattere di pena, di tormento, di umiliazione — avremmo una Repubblica di forzati — ma alla sua dignità e alla sua funzione redentrice: con un limite, che è il limite stesso indicatoci dal Cristianesimo nella sua dottrina finalistica. Il lavoro era disprezzato dal paganesimo: Aristotele giudica gli artieri, che indeboliscono il corpo e lo spirito, incapaci di virtù; per Cicerone il salario è segno di servitù. Il Cristianesimo nobilita il lavoro; lo impone come funzione espiatoria inseparabile dalla natura umana; lo nobilita nella stessa persona di Cristo; annulla le ragioni della schiavitù; ne fa un mezzo di indipendenza anche spirituale e, col monachismo, ne fa persino una norma d'asceti.

Ma il limite è pur sempre quello del destino personale dell'uomo: i suoi diritti derivano dalla sua natura, mentre la società non è per l'uomo che il mezzo necessario che lo aiuta a conseguire il fine. Solo a questo titolo il lavoro è insieme un diritto che involge un problema etico, e un dovere individuale e sociale. È ciò che vien detto nell'articolo 31; ma bisogna intendersi.

Che cosa vuol dire: «riconoscere il diritto al lavoro»? È il diritto di rivolgersi allo Stato per domandargli un'occupazione: un diritto uti singuli del cittadino verso lo Stato? Lo Stato è fonte di questo diritto, e non piuttosto il diritto e il dovere di vivere danno all'uomo il diritto al lavoro indipendentemente dallo Stato, cui incombe, per il suo compito di effettuare il bene comune, di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto dell'uomo? Ma proprio qui urge la preoccupazione di star lontani, con vigile senso politico, da proclamazioni il cui carattere utopistico avvelenerebbe tutto il documento costituzionale. Fu giustamente osservato che l'impegno di seguire un determinato indirizzo di politica economica sembrerebbe assai più serio e convincente. Dire, come nell'articolo 32, che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia» è dire una magnifica cosa, che però può diventare una crudele irrisione.

[...]

Cortese. [...] Dove invece bisogna soffermarsi un attimo è sull'articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Siamo effettivamente di fronte ad una di quelle affermazioni avveniristiche verso le quali si tende la speranza, l'ansia di progresso di ciascuno di noi, a qualunque settore dell'Assemblea Costituente appartenga.

Ma qui insorge quella tale esigenza normativa della legge costituzionale. Come farà la Repubblica a garantire in concreto a tutti i cittadini il soddisfacimento di questo diritto che ha affermato, del diritto al lavoro? Badate, non basterà dare il sussidio di disoccupazione. Quando si dice che la Repubblica riconosce a ciascuno il diritto al lavoro, la Repubblica assume un impegno di dare lavoro a ciascun cittadino che il lavoro reclama, e lo reclama sulla base di una norma costituzionale.

Vi sono delle esperienze storiche, mi direte, ma vi sono delle esperienze storiche rivoluzionarie completamente fallite. D'altra parte, per poter garantire lavoro a tutti, lo Stato dovrebbe pianificare e dirigere tutta l'attività produttiva ed assegnare a ciascun cittadino un determinato lavoro. Si dovrebbe tentare, cioè, un esperimento di bolscevizzazione che condurrebbe alla dittatura e aggraverebbe il collasso economico. Ecco perché noi ci volgiamo col nostro desiderio a quel tale Preambolo. Affermiamo pure in esso che ogni lavoratore ha diritto al lavoro, affermiamolo in un voto, in una direttiva al futuro legislatore; ma ci sembra che l'inserire una tale affermazione categorica in un insieme di disposizioni che hanno valore giuridico, che hanno valore normativo, sia cosa non del tutto corretta dal punto di vista giuridico, perché non è possibile dare a questo diritto, che si riconosce così solennemente, la garanzia del suo esercizio, farne cioè una pretesa del cittadino nei confronti dello Stato, nei confronti della Repubblica.

Ma, onorevoli colleghi, se l'Assemblea vorrà mantenere la formula del progetto per sottolineare che c'è davvero un impegno che lo Stato intende assumere per lo meno per l'avvenire, un impegno nei confronti di tutti i lavoratori, io potrò dolermi nel vedere la serietà della norma giuridica sopraffatta dalla demagogia, ma potrò compiacermi di questo augurale messaggio che la Costituzione rivolge a tutti gli uomini che lavorano.

Ma il mio dissenso diventa irreducibile quando leggo il secondo comma: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Che sia un dovere morale per tutti quello di dare il proprio contributo allo sviluppo materiale e spirituale dell'organismo sociale nel quale vive, è innegabile.

Ma io vi pongo dei quesiti. Desidererei sapere chi deciderà caso per caso se, in concreto, un'attività o una funzione concorra o non concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società.

Chi sarà questo giudice? Questo giudice sarà inevitabilmente (direttamente o indirettamente) un giudice politico. E mi sembra perciò che sia estremamente pericoloso inserire un siffatto principio in una Carta costituzionale: pericoloso non per questi o per quelli di una particolare categoria della collettività, ma pericoloso per tutti, perché tutti possono essere colpiti dalla mutevole interpretazione e attuazione d'un tale principio, che potrà diventare uno strumento legale di sopraffazione classistica, un mezzo per discutere la parità dei diritti di tutti i cittadini. Pericolosissimo è dunque sancire un principio di questo genere: e cioè che si possa in un certo momento stabilire che una categoria di cittadini non svolga una funzione utile per il mutevole criterio, per il mutevole giudizio che si ha dell'attività sociale a seconda di questa o di quella ideologia trionfante nella lotta politica.

Io potrei domandare, per esempio: il pensionato di se stesso, quegli, cioè, che ha lavorato per alcuni decenni e poi, smesso il suo lavoro, vive con la rendita dei suoi risparmi (e può ritirarsi anche in età nella quale ancora per capacità fisica potrebbe svolgere una attività) deve forse essere messo in condizioni di inferiorità civile?

Ogni precetto giuridico comporta una sanzione.

Quale sarà la sanzione per la violazione di questo obbligo giuridico di svolgere un'attività od una funzione, sancito colla solennità d'una norma costituzionale?

Il futuro legislatore, a seconda del variare sulla scena politica delle maggioranze, stabilirà questa sanzione, che potrebbe, per avventura, diventare anche una sanzione d'indole penale.

Ma c'è il terzo comma. Io domando — ed è un quesito che pongo alla Commissione — se la sanzione prevista nel terzo comma sia l'unica sanzione per la violazione del precetto, o se sia invece una sanzione espressamente prevista che non vieta al legislatore di porne altre.

Perché, se si potesse con certezza ritenere che la sanzione non possa essere che quella soltanto prevista dal terzo comma dell'articolo in esame, allora, sopprimendosi il terzo comma, si potrebbe forse anche accettare l'articolo così mutilato come un invito solenne a tutti rivolto di partecipare operanti alla vita del Paese.

Che il terzo comma vada comunque soppresso mi sembra innegabile; esso stabilisce una grave sanzione, che, a mio modo di vedere, ferisce alle radici il principio della democrazia, perché dice: «L'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici».

Ora, dunque, vi sono cittadini, che potranno non essere più titolari dei diritti politici, del diritto di voto, innanzi tutto; e queste categorie, ripeto, potranno restringersi o ampliarsi col mutare delle fortune di questo o di quel partito. L'articolo va collegato coll'articolo 45, il quale stabilisce che «sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, che hanno raggiunto la maggiore età; non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

Ora, dunque, sarebbe questa prevista nell'articolo in esame una incapacità civile. Di guisa che il futuro legislatore dovrà nel Codice civile, dove tassativamente oggi sono indicate le incapacità civili, aggiungerne un'altra. E questa incapacità civile dovrà essere poi in concreto riconosciuta con sentenza, la quale spoglierà dei diritti politici, cioè della dignità di libero cittadino, quegli che sarà stato ritenuto «non lavoratore» alla stregua di una norma elastica, la cui interpretazione obbedirebbe inevitabilmente ad una particolare concezione politica. È dunque per una esigenza imprescindibile di libertà e di democrazia che io invoco la soppressione d'una siffatta norma costituzionale.

[...]

Colitto. [...] 4°) Ed ora del dovere del lavoro.

Lavoro è — nella eccezione più comprensiva ed universale — qualsiasi attività, per la quale le facoltà dell'uomo, abbandonando l'inerzia, passano dalla casualità potenziale, alla causalità attuale. E, poiché l'individuo vive una vita, che è legata organicamente a quelle del complesso sociale, sì che comuni sono la grandezza e la decadenza, la floridezza e le difficoltà, i benefici e le sofferenze, egli deve contribuire attivamente a produrre quel patrimonio, del quale egli pure vive. Il lavoro è, quindi, un dovere sociale. Siamo, però, sempre nel campo della morale, non nel campo strettamente giuridico ed i doveri semplicemente morali, come è stato con esattezza scritto, non sono gabbie di ferro, ma cerchi di luce, che possono abusivamente oltrepassarsi. Il dovere sociale di lavorare diviene giuridico — in ciò la dottrina è concorde — soltanto quando sia liberamente assunto con contratto esplicito od implicito. È assurdo, quindi, stabilire una sanzione per un dovere non giuridico. Ecco perché non sembra che sia da approvare l'ultimo capoverso dell'articolo 31 della Costituzione, in cui si stabilisce che l'adempimento del predetto dovere è «condizione per l'esercizio dei diritti politici». La Costituzione, d'altra parte, verrebbe a stabilire una vaga fonte d'incapacità politica in contraddizione con quanto si legge nell'articolo 45, dove si determina che non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale. Vaga fonte, dicevo, perché chi siano gli individui colpiti da incapacità civile è facile determinare; ma non ugualmente agevole è elencare coloro, che non svolgono un attività proficua alla società, donde la possibilità di discriminazioni arbitrarie ed odiose da parte del potere esecutivo, nelle cui mani potrebbe la formula diventare facile strumento per eventuali limitazioni in materia elettorale.

[...]

6°) Ugualmente sembrami che sia da modificare il primo comma dell'articolo 31, che proclama il principio del diritto al lavoro. Tale diritto vanta, come è noto, una elaborazione più che centenaria. Ma Marx ebbe esattamente a rilevare che la formula «diritto al lavoro» rimase sempre una «goffa formula». Volete non preoccuparvi delle goffaggini? A me pare che bisogna preoccuparsene. Io non intendo affatto ripetere qui quanto ho già rilevato con la mia relazione e in occasione dei lavori della terza Sottocommissione, della quale ho avuto l'onore di far parte, riaffermando che di un diritto al lavoro non si può parlare senza un corrispondente dovere della collettività di garantire a tutti i suoi membri, che si trovano nello stato di disoccupazione involontaria, una occupazione retribuita e che non è degno della nostra probità inserire nella Carta costituzionale che lo Stato ha il dovere di trovare lavoro ai disoccupati, quando ci troviamo di fronte ad una massa di disoccupati, che, purtroppo, aumenta e non diminuisce.

Desidero, invece, rilevare che in una Costituzione, in cui si garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, l'affermazione di un diritto al lavoro sembrami un assurdo, le due affermazioni essendo antitetiche. Nel 1848 Marx scriveva: «Dietro al diritto al lavoro sta la presa di possesso dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata e l'abolizione del lavoro salariato del capitale e del loro rapporto di scambio». E Proudhon precisava che il diritto al lavoro da lui associato con quello al prodotto integrale contro l'esistenza di una rendita senza lavoro, si converte in diritto al capitale. Anche M. Barthe all'Assemblea nazionale chiariva che tale diritto implica una organizzazione nazionale del lavoro, cioè tutta una riorganizzazione della società. Un diritto al lavoro è, pertanto, come riconosce anche l'onorevole Togliatti nella sua relazione, incompatibile col sistema del profitto capitalistico e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Forse non è inopportuno aggiungere che una politica di impiego totale (full employment) in Italia non è possibile. La teoria dell'impiego totale, creata dal Keynes e sviluppata dagli studiosi keynesiani, si sta traducendo ora in piani concreti in vari paesi. Ma le soluzioni proposte di marca keynesiana, concepite tutte puramente dal punto di vista monetario e creditizio, mirano a fare sì che lo Stato intervenga ad aumentare «la spesa totale» per ristabilire l'equilibrio tra domanda ed offerta di beni, rotto dall'esistenza di una massa di risparmio, che resta inutilizzata. In Italia, invece, noi soffriamo di una deficiente formazione di risparmio e non, secondo lo schema keynesiano, di un eccesso di risparmio. I piani di full employment, per esempio, anglosassoni, come è stato giustamente rilevato, mirano a premunirsi contro la fase ciclica di sovraproduzione per evitare la disoccupazione; il problema italiano, invece, almeno per parecchi anni, è quello della formazione di un maggior risparmio e di maggiori possibilità di produzione. Ma, questo detto per lealtà, convinto come sono che l'ipocrisia messa in articoli di legge sia la peggiore fra le ipocrisie, e precisato che il diritto al lavoro è un diritto in formazione, o, come lo chiama l'illustre presidente della Commissione, onorevole Ruini, che è un sottile delicato giurista, un diritto «potenziale», non sarò certo io a voler cancellare dalla Costituzione una formula che, in ogni caso, esprime una grande ansia collettiva di sviluppo civile. Ecco perché ho proposto una nuova formulazione dell'articolo 31, in cui si parla anche di diritto al lavoro. La nuova formulazione è la seguente: «Lo Stato promuove lo sviluppo economico del Paese e predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l'esercizio del loro diritto al lavoro».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti