[Il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Malvestiti. [...] Bisogna, invece, puntare risolutamente sulla trasformazione, direi meglio, sul superamento dell'economia capitalistica: perciò il solo diritto, sancito dall'articolo 43, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende mi sembra del tutto inefficace ed illusorio.

[...]

Ora, l'articolo 43 immette i lavoratori nella gestione delle aziende; ma, pure ammesso che tutto ciò debba portare un contributo notevole alla produzione, c'è sempre una domanda da farsi, una riserva da proporsi: a profitto di chi? Si può dire, genericamente, «a profitto della produzione»; ma questa è una parola.

Si tratta, concretamente, di modificare la ripartizione del profitto, senza danneggiare il normale funzionamento di un sistema produttivo che ha pur fatto delle grandi prove; si tratta di conservare quanto c'è di buono nel sistema, indirizzandolo verso un'evoluzione in cui l'imperativo sociale diventerà sempre più dominante; si tratta di toglier di mezzo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo senza sostituirvi l'ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l'uomo. Si tratta, in sostanza, di creare una vera e vitale democrazia economica.

E allora, bisogna avere il coraggio di andare più in là; bisogna avere il coraggio di dire: i lavoratori hanno diritto alla compartecipazione, regolata dalla legge, agli utili, al capitale e alla gestione dell'impresa di tipo capitalistico. La legge riconoscerà il diritto al lavoro di essere rappresentato nei consigli di amministrazione delle società per azioni, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria.

Soltanto così, noi diamo ai lavoratori quello che i lavoratori aspettano da noi; restituiamo al lavoro la sua nobiltà e la sua gioia; liberiamo il volto dell'uomo dandogli la scienza della vita, la serenità della vita, l'onore della vita. (Applausi al centro).

[...]

Colitto. [...] h) Quanto, infine, ai consigli di gestione, di cui tanto animatamente oggi si discute — i salariati considerandoli come qualche cosa di atto a salvaguardare gli interessi stessi del processo produttivo, di cui diventano compartecipi attivi e ragionanti, e gli imprenditori avversandoli, in quanto li considerano forme ibride di collaborazione coatta, dannosi alla vita aziendale, agli interessi veri dei lavoratori ed all'economia del Paese, io ho ritenuto di dover proporre che alle parole del progetto: «I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende, ove prestano la loro opera» siano aggiunte le parole «per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse». Penso che la aggiunta sia da approvare, perché sono convinto che i lavoratori hanno, sì, il desiderio di collaborare, ma nessun desiderio di assumere rischi. E, d'altra parte, una normale forma di collaborazione fra datori di lavoro e lavoratori non inciderebbe sull'ordine aziendale, restando salvaguardate l'autonomia e la responsabilità degli organi direttivi dell'impresa. Non so se è vero; ma ho sentito dire che il Ministro Morandi, estensore dell'ormai famoso progetto, ha detto che i consigli di gestione, se attuati nella formula piena, fatalmente «scasserebbero» le aziende».

[...]

Maffioli. [...] Ma gli ultimi colpi di grazia veri e propri all'istituto di quella proprietà e di quella privata iniziativa, di cui poco dianzi si era proclamata la legittimità e di cui si era anzi assunta la garanzia, sono dati dagli articoli 38[i], terzo comma, 41 e 43.

[...]

Viene quindi il conclusivo articolo 43, che sancisce il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende, sanzionando così il demagogico slogan «la fabbrica è nostra» con cui si sogliono imbottire i crani degli operai. (Interruzioni a sinistra).

Si potrebbe chiedere, dopo tanto scempio, che cosa resti più dell'affermato e, notisi, garantito istituto della proprietà e dell'iniziativa privata, e se il riconoscimento della loro legittimità non sia fatto per burla.

Con tante riserve esplicite ed implicite, dirette e indirette, formali e sostanziali, con gli ultimi emendamenti perentori che dispongono la limitazione quantitativa della proprietà terriera, nonché la limitazione delle successioni, nonché il diritto dello Stato di scacciare l'erede autentico, per carpirgli l'eredità, e infine il diritto delle cosiddette masse di subentrare nella amministrazione delle aziende che non sono di loro proprietà (Interruzioni a sinistra), come si potrà più parlare seriamente di proprietà privata, di libero esercizio dei diritti inerenti a tale proprietà, in codesto Stato-piovra, che si riserva di controllare e di sfruttare, secondo il capriccio della cricca imperante, persino le secrezioni sebacee di singoli cittadini?

[...]

Vale la pena, prima di chiudere, soffermarsi su quel capolavoro di settarismo che si concreta nell'articolo 43, «perla» dell'intero titolo.

«I lavoratori hanno diritto di partecipare alla gestione dell'azienda».

Si vuole evidentemente alludere all'amministrazione e direzione dell'azienda, essendo ovvio che alla gestione, intesa nel senso più lato di «funzionamento» dell'azienda, tutti i lavoratori concorrono e hanno sempre concorso.

Ma in che modo, la massa degli operai e impiegati potrebbe partecipare alla direzione dell'azienda?

Basta porre la questione, senza fumisterie demagogiche per rendersi conto che mai e poi mai la «massa» parteciperà alla direzione dell'azienda. Vi parteciperà l'esigua minoranza dei «delegati» della massa, ossia praticamente un'aristocrazia, la quale, dal momento stesso in cui avrà lasciato la falce e il martello, o il libro dei conti, per dedicarsi alle nuove funzioni comportate dalla direzione dell'azienda, dovrà subire un radicale cambiamento nel modo di pensare, di sentire, di operare, sì da adeguarsi nella misura delle sue possibilità, alle esigenze delle superiori funzioni direttive e delle dure leggi economiche. Sentirà con ciò stesso di essere diventata l'eguale e l'emula dall'amministratore naturale e legittimo. Nascerà in tal modo una nuova classe borghese che non avrà più nulla di comune, per il modo di pensare, di sentire e di agire, con la massa degli altri lavoratori prestatori d'opera.

Orbene, quali motivi e ragioni potrebbero consigliare una tale sostituzione fra dirigenti? Non certo la ragione economica, cioè quella del massimo rendimento dell'azienda (che è poi l'unica che anche nel campo dell'economia sociale dovrebbe contare).

Basti riflettere che la classe dei dirigenti naturali, è di solito costituita da individui che sono assurti ai posti di comando in virtù di una inclinazione e attitudine naturale, di una lunga preparazione tecnico-professionale, spesso respirata fin dall'ambiente familiare; diventati tali, cioè, in virtù di una selezione naturale, di una fatale legge di ambiente, per la quale solo i «migliori» i più «adatti» e dotati possono affermarsi e quel che più conta, «mantenersi» nelle posizioni conquistate. I mediocri, gli inadatti sono man mano eliminati dalle ferree leggi della concorrenza. Ora è notorio che la scelta delle masse si determina di solito in virtù di considerazioni politiche, di raccomandazioni, di pressioni dirette o indirette del partito dominante o influente, motivo per cui, più che le persone più dotate e più adatte dal punto di vista tecnico-professionale, sarà scelto lo zelatore, l'attivista, il fiduciario del partito politico dominante, scelta sicuramente nefasta per le esigenze del miglior funzionamento dell'azienda. Questo possiamo dirvelo con tranquilla coscienza, noi che abbiamo incominciato a fare esperienza con le Commissioni interne, nelle quali prevale quasi sempre l'elemento meno equilibrato, più violento, fazioso, il meno adatto dal punto di vista della competenza specifica.

Dal punto di vista della competenza degli elettori, poi, si rileva in ogni caso l'assoluta incompetenza, e vorrei dire impotenza della massa a fare una buona scelta.

Per poter giudicare assennatamente se un candidato è maturo per esercitare la professione del medico, il giudicante deve conoscere anzitutto la scienza medica. Per giudicare quale persona sia idonea a ricoprire degnamente la carica di direttore di una determinata azienda, bisogna che il giudice — e cioè l'elettore — conosca a fondo la natura e le esigenze delle funzioni direttive alle quali si tratta di destinare l'individuo che si vuole eleggere, ciò vuol dire che la massa dovrebbe conoscere a fondo, per così dire, la fisiologia dell'azienda, cioè il complesso delle esigenze tecniche, economiche, morali che ne determinano il miglior funzionamento intrinseco; dovrebbe poi altresì conoscere a fondo le leggi che determinano la concorrenza e l'economia generale del mercato: tutto ciò, insomma, che costituisce il geloso e spesso insostituibile e inalienabile patrimonio intellettuale di un buon amministratore.

Ma la massa non è composta di siffatti competenti, altrimenti non sarebbe massa, dunque mai potrà conoscere quali esigenze richiedano le funzioni amministrative cui si tratta di preporre l'uomo più adatto, e perciò stesso mai potrà dare un giudizio motivato e competente sulla scelta dei dirigenti, salvo che per azzardo.

Dal punto di vista economico del miglior rendimento, la sostituzione si dimostra quindi del tutto insensata, o, nella migliore delle ipotesi, problematica ed aleatoria quanto mai. Non resta dunque che la ragione politica, o meglio la ragione della fazione, a consigliare e volere una tale sostituzione o collaborazione, in quanto cioè, si vuole che la corrente dominante, abbia i propri caporali ai posti di comando delle aziende private a vigilarne il funzionamento per il proprio tornaconto politico.

Or tutto questo significa danno per la produzione e, in ogni caso, incertezza e aleatorietà per ciò che concerne il miglior rendimento dell'azienda in quanto si antepongono gli interessi politici alle esigenze economiche, e per contro significa attuazione certa di uno dei più pericolosi mezzi di dittatura, quale può essere appunto un organo di comando aziendale disposto a conformare le proprie direttive alla volontà del potere politico centrale, della cricca al potere (direttive che, come l'esperienza insegna, sono sempre funeste).

[...]

Noi pertanto riteniamo che lo Stato propugnato dall'Uomo Qualunque potrà risolvere la questione sociale dando alle masse effettiva e sostanziale elevazione morale e materiale, basata:

1°) sulla partecipazione del lavoratore alla ricchezza che egli concorre a creare, partecipazione fondata non su un'illusoria e impossibile partecipazione alla direzione dell'azienda che fa comodo solo ai caporaletti sfruttatori delle masse, ma bensì su una possibile, benefica ed effettiva sua partecipazione ai beni comuni nella solidarietà e nella collaborazione dei fattori della produzione sotto la forma di una sua interessenza alla produzione in aggiunta alla giusta retribuzione;

 


 

[i] Il resoconto stenografico riporta erroneamente «30» invece di «38».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti