[Il 7 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Della Seta. [...] Ma entriamo nel merito. L'articolo 31 sancisce il diritto al lavoro. Diritto incontestabile, in quanto è il diritto alla vita. Non ad altra fonte l'uomo, normalmente, può attingere per garantire la propria esistenza, se non al lavoro, al lavoro concepito né, come su taluni banchi ho inteso, quale un'espiazione propiziatoria, né, come in regime capitalistico, quale una merce qualsiasi; ma al lavoro eticamente concepito come affermazione della personalità; come primo vincolo di solidarietà nell'opera collettiva; come contributo al benessere materiale e, per esso, indirettamente, anche al bene morale dell'umana consociazione.

Ma, bisogna riconoscerlo, così come consacrato nella Costituzione, questo diritto al lavoro, se non è quel diritto astratto nel quale caddero il Locke e il Montesquieu e Louis Blanc (droit au travail) e la stessa Costituzione francese del 1848, certo rimane come un diritto potenziale, dato che oggi nessuna azione giuridica è dato al cittadino di potere esplicare, sia verso un altro cittadino, sia verso lo Stato; e dato che un rapporto esiste tra la domanda del lavoro (Stato) e l'offerta del lavoro (diritto al lavoro); e dato che la domanda dipende dalle risorse naturali e dal capitale esistente.

Se interpretato alla lettera, questo diritto al lavoro rimarrebbe nella Costituzione come una promessa che lo Stato non può mantenere; promessa pericolosissima. Può rimanere nella Costituzione come un diritto potenziale, cioè come un diritto — e Mazzini e Marx videro profondamente questo — come un diritto che solo potrà avere un concreto riconoscimento quando sarà superato l'attuale ordinamento economico ancora imperniato non sull'associazionismo, ma sull'individualismo capitalistico. Oggi, per non illudere con promesse che non possono essere mantenute, basterebbe forse che fosse detto nella Costituzione: la Repubblica promuove quelle condizioni onde il cittadino, nel lavoro, possa trovare l'equa e dignitosa garanzia della propria esistenza.

Nel secondo comma dell'articolo 31 si afferma, dopo il diritto al lavoro, il dovere del lavoro. Noi vorremmo, in verità, che la società fosse così sanamente costituita da far sentire il lavoro più come una gioia che come un dovere. Ma di fronte alle possibili evasioni è bene ribadire questo dovere. Un dovere, certo, la di cui consapevolezza deriva più da una tempestiva e saggia educazione, che non da un articolo della Costituzione. Ma la norma non poteva non essere consacrata. Se vi sono coloro che vorrebbero lavorare ma non possono, in quanto non trovano lavoro, subendo i rischi e i danni della disoccupazione, non pochi, purtroppo, in ogni classe sociale, sono coloro che potrebbero lavorare ma non vogliono, per pigrizia innata, per amore dell'ozio, per tendenza al parassitismo. Ora, come non è ammessa la libertà dell'ignoranza e perciò, sino ad una certa età, vi è la obbligatorietà della istruzione, così non è ammessa la libertà dell'ozio e perciò, conforme alle proprie attitudini, vi è il dovere del lavoro. In vera democrazia non v'è che una classe, la classe dei lavoratori. Lavoratori del braccio o della mente, ma lavoratori tutti, tutti contribuenti, con la propria opera, al bene supremo della Nazione. Chi non lavora non mangia, ha detto Paolo ed è ripetuto nella Costituzione sovietica. Noi, con espressione meno grossolana, amiamo ripetere col Maestro: chi non lavora non ha diritto alla vita.

Ma l'adempimento di questo dovere del lavoro può essere la condizione per l'esercizio dei diritti politici?

Il terzo comma dell'articolo 31 risponde recisamente, affermativamente. Noi apprezziamo il valore morale della norma. Il cittadino, che alla società, col proprio lavoro, non dà alcun contributo, pone se stesso al bando, dalla società di cui è parte. Ma un senso di giustizia impone la massima cautela. Vi sono i vecchi, i malati, gli invalidi, i disoccupati. Sarebbe ingiusto togliere a questi, per il solo fatto materiale del non lavorare, l'esercizio dei diritti politici.

Non ricorderemo che questo terzo comma dell'articolo 31 contrasta con l'articolo 45 del progetto, lì dove si afferma che, essendo il voto un dovere civico e morale, nessuna eccezione al diritto di voto può ammettersi se non per incapacità civile o sentenza penale; ma non si può non far presente che domani il divieto dell'articolo 31 potrebbe divenire, più che un pretesto, un'arma nelle mani del potere esecutivo per limitare, a scopo reazionario, il diritto dell'elettorato e dell'eleggibilità. Bisogna dunque o sopprimere — e sarebbe meglio — questo terzo comma ovvero meglio precisarlo formulandolo: l'adempimento di questo dovere, per chi ne ha la capacità e la possibilità, è condizione per l'esercizio dei diritti politici. Ma noi, ripetiamo, siamo per la soppressione pura e semplice.

[...]

Taviani. [...] Mi soffermerò sul diritto al lavoro.

Di esso si è detto: perché inserirlo nella Costituzione? Ciò non significa postulare una totale pianificazione dell'economia? Non pare. Questa norma dice precisamente che, nei suoi interventi nell'economia, lo Stato deve tener presente soprattutto una meta: assicurare il lavoro, perseguire una politica economica di pieno impiego.

[...]

Presidente Terracini. [...] Ha facoltà di parlare l'onorevole Ghidini, a nome della Commissione.

[...]

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione. [...] A questo punto mi pare di avere esaurito la discussione di carattere generale e mi restano solo alcune critiche di carattere tecnico alle quali alludo rapidissimamente per non dilungarmi. Si dice: ci sono delle norme che non hanno rigore giuridico; sono quelle che dovrebbero essere tolte dal testo definitivamente, oppure confinate in quella specie di limbo che è il preambolo. A questa pretesa abbiamo già risposto con tale copia di argomenti che è perfettamente inutile che vi insistiamo. Il diritto al lavoro è un diritto potenziale, come ha avvertito esattamente l'onorevole Ruini nella sua relazione, in base al quale si vuole impegnare vivamente lo Stato ad attuare l'esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare. D'altra parte mi preme rilevare che l'obbligo dello Stato è circoscritto entro un limite preciso, mediante l'inciso «promuove condizioni per rendere effettivo questo diritto».

La terza Sottocommissione aveva proposto un inciso diverso «predispone i mezzi per il suo godimento». Era più drastico, ma parve eccessivo; parve che potesse andare oltre le effettive possibilità e fosse come un promettere troppo in confronto di quanto si poteva mantenere. Si è così adottata una dizione che limita entro questo confine di ragione e di piena attuabilità il diritto al lavoro, quel diritto che splende, direi, nella nostra Costituzione come una stella fulgidissima.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti