[Il 21 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Macrelli. Chiedo pochi minuti alla cortese attenzione dell'Assemblea per aggiungere alcune osservazioni a quelle che sono già state fatte dai colleghi del mio Gruppo. È una materia delicata questa dei rapporti etico-sociali. Anche di fronte a questi problemi che assillano la nostra vita, la vita del nostro popolo, è bene dire una parola precisa, chiara, non come quelle, purtroppo, che sono negli articoli che dobbiamo discutere, che dobbiamo approvare o respingere. Perché, mi si consenta di dirlo, o le parole hanno tradito il pensiero, o il contrasto delle idee è stato troppo forte, ma gli articoli dei quali noi ci occupiamo, cioè dal 24 al 29, sono riusciti, non vorrei dire «una selva selvaggia ed aspra e forte», ma certo un insieme di parole e di frasi che non sempre sono aderenti alla realtà, quella realtà che noi dobbiamo affrontare e risolvere.

Il nostro pensiero è già conosciuto: noi abbiamo una storia, abbiamo una tradizione. Anche questi articoli trovano, o dovrebbero trovare, la loro base, il loro fondamento sul principio di libertà. E il nostro partito, che è il partito classico della libertà, ha bene il diritto di dire qualche cosa a proposito dei problemi che sono sottoposti al nostro esame ed alla nostra critica.

Diciamo subito, colleghi, che noi avremmo preferito che certi articoli, anche di questo titolo, non fossero posti nella Carta costituzionale, in quella che dovrà essere, cioè, la legge fondamentale dello Stato, perché avrebbero dovuto trovare — secondo noi — posto altrove.

Noi pensiamo che la futura Camera legislativa, che sorgerà dalle prossime o dalle lontane elezioni, dovrà pur dire la sua parola, dovrà pure affrontare e risolvere problemi che urgono nella vita collettiva e individuale del popolo italiano.

Voi avete sentito la nostra parola a proposito del famoso articolo 7; noi non abbiamo voluto affrontare la battaglia sul terreno squisitamente politico, morale e religioso. Abbiamo fatto come farò io adesso, in questo momento, a proposito dell'articolo 24, una questione di natura, di ordine che vorrei definire giuridico-costituzionale.

Ma insomma, perché, se altre leggi, se i Codici possono provvedere in materia, dobbiamo noi inserire nella Carta costituzionale certe disposizioni come quelle dell'articolo 7 o dell'articolo 24?

L'articolo 24 tratta della indissolubilità del matrimonio. Signori, io sono il meno indicato a parlare in materia: scapolo impenitente — adoperiamo pure la solita frase — non dovrei neanche accennare a questo problema.

Una voce a sinistra. È sicuro di rimanere tale?

Macrelli. Certo, non lo so; non sappiamo mai cosa può accadere in avvenire. (Si ride).

A proposito della indissolubilità del matrimonio, dicevo, noi non siamo qui a discutere il divorzio; non ne parliamo, noi. Ma è strano: ne avete parlato voi, colleghi della Democrazia cristiana, come se — ripeto le parole dell'amico Sardiello — fossimo ora chiamati non a discutere la Carta costituzionale, ma proprio una legge relativa al divorzio.

Nessuno di noi ha parlato di divorzio; nessuno di noi in questo momento parla di divorzio. Se ne parlerà a suo tempo, se la coscienza pubblica vorrà così, se l'iniziativa parlamentare o governativa vorrà che si affronti questo problema. Oggi non ce ne occupiamo, non ce ne preoccupiamo; oggi diciamo soltanto che la materia di questo articolo 24 non dovrebbe essere nella Carta costituzionale, dovrebbe far parte di un'altra norma legislativa che si discuterà a suo tempo.

Noi non comprendiamo la vostra insistenza, amici e colleghi della Democrazia cristiana. Anche attraverso l'articolo 7 avete già ottenuto qualche cosa a proposito della indissolubilità del matrimonio, se è vero che nell'articolo 7 avete incluso i Patti lateranensi. Voi siete a posto dal punto di vista politico, dal punto di vista giuridico e dal punto di vista religioso. Ed allora, perché insistere? Noi abbiamo l'impressione che voi vogliate non soltanto vincere, ma stravincere, ed allora il gioco può essere pericoloso. D'altro lato, amici, parliamoci chiaro, perché è bene essere sinceri a questo proposito. Stamani ho sentito l'onorevole Avanzini, parlando da valoroso avvocato quale è, ci ha offerto dei dati statistici. Mi pare che abbia accennato a un certo numero di sentenze emesse, non so in quale periodo di tempo, dai Tribunali ecclesiastici in cause di annullamento di matrimonio. Si è limitato ad una cifra modesta che, indubbiamente, risponde a verità, ma che deve essere però circoscritta in un periodo incerto di tempo. Da buon avvocato ha soltanto presentato quella cifra. Orbene, proprio ieri, è stato pubblicato un articolo di fondo sul Messaggero, a firma del direttore Mario Missiroli, in cui si riportavano questi dati statistici che io ho voluto segnare: negli ultimi 17 anni sono state emesse dai Tribunali ecclesiastici italiani 1156 sentenze di annullamento, e le cause di annullamento sono sempre le stesse: o vizi di consenso o errore di persona. Io scommetto che se noi facessimo un'altra statistica — e tu amico Avanzini appunto perché sei avvocato come me, devi consentire — se noi ricercassimo le sentenze emesse in materia dai Tribunali civili italiani, non raggiungeremmo mai queste cifre. Tu appartieni ad un Tribunale che lavora in materia civile, ma credo che non abbia mai pronunciato una sentenza in materia. Nella mia Romagna, in provincia di Forlì ed in provincia di Ravenna, non si è mai avuta una causa di annullamento di matrimonio in sede civile. La nostra legge civile è molto più severa del diritto canonico in proposito; ed allora, ripeto, io non comprendo la vostra insistenza. Avrà le sue buone ragioni, ne sentirò parlare ancora, ma fino a questo momento non mi avete persuaso. E scusate se parlo franco.

[...]

Rossi Maria Maddalena. Onorevoli colleghi, il dibattito su questo Titolo volge ormai al termine e possiamo dire che esso ha messo a dura prova la pazienza del nostro Presidente e della stessa Assemblea.

Mi propongo di essere breve. Prima di entrare nel merito dell'articolo 24, desidero tuttavia sottolineare che noi concordiamo con quei colleghi che hanno ritenuto che la Costituzione debba occuparsi della famiglia. Noi concordiamo con essi per due motivi: prima di tutto perché regolare i rapporti tra il nucleo primordiale, che è alla base dello Stato, e lo Stato stesso è un preciso dovere, soprattutto nell'attuale situazione storica del nostro Paese; in secondo luogo perché è indispensabile un rinnovamento dell'istituto familiare nello spirito della Costituzione democratica che è compito di quest'Assemblea dare oggi all'Italia.

Si è fatto cenno, qui, alla legislazione italiana, che nei riguardi della famiglia reca un'impronta nettamente antidemocratica, aggravata dal fascismo. Oggi sul nucleo familiare si ripercuotono le conseguenze delle guerre fasciste, con tutte le loro miserie materiali e morali; né potremmo rimanere spettatori di fronte alle minacce che per l'istituto familiare si celano nella aggravata situazione economica del nostro Paese, nel conseguente dilagare della piaga della prostituzione, nella preoccupante massa dei disoccupati, nelle pessime condizioni della salute pubblica. Lo stesso fenomeno dell'emigrazione, a torto, io credo, giudicato da alcuni non come un male necessario, ma come uno dei mezzi più idonei a risolvere gli urgenti e inderogabili problemi lasciatici in eredità dal fascismo, costituisce una minaccia per l'integrità dell'istituto famigliare. Ora, di fronte a questa situazione, la salvaguardia dell'istituto familiare è per lo Stato non solo un dovere ma un diritto perché la saldezza della famiglia è condizione essenziale a salvaguardare la saldezza della Nazione. La tutela ed il rafforzamento dell'istituto familiare sono materia di Costituzione, non vi è dubbio, perché sono esigenze che si presentano in tutti i tempi alla coscienza dei singoli e dello Stato. Mi pare che su questo punto si sia avuta la quasi unanimità nell'Assemblea. Divergenze si sono manifestate, né poteva essere diversamente, là dove le singole correnti dell'opinione pubblica hanno formulato le proprie esigenze. Gli uni ritengono che l'inserimento di determinati principî assoluti nella Carta costituzionale costituisce una condizione essenziale al rafforzamento dell'istituto familiare.

Per altri invece il problema non può essere utilmente risolto che con il rinnovamento in senso democratico dell'istituto stesso e soprattutto con lo stabilire i principî che rendono possibile ed efficace tale rinnovamento.

Può l'inserimento del principio dell'indissolubilità del matrimonio nella Costituzione essere considerato una garanzia essenziale per la tutela ed il rafforzamento dell'istituto familiare? Per alcune correnti il vincolo coniugale è indissolubile per legge naturale e per legge divina. Esse affermano inoltre che l'inserimento di questo principio nella Costituzione è condizione essenziale per la salvaguardia ed il rafforzamento dell'istituto familiare. Noi concordiamo con esse su di un punto, questo: salvaguardare la famiglia significa salvaguardare la Nazione. Ma noi siamo contrari ad inserire il principio dell'indissolubilità del matrimonio nella Costituzione. Siamo contrari per diversi motivi che io esporrò brevemente. È stato detto qui da giuristi autorevoli che l'indissolubilità del matrimonio non è materia di Costituzione ma di legislazione civile, e questo è senza dubbio, per i cultori del diritto, un argomento da prendere in seria considerazione.

Ma noi riteniamo che vi siano anche altri motivi, altrettanto seri, che vi si oppongono. Inserendo questo principio nella Costituzione non si elimina alcuna delle cause che nell'ambito dei nostri attuali rapporti economico-sociali minacciano l'istituto familiare. Inoltre, inserire questo principio nella Costituzione significa rifiutare nettamente di risolvere determinati casi che il legislatore dovrà invece prendere in esame.

Si è detto qui che chi sostiene la necessità di inserire il principio della indissolubilità del matrimonio nella Costituzione si propone di vincolare il legislatore futuro in modo da non permettere che la legge ordinaria possa stabilire eccezioni a questa norma. Si è parlato perfino di «polizze di assicurazione». Ebbene, tutto ciò ha, lo riconosciamo apertamente, un lato positivo. Stabilire un limite che non si può varcare, limite non soltanto morale ma giuridico, esercita un'influenza, anche psicologica, sui coniugi, che si sforzeranno di adeguarvisi nonostante le divergenze che la convivenza porta inevitabilmente con sé.

Ma c'è anche un lato negativo. Vi sono casi nei quali né il vincolo morale né quello giuridico possono evitare che si giunga ad una situazione insostenibile. Le famiglie illegittime, in Italia, sono molte, onorevoli colleghi. Non esistono dati statistici precisi, ma si ha ragione di ritenere che il numero di queste famiglie si elevi a parecchie centinaia di migliaia; è una realtà che non può essere ignorata né cancellata con un'affermazione categorica di principio o con una rigida norma di legge.

I casi sui quali è indispensabile attirare l'attenzione del legislatore sono: coniugi senza figli che hanno consenzievolmente formato ciascuno una nuova famiglia, della quale sono talvolta venuti a far parte dei figli reduci, prigionieri, ex-combattenti che al loro ritorno in Patria trovano l'onore familiare distrutto; famiglie nelle quali uno dei coniugi è colpito da condanna infamante e molti altri ancora.

Il legislatore ha il dovere di prendere in esame questi casi, con speciale riguardo, nel momento attuale, a quelli riguardanti gli ex-combattenti e i reduci. L'onorevole Ministro della giustizia ha ricordato come un problema analogo si presentasse alla coscienza dei legislatori italiani dopo la prima guerra mondiale. Gli onorevoli Marangoni e Lazzari presentarono, nel 1920, un progetto di legge al riguardo che suscitò allora vivaci discussioni. Fu proposto, allora, un allargamento dei casi per i quali la legge prevede l'annullamento del matrimonio. Vi è chi parla oggi di sanatoria. Io non entro nel merito perché non è argomento di competenza di questa Assemblea, ma ripeto che lo Stato non può rifiutarsi di prendere in considerazione questi casi, specialmente nei riguardi degli ex-combattenti e dei reduci: essi sono stati lontani dalla loro casa per servire il Paese, hanno esposto la loro vita, hanno sacrificato anni interi della loro esistenza; non si può chiedere loro, oggi, di rinunciare a rifarsi una vita. Sarebbe chiedere troppo.

Quanto al noto caso dell'ergastolano, del coniuge colpito da condanna infamante, caso al quale si è fatto cenno anche nel corso di questa discussione, devo dire che gli argomenti addotti dagli oppositori della nostra tesi non mi hanno per nulla persuasa. Vorrei anzi osservare, se non temessi di offendere i molti giuristi di questa Assemblea, che mi sembra strana la facilità con la quale certi giuristi si investono della parte dell'ergastolano anziché di quella della moglie innocente.

Se poi si tratta di un giurista che è anche un gesuita, possiamo ben comprendere il suo ritegno. Ma, da un punto di vista morale, abbiamo pure il diritto di chiedere, sovrattutto ad un gesuita, di porsi dalla parte della donna innocente sulla quale ricade una condanna tanto severa. Sono problemi che è necessario risolvere, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista politico; onorevoli colleghi: la legislazione civile deve essere dettata da una coscienza civile, e non essere in contrasto con questa.

Noi non proponiamo qui, ripeto, né sanatoria né allargamento dei casi di annullamento di matrimonio. Non è compito nostro. È compito nostro additare al legislatore il problema, e noi riteniamo che sollecitare provvedimenti legislativi specifici, che ridiano tranquillità a tanti cittadini ed eliminino situazioni immorali della nostra società, non significhi mettere in pericolo la tradizionale stabilità ed unità della famiglia. Una legislazione che tenda a sanare queste piaghe, contribuirebbe, anzi, secondo noi, a rinsaldare vincoli familiari, a rafforzare la morale.

Non vorrei suscitare reazioni troppo clamorose da parte di qualche settore dell'Assemblea, ma, che il problema esista, lo ha dimostrato l'atteggiamento della Chiesa stessa, la quale, in pratica, ha esteso, in questi ultimi anni, i casi di annullamento di matrimonio, o facendo passare, talvolta, come annullamento veri e propri casi di scioglimento, o facendo uso di quel «privilegio paolino», di cui si è fatto cenno in quest'Aula.

Noi non poniamo la questione del divorzio. È stato detto e ridetto da parte nostra che noi non la poniamo e che siamo anzi contrari che si ponga oggi questa questione, perché essa non è sentita dalla maggioranza del popolo italiano, perché vi sono oggi ben altri problemi dei quali urge trovare la soluzione.

Noi non poniamo che i problemi che sono maturi, quelli sentiti e voluti dal popolo. Ed oggi il popolo italiano reclama in primo luogo una Costituzione antifascista, che garantisca all'Italia un ordinamento giuridico e costituzionale democratico, in modo che i suoi ideali di libertà non possano più essere calpestati.

Con l'accettare l'articolo 7, noi pensiamo di aver già dato la tranquillità a coloro che ritengono che il matrimonio debba essere indissolubile, perché essi ne traggono la garanzia dal diritto canonico.

Dal punto di vista religioso, noi abbiamo dato ormai tutte le garanzie e non abbiamo alcun timore di essere fraintesi. Con la maggiore tranquillità noi possiamo affrontare oggi questo problema da altro punto di vista, dal punto di vista politico e sociale.

Questa è la nostra opinione sulla indissolubilità del matrimonio e sul principio da inserire o meno nell'attuale Costituzione.

E vorrei aggiungere qualche osservazione sul primo comma dell'articolo 24, che ha pure suscitato vivaci discussioni in seno all'Assemblea. Noi approviamo questo primo comma; il nostro assenso, qui, è completo, perché il principio della parità morale e giuridica dei coniugi completa gli altri articoli, nei quali si aboliscono le disuguaglianze che ancora esistono, fra uomo e donna, nel campo politico, economico, sociale e giuridico. Riconoscere la parità tra donna e uomo là dove la maggioranza delle donne esplicano la loro missione fondamentale, nella famiglia, è giusto, onorevoli colleghi. È un riconoscimento ormai maturo nella coscienza del popolo italiano: lo ha affermato perfino l'onorevole Condorelli. È un concetto ormai maturo nella coscienza del popolo italiano, ma dalle discussioni che si sono svolte in quest'Assemblea, mi è rimasta l'impressione che esso trovi qualche difficoltà a maturare nella coscienza di parecchi onorevoli colleghi. È vero che l'attuale legislazione italiana contrasta con questo principio. L'onorevole Calamandrei fu tra i primi e più autorevoli oratori che misero in evidenza questo fatto. Ma noi abbiamo sperato che egli proponesse: «Cambiamo il Codice civile». Egli non ha detto, né avrebbe potuto dirlo: «Non si può cambiare il Codice civile». Ha proposto di togliere di mezzo l'articolo.

Noi non ci aspettavamo davvero questo atteggiamento da parte dell'onorevole Calamandrei. Egli ha detto anzi che nessuno pensa a cambiare la legislazione civile. Ebbene, mi dispiace che non sia presente questa sera, perché vorrei dirgli che c'è qualcuno che ha intenzione di cambiare il Codice civile in materia, e sono precisamente le donne italiane. Noi non condividiamo i dubbi e le riserve avanzati da alcuni colleghi preoccupati di conservare nell'ambito della famiglia una gerarchia che la realtà politica e sociale ha già superato. Si è detto che la famiglia deve avere un capo, l'ha detto anche l'onorevole Calamandrei, che ha soggiunto: uomo o donna, non ha importanza. Egli l'ha detto, credo, senza fare dell'ironia, ma io ho colto dei sorrisi nell'Aula. Ora, vorrei domandare ai colleghi che hanno sorriso quel giorno se essi sono ben convinti che su questo si possa fare dello spirito, che una donna a capo della famiglia sia davvero cosa tanto ridicola. Noi non intendiamo, badate, che la Patria potestà debba essere esercitata dalla donna; noi sosteniamo che diversità di compiti nell'ambito familiare non significa necessariamente disparità di compiti. Ma mi pare che le donne abbiano già dato sufficienti prove di saper dirigere una famiglia, di avere le capacità, la forza fisica e morale per dirigerla. Non sto a parlare di quello che le donne hanno fatto in tempo di guerra, ma vorrei invitare i colleghi che conservano dubbi a questo riguardo, ad osservare ciò che avviene intorno a noi: quasi senza eccezione, finché la madre vive l'unità della famiglia c'è, la saldezza della famiglia esiste. L'uomo può morire o andarsene, la famiglia resta egualmente unita. Ma, anche nelle famiglie più salde, più unite dai vincoli affettivi, quando la madre scompare i legami si allentano a poco a poco e finiscono per spezzarsi.

Si è parlato di preminenza naturale dell'uomo sulla donna. Io vorrei dire che la preminenza giuridica dell'uomo sulla donna proviene da un'altra cosa: dalla sua preminenza economica, preminenza che il capo della famiglia ha quasi sempre avuto in passato, ma che oggi in moltissimi casi non ha più. L'assoluta preminenza economica dell'uomo nella famiglia va gradatamente diminuendo e tende a scomparire con lo sviluppo della società moderna, nella quale l'uomo e la donna sono entrambi fattori essenziali dell'economia nazionale. Non solo da noi: è una conseguenza dello sviluppo della società moderna e vale per tutti i Paesi civili del mondo. E sarebbe vano opporsi a questa legge, onorevoli colleghi, anche con misure, come quella che è stata proposta, del salario su basi familiari. Gli assegni familiari sono cosa utile e necessaria, essi portano un aiuto concreto alla famiglia, ma non sarà il salario su base familiare a far ritornare la donna completamente nell'ambito della famiglia. Non c'è rimedio a questo. E se qualcuno se ne rammarica in nome di una tradizione che gli è cara, c'è anche chi pensa che in una società ben ordinata la donna potrà, senza trascurare i suoi doveri di moglie e madre, essere in grado di partecipare attivamente al processo produttivo, potrà inserirsi da pari a pari nella vita della Nazione.

Noi comprendiamo come, dal punto di vista pratico, sia difficile alla legislazione risolvere questi problemi in una fase di transizione come quella che noi stiamo attraversando. Sono problemi difficili, ma non impossibile a risolversi. Non è compito di quest'Assemblea affrontarli.

In questo caso si tratta di affermare un principio giusto, e la Costituzione deve affermarlo. Al legislatore toccherà il compito di tradurlo in leggi: si cercherà insieme una formula che soddisfi le esigenze di tutti. Questa esigenza è viva e sentita tra le masse femminili, onorevoli colleghi, e ne è prova anche la grande affluenza delle donne italiane nelle organizzazioni di massa femminili.

Voi non ignorate certo che in Italia esistono organizzazioni di massa femminili che contano un numero imponente di aderenti, come l'Unione Donne Italiane ed il Centro Italiano Femminile. Non ho dati precisi al riguardo di questa ultima associazione; ma credo che esse contino, unite, circa due milioni di aderenti e la loro influenza nel Paese è ben più grande.

Queste organizzazioni di massa hanno scopi ben precisi, onorevoli colleghi. L'U.D.I., sorta in un momento difficile della vita del nostro Paese, quando le donne vollero battersi contro i negatori di tutte le libertà, rivendica oggi nel suo programma parità per tutte le donne di tutti i diritti, nel campo politico, economico e sociale, perché esse possano, attraverso lo sviluppo della propina persona, sempre più divenire fattori di progresso in seno alla famiglia e in seno alla Nazione.

È una realtà che non bisogna ignorare, onorevoli colleghi, né sottovalutare.

Del resto, io devo dirvi che noi ci siamo rallegrati di udire giorni fa, qui, una giovane collega, di udire altre colleghe di questo settore che hanno parlato in quest'Assemblea, che sono intervenute nel dibattito per la Costituzione. Abbiamo pensato che con esse, altre verranno a popolare questi banchi e impareranno da voi a servirsi di questa tribuna, non per difendere punti di vista femministi — che noi non condividiamo anche perché, tra l'altro, partono da premesse sbagliate — ma per difendere insieme con la libertà di tutti gli individui, la libertà delle donne italiane.

Riconoscere alla donna la parità morale e giuridica anche nell'ambito della famiglia, significa contribuire validamente allo sviluppo della persona umana, allo sviluppo della personalità femminile; non accettare il principio della parità morale e giuridica dei coniugi, significa porsi in contrasto con un principio che è stato accettato e approvato recentemente da tutta l'Assemblea.

L'onorevole Molè, giorni fa, ha parlato in termini molto elevati della donna, della madre; l'ha posta così in alto che ad un certo punto ho avuto quasi il timore che la donna, la madre di cui egli parlava si perdesse tra le nubi, lasciando nella realtà mogli e madri italiane nello stato di inferiorità, cui le costringe l'attuale legislazione italiana. Tuttavia, l'onorevole Molè ha pronunciato parole che ci hanno commossi, che hanno commosso soprattutto le donne di questa Assemblea.

Riferendomi a quelle sue parole, vorrei dire che l'affermare oggi il principio nella Costituzione onorerà la nostra Assemblea, così come ha onorato i componenti della Sottocommissione che l'ha accettato all'unanimità. E aggiungo che questo, sì, è un riconoscimento che ciascuno di noi deve a quella che certo è, o sarebbe, se vivesse ancora, orgogliosa di aver dato la vita ad un figlio che è oggi investito di così grande responsabilità di fronte alla Nazione e di fronte a tutte le donne italiane. (Vivi applausi Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti