[Il 21 aprile 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali». — Presidenza del Vicepresidente Conti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Avanzini. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi!

L'onorevole Cevolotto, in sede di Commissione, ha dichiarato — leggo dal verbale — «che la famiglia ha importanza solo in quanto lo Stato la regola giuridicamente: il resto è storia e sociologia».

Dunque ancora una volta lo Stato, tutto per lo Stato, tutto dallo Stato, anche la famiglia: il trionfo pieno della teoria dei diritti riflessi. Poiché noi neghiamo questa teoria, poiché, secondo la nostra dottrina, esistono già dei diritti che precedono, che anticipano anzi la stessa costituzione dello Stato, quali i diritti della persona umana, quali i diritti delle società naturali, noi non possiamo che accettare la formula, quale è contenuta nell'articolo 23 del progetto di Costituzione, o qualunque altra, che però le corrisponda o che meglio anzi la chiarisca, al di sopra di ogni equivoco.

La famiglia, onorevoli colleghi, completa l'individuo, lo integra, lo perfeziona, lo perpetua, e insieme collabora alla saldezza morale e sociale dello Stato.

Intesa così, la famiglia domanda indubbiamente una sua autonomia, quanto meno la domanda sino a quei casi limite, nei quali l'intervento dello Stato può essere giustificato da ragioni morali od economiche. Tale intervento non deve però ammettersi sotto la specie di un'ingerenza nell'ambito familiare, che lo alteri o lo dissolva, ma soltanto perché se mai la famiglia si saldi, prosperi, viva.

Se questa dunque è la famiglia, essa esige, in nome della sua originarietà e della sua funzione sociale, di essere garantita dal principio della sua unità e, in conseguenza, da quello della indissolubilità del matrimonio, che la consacra.

Taluno ha voluto negare l'opportunità che quei due principî siano inscritti nella Carta costituzionale. Primo l'onorevole Togliatti. Anche qui leggo dal verbale: «perché nessuno», egli disse in sede di Commissione, «intende porre sul tappeto la questione del divorzio, questione che personalmente egli ritiene innaturale, anzi dannosa in relazione alle attuali esigenze della società italiana».

In relazione alle attuali esigenze della società italiana. Dunque in relazione alle esigenze di oggi. E domani? Onorevoli colleghi, per noi non può essere riservato al divorzio alcun domani. È quindi necessario che la Carta costituzionale su tal punto parli senza reticenze, secondo la sua natura ed i suoi scopi. La Carta costituzionale infatti deve contenere i principî fondamentali, regolatori della vita nazionale, i principî dai quali dovrà rampollare tutta la futura legislazione italiana. Ebbene, fra quei principî fondamentali, fondamentalissimi siano scritti anche quelli sui quali dovrà riposare l'istituto familiare, quelli cioè destinati a proteggerne l'unità e l'integrità.

Del resto nella Carta costituzionale viene iscritta la dichiarazione di tanti diritti: i diritti della persona, i diritti sociali, i diritti del lavoro. E perché allora non dovrebbe essere iscritta anche la dichiarazione dei diritti della famiglia, se è vero che la famiglia è il fondamento della società, onde tutti gli altri diritti maturano, si perfezionano solo se condizionati al rigoglio dell'istituto familiare? La società è la pianta e la famiglia è la radice donde la società germoglia e si nutre. Perché la pianta viva è necessario quindi guardare la radice. Ora per guardare quella radice devonsi affermare l'unità della famiglia e l'indissolubilità del matrimonio.

Secondo un vigoroso scrittore, la questione dell'indissolubilità del matrimonio può essere considerata sotto un triplice aspetto: in relazione alla legge naturale, in relazione alla legge cristiana, in relazione alla legge civile.

Poiché io parlo in una Assemblea, nella quale non tutti accettano quanto meno tutta la legge cristiana, di questa io trascurerò di parlare. E posso farlo, perché penso e credo che già la legge civile e la legge naturale, di per sé sole, esprimano argomenti e motivi sufficienti ed efficaci al mio scopo; motivi dunque razionali, esclusivamente umani.

Anche e sovra tutto la legge naturale: quella fondata sulla natura umana, data, per chi crede, da Dio, e per chi non crede, riconosciuta al lume della ragione. La legge naturale non può essere negata! Essa si compone di principî, che penetrano la coscienza: ne costituiscono essi il substrato, obbligante sempre. La conosceva anche il mondo pagano. La chiamavano allora la legge non scritta. Per tacere dei filosofi, la invocava Antigone pietosa, davanti al tiranno, dopo aver dato sepoltura, vietata dalla legge scritta, al fratello infelice. Legge non scritta, ma viva, ed eterna, perché posta dagli dei nel cuore degli uomini, essa affermava.

La legge naturale e la legge civile impongono la indissolubilità del matrimonio secondo la natura ed i fini del matrimonio stesso: la funzione integratrice dei sessi, la perpetuità dell'amore coniugale, il bene dei figli, l'assistenza reciproca fra i coniugi, l'utile sociale. Poiché mi impongo la maggiore brevità possibile, non mi attarderò nella dimostrazione di tutte queste enunciazioni. Guarderò a due soltanto di esse: il bene dei figli e l'utile sociale.

Il bene dei figli! Tutto può essere detto; si potrà dire, tentando di spostare quello che è il fine del matrimonio, che questo tende, e deve tendere soltanto alla unità ed alla integrazione spirituale dei coniugi, così che, a cementarlo, dovrebbe bastare soltanto l'amore; l'amore vero, l'amore naturale, l'amore libero, anche se tante, troppe volte l'amore libero è destinato a diventare solo la libertà senza l'amore! Ma la realtà è un'altra, la realtà è un'altra, onorevoli colleghi! Il fine prossimo, il fine immediato del matrimonio ha da essere e resta la procreazione dei figli. È questa la realtà: i figli che nascono, che crescono, che domandano di essere allevati e, badate, di essere allevati soltanto da coloro che li hanno generati; è una realtà insopprimibile. È questo il cemento vero che nessuna legge può frantumare. Poi che ho dei figli, non posso comprendere un padre ed una madre che non sentano così. La passione, che ha l'ardore e la violenza della fiamma, può in certe ore della vita divorare quel sentimento, ma quando la passione languirà, quel sentimento è destinato a ridestarsi prepotente. Dopo il divorzio sarebbe sempre troppo tardi...

Calosso. Ci parli dei principî cristiani. Ci parli dei Patriarchi.

Avanzini. I figli non basta generarli...

Calosso. Lei non parla del punto di vista cristiano per omaggio a noi. Ci parli dei Patriarchi.

Avanzini. I figli! Non basta generarli. Allevarli bisogna; portarli con amore sino alla soglia della vita. Ancora, ancora: accompagnarli con amore oltre quella soglia. In quest'opera, onorevole Calosso, nessun uomo può sostituire il padre, nessuna donna può sostituire la madre. Donde le due indissolubilità. Il padre e la madre sono dei figli, i figli sono del padre e della madre. Ora la indissolubilità del vincolo che si crea e si stringe fra i genitori e i figli e tra i figli e i genitori, domanda, anzi comanda, la indissolubilità del vincolo dei genitori fra loro.

Calosso. Ma non ha risposto alla mia domanda.

Avanzini. È vero che nel matrimonio si integrano i sessi, ma si integrano anche due altissime funzioni: quella dell'amore paterno e quella dell'amore materno. Sono due fonti iridescenti che esercitano una doppia influenza sulla creatura nuova, che diventa uomo.

Ebbene, il divorzio, spezzando il vincolo matrimoniale, inaridisce quelle fonti, ne disperde la linfa, infrange quella doppia influenza e l'opera resta incompiuta e contaminata. Anche contaminata il giorno — e quel giorno è destinato a venire sempre — in cui il figlio si erigerà giudice severo del padre, che ha cambiato la sposa, della madre, che ha cambiato il marito.

Un contratto allora, secondo la legge civile? Ma un contratto particolare, perché ha per oggetto non le cose, ma le persone; perché deriva dalla volontà dei coniugi, cui si aggiungono poi, altre volontà, anche se inespresse. Un contratto che si propone una finalità sociale. Sì: una finalità sociale! Mazzini, che certo non era un clericale, pensava la vita associata disposta in tanti ordini concentrici, sempre più vasti: la città, lo Stato, l'umanità. Ma al centro di questi ordini concentrici egli poneva la famiglia, appunto perché egli pure la intendeva come la prima società, sulla quale tutte le altre si assidono. Da ciò il luogo ormai comune che la famiglia è la cellula della società. È infatti attraverso la famiglia che la società si rinnovella, è la famiglia che assicura alla società la sua perenne giovinezza. Necessità quindi che quella cellula non ammali, perché non ammali tutto l'organo, perché non isterilisca la sorgente per cui la società si rinnova e ritrova quella sua giovinezza.

Del resto l'unità e l'indissolubilità sono leggi costanti di salute e di saldezza!

Ma guardate a voi, o colleghi comunisti: una delle forze vostre non è forse nell'unità e nella inscindibilità del vostro partito? Colleghi socialisti! Nel momento della vostra secessione io ricordo gli appelli, nei discorsi, sui giornali: appelli che deprecavano quella secessione, perché divideva il partito e lo indeboliva. E ricordo le invocazioni perché non si dividesse la base e non vi seguisse nel vostro divorzio! (Rumori). E l'altro giorno! L'onorevole Nitti, con parola accorata...

Presidente Conti. Onorevole Avanzini la prego di non divagare.

Avanzini. Non divago, parlo della legge naturale della unità e della indivisibilità. L'altro giorno, l'onorevole Nitti, con parola accorata, denunciava che l'Italia è sul punto di franare e di perdersi appunto perché va spezzettandosi, va riducendosi in brandelli ed implorava che essa sia mantenuta una e indivisibile. E allora, se la salvezza della Patria deve avere come prezzo questa unità e questa indivisibilità, questa legge deve essere applicata anche alle famiglie, che tutte quante compongono la nostra Patria.

Se la casa, onorevole Calosso, sta per precipitare, non si percuotono le fondamenta per lesionarle, ma le fondamenta invece si rafforzano: i mattoni non vengono tolti, ma ricomposti e cementati.

Lo so: ci sono casi che esprimono la suggestione di una grande pietà: i casi dei matrimoni infelici. In quei casi i coniugi anelano alla evasione, alla liberazione. È umano! Ma quali le conseguenze se la legge legittimasse quelle evasioni?

Su questo punto mi basti solo richiamare le parole del Pisanelli, il quale in un suo discorso diceva: «Quando si collocasse sulla soglia del matrimonio, e nel suo seno, l'idea del divorzio, essa avvelenerebbe la santità delle nozze, ne deturperebbe l'onestà, perché quell'idea si muterebbe, fra le mura domestiche, in un perenne ed amaro sospetto».

Sono parole risolutive, perché incidono una realtà, alla quale il legislatore deve guardare.

Ferita la indissolubilità del matrimonio col divorzio, sarebbe aperta, larghissima, la via dell'abuso; nessuna remora alla tentazione; l'occasione, appena accarezzata, sarebbe accolta, laddove, invece, la consapevolezza della infrangibilità del vincolo darebbe forza a combatterla, a respingerla, a superarla.

Socialmente, poi, potrebbe essere utile che, per consentire la riconquista della felicità dei pochi, fosse messa a repentaglio la tranquillità dei molti?

E sarebbe utile socialmente questo: che, perché taluni potessero fuggire al dolore, tutti gli altri fossero messi all'azzardo di affrontarlo inopinatamente?

Una vita familiare disgraziata è un male, una sventura: certamente.

Ma quanti sono i mali dai quali non possiamo liberarci?

Quante sono le sventure, contro le quali è vano ribellarci?

Il sacrificio è della vita, è di tutta la vita!

La stessa convivenza sociale non impone, tutti i giorni, dei sacrifici, attraverso le limitazioni poste ai nostri egoismi?

Ed allora, il principio ha da essere questo: poiché la legge non può guardare ai casi particolari, ma al bene comune della società, l'interesse individuale deve essere sacrificato all'interesse generale. A questo interesse generale sacrifichino gli infelici del matrimonio, tutti gli infelici del matrimonio, la loro sofferenza!

Ora, tutto ciò che vi ho detto sarebbe vano, se non incontrassi ciò che è stato detto su taluni punti dall'onorevole Calamandrei.

Egli ha detto, anzitutto: «Ma di che vi lagnate? L'articolo 7 del progetto, già approvato, accoglie i Patti lateranensi, di cui l'articolo 34 consente uguale efficacia obbligante al matrimonio civile e al matrimonio religioso. Se il matrimonio religioso è indissolubile, non dovete paventare che esso possa essere aggredito dalla legge civile».

Facile è la risposta: la indissolubilità del matrimonio è sancita e nel diritto canonico e nel diritto civile. Ora, poiché nessuno — sarebbe assurdo il pensarlo — può insidiare la indissolubilità del matrimonio nel diritto canonico, chiediamo che nessuno possa insidiarla nel diritto civile.

Ancora egli ha detto: «Perché vi preoccupate dell'articolo 24, se per la Chiesa il matrimonio civile non è un matrimonio; se è già sciolto appena celebrato?».

Onorevoli colleghi, non siamo qui a parlare in nome della Chiesa, ma in nome anche della Patria; non siamo qui a difendere soltanto il matrimonio religioso, ma tutti i matrimoni, in quanto creano una famiglia e la famiglia appunto deve essere garantita nella sua integrità, non solo per il rispetto d'una fede religiosa, ma in funzione del bene comune, cui essa serve.

E con questo rispondo anche ad altro oratore che, ricordando come la legge ebraica ammette il ripudio, così ci apostrofava: In che vi riguarda il matrimonio degli altri? Ma in questo ci riguarda: che noi vogliamo la società italiana difesa sovra tutto attraverso la integrità di tutte le sue famiglie, qualunque sia la fede religiosa dei coniugi.

Ma l'onorevole Calamandrei ha anche affermato: gli avversari del divorzio combattono contro i mulini al vento, perché il divorzio di fatto esiste già. Così l'articolo 24 consacrerebbe una bugia solenne. L'onorevole Calamandrei ha rivestito con bel garbo il suo discorso, ma tutto quel bel garbo non è riuscito a dissimulare la speciosità del suo argomentare. Superando la differenza fra nullità e scioglimento, egli ha concluso che nella pratica tutti i casi di scioglimento si risolvono in altrettanti casi di divorzio. Potrei rispondergli che in una legge, come quella fondamentale della Carta costituzionale, non può essere consentita la confusione, lo scambio dei concetti giuridici. Una cosa è la nullità e una cosa lo scioglimento, e diverse sono le conseguenze dell'una e dell'altro. Ma la speciosità dell'argomentare dell'onorevole Calamandrei è manifesta anche sul terreno soltanto polemico. Egli ha fatto assurgere a dignità di regola talune rare eccezioni, ha dilatato oltre i limiti di una constatata realtà una situazione modestissima. Innanzi tutto lo stesso onorevole Calamandrei riconosce come sia arduo ottenere l'annullamento del matrimonio civile.

Quanto al matrimonio religioso, altri dirà se è proprio vero che il diritto canonico ha sì grandi braccia da assolvere dal vincolo matrimoniale tutti, o quasi, che a lui si rivolgono.

Ora, io parlo qui solo per la mia lunga esperienza professionale. In tanti anni, tanti che neppure oso confessarli, davanti al mio tribunale le cause di nullità di matrimonio sono state così poche, che a contarle bastano le dita di una mano. E se procedessimo a una statistica nazionale vedremmo come apparirebbe irrisorio il numero dei matrimoni annullati in confronto al numero stragrande di matrimoni che si celebrano quotidianamente, nonché di fronte al numero dei divorzi pronunciati nei paesi divorzisti.

Quanto al matrimonio religioso, davanti alla Sacra Rota, in un anno furono emesse settanta sentenze in materia di annullamento; di queste 45 con esito negativo e solo 35 con esito positivo!

Di quelle settanta cause, ben trentasei erano di poveri! Così che neppure è vero quanto ha affermato l'onorevole Calamandrei: che le cause di annullamento siano esclusivo privilegio dei ricchi. Egli sa pure come davanti ai tribunali civili il povero può chiedere l'ammissione al gratuito patrocinio e deve sapere anche come questa nostra vituperata classe degli avvocati sa prestare con zelo la propria assistenza pur nelle cause degli indigenti.

C'è un altro riflesso, nel discorso dell'onorevole Calamandrei, incontrando il quale concludo. Egli ha detto che l'annullamento è un surrogato del divorzio, surrogato al quale si ricorre subdolamente, spendendo molto e molto danaro. Dunque, per via di un tentativo di smagliare la legge, di contorcerla e di violentarla per piegarla alla prepotenza dell'egoismo. Quasi una frode. E allora, esclama Calamandrei, legittimiamola questa frode! Ma che ragionare è questo? Sarebbe come dire: poiché ci sono quelli che rubano, cancelliamo il delitto di furto dal Codice penale. Ma la strada deve essere un'altra, deve essere diversa. La famiglia ha un suo attributo originario, ha una sua autonomia e una sua funzione sociale, concorre alla saldezza della società, secondo la legge fatale della unità e della indivisibilità? Ed allora la legge, che garantisce l'unità della famiglia, la indissolubilità del matrimonio, resti e sia: sia, se mai, più vigile, più rigida contro tutto e contro tutti che attentino alla compagine familiare.

Onorevoli colleghi: mi darete atto che non ho richiamato nessun argomento di indole religiosa.

Calosso. Non è esatto.

Avanzini. Ho obliato, e di proposito, tutto quello che altamente avrebbe potuto dirci nella questione la legge cristiana. Mi sono valso soltanto di argomenti umani, razionali, oserei dire, laici.

Calosso. Non è esatto.

Avanzini. Perché ho proceduto così? Perché, al di sopra di ogni esigenza di fede, al di sopra di ogni concezione e comunque religiosa, ho parlato convinto di una cosa sola: quella di servire, anche in questo momento, il mio Paese. (Applausi al centro Congratulazioni).

[...]

Sardiello. Illustre signor Presidente, onorevoli colleghi, cronaca o storia, le piccole e grandi parole scritte in questo progetto di Costituzione? Cronaca o storia?

L'interrogativo è venuto. Ma può non essere importante la classificazione.

Forse anche quando Giuseppe Mazzini ha scritto e rivolto al popolo italiano le pagine immortali dedicate alla famiglia ed ai rapporti di questa con la collettività, qualcuno ha detto: «cronaca». Di quel qualcuno non abbiamo ora il ricordo.

Ma quelle pagine restano e giganteggiano sempre più.

E pure per quelle pagine il Gruppo parlamentare repubblicano vuole intervenire nel dibattito su questo argomento, intorno al quale forse tutto è già detto.

Va espresso anzitutto il compiacimento che la nuova Costituzione italiana, discostandosi dagli schemi delle antiche, porti tra le sue norme i rapporti della famiglia con lo Stato. Questo realizza secondo noi un progresso, e non perché chiami lo Stato quasi a sostituirsi a quelli che sono i doveri, i diritti, i compiti della famiglia, o anche soltanto per invaderne il campo, ma perché — ponendo fra la persona umana e la collettività questo anello essenziale alla catena — realizza in questa Carta costituzionale della Repubblica italiana quella grande visione mazziniana che, attraverso la forza del dovere e del diritto, lega l'individuo alla famiglia, al comune, alla Patria, all'umanità. Ecco perché sentendo così mazzinianamente la famiglia, come «condizione inseparabile della vita», non sappiamo pensarla isolata nella sua vita e nella sua missione, sia pure come una fulgente turris eburnea, ma avulsa dalla realtà che la circonda; la pensiamo invece in armonia viva e profonda con tutta la vita sociale direi come una nota, nel coro di tutte le forze del progresso umano che fra la terra e il ciel sale e discende, al lume di questo pensiero noi rileviamo anzitutto in questo progetto di Costituzione un impaccio di definizione ed una insistente intrusione di principî e di norme che avrebbero il loro posto in altra sede. Definizioni ed inserzioni di concetti che qui non hanno assoluto diritto di cittadinanza e pongono impegni troppo assoluti, e fissano indebite ipoteche sull'avvenire.

Alle prime parole ci imbattiamo in una definizione: «La famiglia è una società naturale». Nel corso dei lavori della Commissione — come si apprende attraverso i verbali — le definizioni venivano avanzate da una parte e dall'altra, si scontravano: ciascuna esclusiva, ciascuna particolaristica. C'è tanto di vero, di fondamentale quando si dice: società naturale, come c'è qualche ragione da parte di chi diceva: società storica od organismo morale. Ma fra le tante esclusive ed incomplete è stata scelta — consentitemi di dirlo — forse la peggiore, perché questa, tacendolo, dà la sensazione che voglia quasi escludere quell'elemento etico che per noi è fondamentale ed essenziale, e che a noi deriva anche dalla sapienza romana che non escludeva, ma anzi chiamava l'affectio maritalis a fondamento dei rapporti fra i coniugi.

Ma, è necessario definire qui la famiglia? C'è qualcuno che contrasta alla famiglia una sfera di diritti suoi, certi ed inalienabili? Se le definizioni sempre nutrono in sé qualche pericolo, questa ne presenta uno grave, perché la definizione dello Stato, se mai si fosse sentito il bisogno di inserirla nella Costituzione, interesserebbe la dottrina dei pubblicisti; la definizione della famiglia invece interessa, deve interessare, anche il sentimento dell'uomo del popolo. Ora io dico e, se non dicessi sarebbe egualmente sentito da tutti, che la Costituzione deve essere chiara, precisa, alla portata di tutti. Ed allora penso all'uomo della strada che domani leggerà nel progetto di Costituzione la definizione della quale stiamo parlando. Le definizioni presuppongono schemi giuridici e filosofici. Coloro ai quali questi son consueti afferrano subito la portata dei principî enunciati; ma l'uomo della strada potrà anche pensare che dietro le profonde parole si celi persino un inganno. L'uomo del popolo non sente il bisogno di definire dottrinalmente la famiglia; egli la definisce col cuore, perché la famiglia è la patria del cuore.

Il compito nostro non è di definire. Il compito della Costituzione è di regolare i rapporti fra i componenti della famiglia e fra essi e la collettività.

In quanto a questo, penso che la dizione dell'articolo 23 offra una enunciazione che può dirsi soddisfacente. Ho presentato un emendamento al capoverso di questo articolo; ma esso non attiene ai principî; si preoccupa soltanto di una voce verbale, di quell'«assicura» che, insieme con i «cura», i «garantisce» ed altre espressioni simili degli articoli 23, 24, 25 e 26, fa cadere sulla Repubblica il peso di impegni che condizioni attuali, ed anche del futuro prossimo, fin dove può giungere il nostro sguardo, ci inducono a pensare non tutte realizzabili. A proposito di queste norme che poggiano su tali promesse ed impegni, c'è una questione preliminare da risolvere: o noi questi concetti li pensiamo come enunciazioni di principî, ed allora vadano al «preambolo», che io ritengo opportuno ci sia, appunto per assolvere a tale funzione; o li pensiamo, e li vogliamo come norme giuridiche, ed allora la loro enunciazione deve essere modificata, deve essere un'altra e diversa.

Il resto, dopo enunciati i principî o dopo elaborate le norme nella forma più consentanea, sarà regolato dalla legge ordinaria.

Troppo spesso, dicevo, abbiamo dimenticato la funzione che avrà, in un domani prossimo, la legge ordinaria, mentre non sono pochi i casi che ci richiamano a questo pensiero.

L'articolo successivo, l'articolo 24 ne offre indicazioni tipiche. Alla enunciazione con la quale si inizia, aderisco: «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Non condivido le preoccupazioni affacciate da alcuni colleghi di una parte o dell'altra di questi settori.

La Costituzione non si propone certo di modificare una realtà eterna. C'è tra i coniugi diversità delle funzioni, delle attitudini, determinate dalla diversità del sesso. Ma penso che si incorra in equivoci nella valutazione della dizione del progetto. Qui non si pone, e non si potrebbe porre, una eguaglianza di fatto, ma un'eguaglianza morale e giuridica (Interruzione dell'onorevole Calosso) e, oltre a quella morale, se mi consente l'onorevole Calosso, anche l'eguaglianza giuridica mi pare che possa fissarsi e che debba sussistere al di là delle disuguaglianze di attività e di funzioni.

Calosso. Nella morale la donna è superiore.

Sardiello. Io resto alla formula di eguaglianza; aderisco al concetto che il progetto afferma e contrasto il pensiero di chi ha veduto in ciò una minaccia alla famiglia...

Calosso. Siamo d'accordo.

Sardiello. Come se l'eguaglianza — morale e giuridica, ripeto — dei coniugi dovesse compromettere definitivamente l'unità familiare. Oltreché quella morale, l'eguaglianza giuridica può sussistere anche oltre la disuguaglianza delle funzioni e delle attività.

Come sono state formulate queste preoccupazioni, in concreto, dagli onorevoli colleghi? Con alcuni interrogativi che, appena lanciati, sembrano preoccupare, come quesiti senza soluzione. Chi sarà il capo? Il capo non può essere che uno, e ciò non intacca ancora il concetto della eguaglianza giuridica, sino a quando c'è la possibilità di pensare e realizzare un primus inter pares, espressione di una situazione di fatto che non contrasta col diritto. (Commenti).

Diceva qualche altro oratore: chi designerà il luogo di residenza e chi darà il nome? A me pare che neppure questo sia il colpo di piccone demolitore del concetto dell'eguaglianza morale e giuridica. Mi pare che tutto questo postuli una disciplina dei rapporti sulla base dell'eguaglianza morale è giuridica, che è opera del legislatore nella formulazione della legge ordinaria che questa stessa disposizione della Costituzione invoca, allorquando, dopo enunciato il principio del matrimonio sulla base dell'eguaglianza, continua: «La legge ne regola la condizione».

Calosso. Noi non vogliamo dei re, neanche nella famiglia.

Sardiello. Ma questo richiamo dell'articolo 24 alla legge ordinaria che dovrà regolare quei rapporti, dovrebbe essere un buon esempio anche per quello che viene dopo. Ma i buoni esempi è difficile che siano seguiti sino in fondo; e, appena scritte le parole e fermato il concetto, appena cioè evocata dalla lontananza del futuro prossimo la funzione che dovrà avere anche la legge ordinaria, il testo del progetto si preoccupa di incatenarla. La legge che verrà, regolerà la condizione del matrimonio, della famiglia, ma intanto noi vorremmo dire categoricamente sin da ora a quelli che verranno più tardi a questi banchi ciò che essi dovranno fare. La legge infatti regolerà quella condizione «a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio». Ecco il comando che il progetto vuole dare.

Onorevoli colleghi, non parleremo ancora del divorzio. Tutto è stato detto, non soltanto in questa discussione; tutto era già detto prima; non c'è niente da ricordare. Qui a un certo momento si è discusso come se fosse sul banco della Commissione il progetto di legge per l'istituzione del divorzio. E invece non è. Qui, nell'Assemblea politica, giova forse insistere in un chiarimento. Conviene dire che non si tratta di un'apologia dei molteplici amori; conviene dire che quella visione, evocata egregiamente, eloquentemente or ora dal collega Avanzini, è anche per noi la più bella, la più consolante della vita: la visione di due anime che intrecciano un destino di opere e di sentimenti insino all'ultimo giorno. Ma questa realtà dei felici non è uno scudo per la difesa di quelli che quella felicità l'hanno perduta. Si tratta di un grande problema morale, sociale e giuridico, che non può essere ignorato perché è nella vita, solo che si guardi (perché il divorzio non sarebbe mai certamente il regalo di nozze a tutte le coppie di sposi) a certi casi drammatici, forse anche tragici, della vita individuale, che più profondamente incidono nella vita sociale; solo che si guardi alla povera donna cui è stato strappato il marito a seguito di una tremenda condanna; od al povero lavoratore che torna dalle terre lontane, dove col suo stento ha cercato un tozzo di pane alla famiglia — chi vi parla è di un'antica terra di emigranti — o, più ancora, al soldato, che ha dato il suo sangue nelle battaglie, e tornano e trovano sotto il tetto dove aspettavano la pace e il conforto nuove ferite dell'anima, ed il crollo totale della vita... è un problema sociale e morale, che ha radici nel destino di creature poste allo sbaraglio della miseria e del dolore.

Ma dicevo, colleghi: qui non si parla di introdurre oggi nella legge il divorzio. La questione è stata posta esattamente davanti alle Commissioni: deve esserne inserito nella Costituzione il divieto? Est hic locus?

Il problema come viene a noi è posto artificialmente. Non bisogna perdere di vista la situazione presente.

Lo status della legge in Italia è dell'indissolubilità più rigorosa. Ora, o signori, sono coloro che approvano quella indissolubilità rigorosa a proporre la questione; sono essi a muovere ciò che è quieto e sistemato.

Bisogna allora domandarci: perché? Perché questo proposito, questo tentativo — che noi ci auguriamo rimanga soltanto tentativo — di spostare dalla legge ordinaria, dove ha la sua sede, alla Carta costituzionale l'affermazione del principio dell'indissolubilità matrimoniale? Perché questo privilegio ad un principio privatistico che fa ricordare, tra l'altro, quegli errori di sistematica — causa sempre di situazioni difficili — che erano frequenti nella legislazione fascista?

Perché si è voluto portare la questione su questo terreno?

I motivi sono riassunti, in sintesi esauriente, in un brano della relazione dettata dall'onorevole Ruini, Presidente della Commissione. Da esso apprendiamo che le correnti si sono spiegate in contrasto e divise sul punto se il tema fosse o non fosse da inserire nella Costituzione. Ma la maggioranza si è manifestata del parere che, «per lo stato d'animo del popolo italiano, nonché per i riflessi religiosi, sia questione da non poter essere trattata dalla legislazione ordinaria».

A persuadere la Commissione, a persuadere cioè la maggioranza di essa, sono stati questi due elementi: lo stato d'animo del popolo italiano e i riflessi religiosi.

Neppure — notate — un definito attuale travaglio religioso, annunziatore di tremende conseguenze per il nostro Paese. Comunque, o colleghi, sia l'uno che l'altro motivo, per chi guardi, come noi abbiamo il dovere di guardare, all'avvenire con indipendenza di coscienza e di pensiero, con serenità di visione, nonché con la convinzione — mai quanto nel nostro tempo fondata — che la storia va ed evolve rapidamente, non è difficile pervenire alla conclusione che gli stati d'animo ed i riflessi dei pentimenti, anche i più grandi e profondi, sono fatalmente mutevoli. Quando anche la loro giustezza, la loro rispondenza alla realtà attuale sia riconosciuta non è possibile che questi due elementi presumano di proiettarsi nell'avvenire.

Che cosa si è voluto allora fare? Se oggi lo status è dell'indissolubilità, si è voluto in realtà impegnare il legislatore di domani. Vivaddio! Oggi l'onorevole Avanzini lo ha esplicitamente detto: per noi — ha detto — l'indissolubilità non deve essere toccata né oggi né domani, né mai.

Ora, o signori, la nostra generazione ha patito tanto per le ombre del passato proiettate su di essa. Non proiettiamo sull'avvenire le ombre del nostro tempo.

Questa parte dell'articolo 24 rappresenta un'ipoteca sul legislatore dell'avvenire, che l'Assemblea Costituente non può, non deve, non ha il diritto di prendere. Mi preoccupa la sensazione, — che può già dirsi fondata per qualche autorevole parola che abbiamo udita — che stia per rivivere una situazione eguale a quella manifestatasi nella votazione dell'articolo 7. Abbiamo già udito qualche voce autorevolissima dire: «l'articolo non dovrebbe esserci». E sembrava annunziare prossima questa conclusione: «ma io lo voterò». Per l'articolo 7 è avvenuto così.

Ora, signori, questo criterio di accettare l'articolo solo perché è nel progetto di Costituzione, l'Assemblea deve chiaramente respingerlo. L'Assemblea ha perduto troppe occasioni di affermare la sua sovrana indipendenza. E il popolo quando sente che l'articolo non dovrebbe esserci, ma che viene approvato ugualmente, finisce per non intendere, mentre ora più che mai ha il diritto di intendere e noi abbiamo il dovere di aiutarlo ad intendere le nostre idee, i nostri indirizzi, ed anche il perché di questi.

Abbiamo da risolvere problemi sui quali male aleggiano preoccupazioni che solo eufemisticamente potrebbero dirsi politiche; problemi che vanno risoluti — in un senso o nell'altro — soltanto per ispirazione e dettato della coscienza. Quello di cui ora ho detto è fra questi.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti