[Il 20 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quarto della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti politici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Di Giovanni. [...] C'è nella formulazione dell'articolo 49 l'affermazione della difesa della Patria come sacro dovere del cittadino. È, in sostanza, il riconoscimento della più alta idealità, che è la concezione della Patria, sintesi dell'immortalità della vita di un popolo, asceso ad alta civiltà, custode della propria tradizione, garante del proprio avvenire e vindice del proprio destino.

E nell'affermazione di questo principio non si può non essere tutti consenzienti; in rapporto a siffatta affermazione, la formulazione dell'articolo 49 fa seguire la dichiarazione che il servizio militare è obbligatorio.

È stato presentato in proposito un emendamento dai compagni onorevoli Cairo ed altri, nel senso che il servizio militare non è obbligatorio. Debbo dichiarare che io non sono assolutamente favorevole a questo emendamento; a me sembra che il ritenere e proclamare non obbligatorio il servizio militare costituisca una contraddizione in termini con quella che è la superiore affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa della Patria.

Si dirà: ma c'è il servizio volontario; ma il servizio volontario e l'esercito volontario si identificano con l'esercito mercenario. Noi abbiamo appreso come anche Nazioni democraticamente progredite, le quali non avevano la coscrizione obbligatoria, l'hanno dovuta adottare in presenza dei grandi avvenimenti della recente guerra, ormai chiusa; e, speriamo, definitivamente chiusa.

Immediatamente dopo il risorgimento italiano, il cuore generoso di Giuseppe Garibaldi levò l'ammonimento possente contro gli eserciti stanziali, che definì la rovina delle Nazioni. Ed egli sostenne l'istituzione del tiro a segno, l'addestramento dei cittadini alle armi con periodiche esercitazioni nei giorni festivi, con conferenze ed esercitazioni tattiche per ufficiali, con insegnamento di discipline militari, ecc.; tutto un insieme di iniziative che avrebbero dovuto formare non soltanto i soldati, ma anche i quadri dell'esercito, ed attuare il concetto della Nazione armata: tutti soldati, e nessun soldato. Ma Giuseppe Garibaldi aveva fatto la gloriosa esperienza dei suoi volontari, dei suoi legionari, i quali l'avevano seguito in imprese che parevano — ed erano — leggendarie: da Sant'Antonio al Salto, da Varese a Bezzecca, da Marsala al Volturno, dove Egli, apostolo armato di libertà, donò al re sopraggiunto il regno e si ritrasse a consumare, incontro ai monti del Sannio, la refezione di pane e cacio, guardando lontano l'aratro antico segnare i solchi fecondi.

Ma la storia cammina, e con ritmo accelerato; i tempi mutano. Purtroppo, lo spettro della guerra si è ancora ripresentato: tristo fenomeno di reversione atavica e di patologia collettiva, che dal profondo dell'anima auguriamo possa sparire in una umanità migliore e più giusta. Sono mutati anche i mezzi di offesa e di difesa; la guerra è diventata meccanizzata e tecnica; sono venuti gli aggressivi chimici — ne facemmo dolorosa esperienza il 16 giugno 1916, primo esperimento dei gas asfissianti, fra i maligni intrighi dei reticolati e delle trincee di San Martino e di San Michele del Carso; è venuto l'aeroplano: questo mezzo audace che, frutto del pensiero umano, dal tentativo infecondo di Icaro alle investigazioni scientifiche del genio italiano di Leonardo da Vinci, fino alle prove vittoriose dei dominatori dell'aria, avrebbe dovuto asservire la conquista del cielo a vantaggio dell'umanità, e che è diventato purtroppo strumento di insidia e di distruzione; è venuta la bomba atomica, di cui l'ingegno predatore, strappando alla natura i più riposti segreti, si giova per le devastazioni e lo sterminio dei popoli.

Limitare la preparazione di una difesa del Paese — coerentemente a quella che è l'affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa del sacro suolo della Patria — ad una organizzazione di attività puramente volontaria non mi pare possa rispondere alle necessità della difesa, quale è imposta oggi dalla tecnica difensiva, nella sua vasta e complessa concezione e nella più idonea ed efficiente attuazione.

E allora io penso che la concezione profondamente umana e generosa di Giuseppe Garibaldi — la sostituzione, cioè, della Nazione armata all'esercito stanziale — possa trovare la sua migliore attuazione quando si saranno ridotte le ferme — ferme brevissime — limitate la forza organica e la forza bilanciata, attenuato il contingente dei presenti alle armi. Occorre fare, insomma, che attraverso l'esercito passi periodicamente ma continuamente tutta la gioventù come in una scuola di addestramento e di preparazione: addestramento e preparazione non soltanto tecnica ma anche e sopratutto spirituale. L'esercito deve divenire — secondo il nostro avviso — una scuola di educazione e di preparazione alla vita, oltre che una scuola di organizzazione e di preparazione tecnica militare, per l'alto fine della difesa del Paese: scuola di eccitamento e di ammaestramento al sacrificio, all'eroismo, al sentimento del dovere sopratutto. Scuola per ciò stesso di preparazione alla vita!

C'è l'ultimo comma di un emendamento dell'onorevole Cairo che accenna all'attuazione della neutralità perpetua: «La Repubblica, nell'ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua»:

È indubbiamente una generosa aspirazione ideale alla quale non possiamo che fare omaggio; ma io penso che consacrarla nella Carta costituzionale non sia possibile, come non è possibile vincolare a questo imperativo categorico le generazioni future. Sarebbe come accettare il disegno della pace perpetua dell'abate di Saint Pierre, o i postulati della «Repubblica» di Platone o della «Città di Dio» di Sant'Agostino. Sono aspirazioni, nobilissime aspirazioni dell'animo umano in una superiore concezione di spiriti eletti, ma non mi sembra che possano essere consacrate come un precetto concreto e reale in una Costituzione.

E c'è un altro accenno nella formulazione dell'emendamento del compagno Calosso e di altri tendente a stabilire il dovere dello Stato di inserire nel bilancio stanziamenti per l'esercito non superiori a quelli destinati alla pubblica istruzione. Certamente, nell'intendimento dei redattori di questo emendamento, c'è la volontà encomiabile di mettere in evidenza la prevalente importanza della pubblica istruzione. Ma io capovolgerei i termini della proposizione; direi piuttosto che, poste le esigenze del bilancio dello Stato per la difesa del Paese, sia nel bilancio stesso segnata una cifra uguale per la pubblica istruzione. Purtroppo alla pubblica istruzione non sono state dedicate le doverose cure, né sono state dimostrate le vigili premure dell'amministrazione dello Stato, mentre indubbiamente si tratta di uno dei gangli più importanti della vita del Paese; la formazione cioè del pensiero e della coscienza delle nuove generazioni, alle quali è affidato il presidio della Patria e la difesa della democrazia nelle sue più alte e concrete espressioni: la libertà e la giustizia. Auguriamo, onorevoli colleghi, (mi rivolgo soprattutto ai compagni verso i quali ho dovuto mettere in rilievo la mia personale contraddizione con la formulazione dell'emendamento da loro proposto) che sia prossimo il tempo in cui, cessati gli odi fratricidi fra i popoli; dimesse le mire di egemonie ed i sogni d'impero, che sono stati fino ad ora prevalente stimolo e causa delle conflagrazioni internazionali; posta sugli altari la concezione della giustizia per tutti i popoli; instaurata una umanità avvinta dalla solidarietà e dalla fratellanza; rinsaldata l'internazionale socialista del lavoro che stringendo in unico patto tutti i lavoratori del mondo potrà opporre una barriera insormontabile contro qualsiasi brama liberticida e qualsiasi disegno oppressore della libertà dei popoli; auguriamo, ripeto, che in un domani non lontano possa su questa umanità di liberi e di uguali levarsi il canto di Mario Rapisardi, il poeta della giustizia sociale, o le strofe dell'irsuto maremmano, alto poeta civile d'Italia:

quando una forte schiera di liberi

dirà, guardando nel sole: illumina

non ozi e non guerre ai tiranni

ma la giustizia pia del lavoro!

[...]

E passiamo all'articolo 49:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio».

Sostituirei: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria per i cittadini di sesso maschile». Di fronte alla parificazione dei due sessi, a norma della nostra Costituzione, anche per il diritto di accedere ai pubblici uffici, mi sembra evidente l'opportunità dell'aggiunta.

È poi detto: «L'ordinamento dell'esercito»; giustamente è stato proposto «l'ordinamento delle forze armate»: è un emendamento dell'onorevole Gasparotto, nel quale consento.

Là dove dice: «Il servizio militare è obbligatorio» occorre aggiungere: «I termini e le modalità sono stabiliti dalla legge sul reclutamento».

Ho così esaurito il mio compito. Volevo sottoporre all'attenzione dell'Assemblea il mio punto di vista su quelli che a me sembravano le parti salienti del Titolo in discussione.

Mi auguro che l'Assemblea, soprattutto per quanto riguarda l'obbligatorietà del servizio militare, riconosca ed affermi questo precipuo dovere del cittadino, come riconoscimento ed attuazione dell'affermazione superiore che il dovere della difesa della Patria è sacro per tutti. (Applausi).

[...]

Azzi. [...] Dice l'articolo 49 al primo comma: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Pochi minuti or sono l'onorevole Di Giovanni diceva che questo principio è accettabile senza discussione da qualsiasi parte dell'Assemblea Costituente. Credo sia accettabile anche da parte di tutto il Paese. Io anzi sottolineerei la legittimità di questo principio dicendo che la difesa della Patria è oltreché un sacro dovere, un sacro diritto del cittadino. Ma lasciamo andare la questione della forma e veniamo alla sostanza. Dall'accettazione di questo principio indiscusso deriva un immediato dovere per il cittadino, il dovere, cioè, di prepararsi moralmente, fisicamente e tecnicamente all'assolvimento del suo compito di difensore della Patria. Ma poiché questa preparazione morale, fisica e tecnica non può essere raggiunta dai singoli individui, bisogna che a questa preparazione provveda lo Stato. In questo progetto di Costituzione, lo Stato ha provveduto affermando il principio del servizio militare obbligatorio. Ed è precisamente su questa affermazione del progetto di Costituzione che io voglio richiamare in modo particolare la vostra attenzione.

Se il servizio militare è obbligatorio, come dice il progetto di Costituzione, significa che questa obbligatorietà deve essere generale, e cioè che tutti i cittadini moralmente e fisicamente idonei devono essere preparati fin dal tempo di pace a difendere la Patria.

È necessario, ed è possibile l'assolvimento di questo compito da parte dello Stato?

Se io mi riferisco al principio generale stabilito nell'articolo 6 della Costituzione, che dice: «La Repubblica ripudia la guerra come strumento di offesa alle libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione di controversie internazionali», lasciando cioè alla Repubblica un solo compito difensivo, io dovrei dire che l'addestramento di tutti i cittadini in tempo di pace non appare necessario.

Se poi mi riferisco alle condizioni che ci sono state imposte dalle clausole militari del trattato di pace, che riducono gli effettivi delle forze armate alla limitata entità che tutti conosciamo, io credo di poter affermare che la realizzazione di questo compito di preparazione da parte dello Stato non è possibile, inquantochè, con la riduzione a 185 mila uomini, non si arriva ad addestrare tutto il contingente annuale di leva.

Se mi riferisco, infine, e questo è il punto fondamentale, alle disgraziate condizioni economiche del nostro Paese, io dico che l'addestramento militare dei cittadini deve essere annualmente limitato ad una forza che non superi le possibilità economiche del nostro Paese. D'altra parte, io ricordo, e quelli che hanno la disgrazia di avere la mia età ricorderanno, che il principio dell'obbligatorietà del servizio militare non è stato mai attuato integralmente, in passato, né in pace, né in guerra. Ricordo che quando ero giovane si stabiliva la forza bilanciata in relazione all'assegnazione di bilancio fatta al Ministero della guerra.

I cittadini obbligati alla coscrizione si recavano al Consiglio di leva o al Distretto ed estraevano un numero: chi estraeva un numero alto non faceva il servizio militare; faceva il servizio militare soltanto chi aveva estratto un numero che non superasse quello della forza massima bilanciata per quell'anno. L'obbligatorietà del servizio militare era lasciata quindi alla sorte. Il concetto fu poi modificato in questo senso: che per mantenere la forza bilanciata nei limiti di assegnazione del bilancio, si ricorreva all'esonero di chi era in particolari condizioni di famiglia (figlio unico di madre vedova, figlio di padre inabile al lavoro, ecc.); si ricorreva in qualche anno, io ricordo, persino, a giuocare sulla statura dell'individuo: se un anno era necessario un maggior numero di soldati, venivano dichiarati idonei quelli alti un metro e 54; se un altro anno ne occorrevano di meno, quelli alti un metro e 54 non erano più idonei, venivano dichiarati idonei soltanto quelli alti un metro e 55 o più. Effettivamente dunque il principio dell'obbligatorietà generale al servizio militare non è stato mai interamente attuato in tempo di pace. In guerra non ne parliamo! E l'abbiamo visto nell'ultima guerra, quando abbiamo avuto esoneri per ragioni di famiglia, per ragioni di esigenze industriali e agricole, esoneri per ragioni politiche, per ragioni di utilità pubblica, ecc., ecc. Quindi numerosissimi sono stati gli esoneri che hanno dispensato dal servizio militare in tempo di guerra una notevole quantità di cittadini dello Stato. Ora, se questo principio della obbligatorietà generale del servizio militare non ha potuto essere attuato nel passato, né in pace né in guerra, per le ragioni che ho detto, nelle condizioni in cui siamo attualmente credo che questo principio abbia ancora minori probabilità di una attuazione totale. D'altra parte perché vogliamo togliere al futuro legislatore la possibilità di stabilire le modalità del servizio militare a seconda delle mutevoli necessità contingenti? Perché vogliamo vietare al futuro legislatore, per esempio, di stabilire che per uno, due o tre anni, date le nostre disgraziate possibilità economiche, lo Stato rinunci completamente alla chiamata alle armi servendosi del servizio volontario per mantenere alle armi un certo contingente di uomini? Voi direte: e se scoppia la guerra? Io rispondo: speriamo che non scoppi; se scoppiasse, abbiamo in congedo centinaia di migliaia di soldati preparati alla guerra attraverso 5, 6, 7 anni di servizio militare. Molti di questi uomini sono già addestrati tecnicamente e padroni del funzionamento delle armi moderne, soprattutto inglesi, che ora costituiscono la parte essenziale dell'armamento dell'esercito italiano, e nessun pericolo c'è per la difesa della Patria; mentre con questa soluzione che potesse adottare il futuro legislatore, risparmieremmo sul bilancio delle forze armate parecchie decine di miliardi che potrebbero essere utilmente impiegati in opere di ricostruzione nazionale. E d'altra parte ancora, come accennava ieri sera l'onorevole Gasparotto, il principio della obbligatorietà del servizio militare non è sancito da quasi nessuna delle Costituzioni moderne. Io ho letto un fascicolo, che mi è pervenuto dalla Presidenza dell'Assemblea, dal titolo «11 Costituzioni» ed ho potuto notare che le Costituzioni moderne o non parlano affatto di servizio militare, come per esempio quella francese, perché si riferisce a quello che è ormai sancito dalla tradizione e dalla storia, o se ne parlano fanno sempre riferimento al servizio militare regolato dal legislatore, in relazione alle mutevoli contingenze della situazione.

In base a queste mie considerazioni, ho presentato un emendamento all'articolo 49, col quale emendamento propongo la soppressione dell'espressione: «Il servizio militare è obbligatorio», sostituendola con l'altra: «La coscrizione militare è obbligatoria». Propongo, altresì, di demandare alla legge la regolamentazione della materia. Io intendo — ed è bene che lo chiarisca perché potrebbero sorgere confusioni sulla interpretazione della parola coscrizione — io intendo la coscrizione come quella disposizione che obblighi tutti i cittadini, quando hanno raggiunto una determinata età, ad iscriversi nelle liste di leva ed a rimanere a disposizione dello Stato, come è adesso, ad esempio, dal 20° al 45° anno di età. Sarà poi la legge a stabilire quali di questi cittadini dal 20° al 45° anno di età, o in tempo di pace o in tempo di guerra, dovranno prestare servizio militare.

Ma se questo mio emendamento: «La coscrizione militare è obbligatoria» dovesse dare luogo a qualche equivoco di interpretazione, io vi rinuncerei e manterrei solo l'altra parte del mio emendamento che demanda alla legge la regolamentazione della prestazione del servizio militare. Questo darebbe la possibilità al futuro legislatore di servirsi, se è necessario, del servizio volontario. Anzi, in questo periodo, se vogliamo non allungare troppo la ferma per i cittadini obbligati al servizio militare, data la necessità di specializzazioni tecniche che sono inerenti all'evoluzione dei mezzi tecnici che oggi si impiegano in guerra, io crederei che fosse molto opportuno avere un esercito misto, cioè una parte a reclutamento obbligatorio (questo per la formazione degli elementi specializzati, dei graduati e dei sottufficiali) ed una parte a reclutamento volontario, con ferma breve, che completerebbe l'esercito sia in sede di addestramento in tempo di pace, sia in tempo di guerra.

Accettato eventualmente questo mio emendamento, io ho proposto un successivo emendamento. Al secondo comma, anziché dire: «Il suo adempimento (del servizio militare) non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici», io direi: «La prestazione del servizio militale obbligatorio non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici», in quanto che io non posso presumere che per il servizio militare volontario, possa competere al cittadino l'immutabilità della sua posizione di lavoro; come riterrei opportuno, allo scopo di assicurale nel miglior modo possibile la apoliticità dell'esercito, che fossero esclusi dall'esercizio dei diritti politici tutti i militari a reclutamento volontario. Perciò ho messo nel mio emendamento la parola «obbligatorio».

Ed infine veniamo all'ultimo comma dell'articolo 49 così formulato: «L'ordinamento dell'esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana». Io ho proposto l'emendamento, al quale ha accennato anche l'onorevole Di Giovanni, nel senso di mettere al posto di «esercito» la dizione «forze armate», per correggere quella che è stata certamente una svista del compilatore dell'articolo. Leggendo la formulazione di cui al progetto: «l'ordinamento dell'esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana», io mi sono domandato se questa norma fosse proprio necessaria, e mi sono risposto: se siamo in regime democratico repubblicano, è intuitivo che tutte le istituzioni repubblicane debbono essere ordinate democraticamente. Quindi non credo che ci sia la necessità di includere questa disposizione nella Costituzione. Ma giorni fa, parlando con un collega della mia intenzione di proporre la soppressione della norma da me considerata superflua ed accennando che anche altri colleghi avevano la stessa intenzione, il mio interlocutore mi ha fatto rilevare che alcuni degli altri proponenti partivano da un punto di vista diverso del mio, perché non vedevano con simpatia la democratizzazione dell'esercito. Ho allora deciso di rinunziare alla proposta di soppressione della disposizione contenuta nel progetto, disposizione che del resto è stata trovata utile e necessaria anche dall'onorevole Gasparotto ieri sera, allorché, parlando della democratizzazione delle forze armate, ha accennato anche al sistema per renderle democratiche: cioè quello di attuare delle ferme brevi non superiori a dodici mesi. La ferma di dodici mesi è più breve in confronto di quella di 18 mesi, e di quella di tre anni del passato, ma, se noi consideriamo l'opportunità e la possibilità di ricavare gli specialisti, graduati e sottufficiali, da un esercito volontario, io credo che la riduzione della ferma a sei mesi sia possibile senza danno per l'addestramento militare dei cittadini. E questo ve lo dico per esperienza, perché io fino a pochi anni fa ho fatto parte dell'esercito nel quale, anche quando la ferma era di 18 mesi, dopo quattro o cinque mesi di servizio militare, il soldato spariva dalla circolazione e andava a fare tutti i mestieri all'infuori di quello del militare; cosicché i soldati finivano per fare i cuochi, i camerieri, i dattilografi, gli attendenti, ecc. Infatti, l'addestramento militare vero e proprio durava dai quattro ai cinque mesi soltanto (il periodo cosiddetto di istruzione delle reclute).

Ma io vedo la democratizzazione dell'esercito, non soltanto come riduzione di ferma od altro, ma la vedo come modificazione della vita attuale, o almeno, di quella di poco tempo fa, perché è già due o tre anni che ho lasciato il servizio militare. Ricordo che in passato, e qui risalgo ad un periodo lontano, quando io ero sergente prima di andare alla scuola di Modena, prestavo servizio in un reggimento di fanteria dove mio fratello maggiore era sottotenente in servizio permanente effettivo e mi capitava, qualche volta, di uscire dalla caserma nelle ore di libera uscita con mio fratello, io in divisa di sergente e lui in divisa di ufficiale. Ebbene, il suo capitano gli domandò un giorno come mai lui andava sempre fuori insieme ad un sergente. Mio fratello rispose: «Per la semplice ragione che è mio fratello». Rispose il capitano: «Sta bene, lo capisco e me lo spiego, dato che questo sergente è suo fratello; ma fuori, chi vede e non conosce questa loro parentela può domandarsi: come mai questa dimestichezza tra un sergente e un ufficiale?»

Questa era la mentalità di molti anni fa!

Ma, se risalgo a tempi più recenti, ricordo un comandante di presidio nell'alta Italia, durante la seconda guerra mondiale, quando ero a Cuneo. Cuneo, data la forza militare che la presidiava, era una caserma, più che una città; ebbene, quel comandante di presidio aveva dato una disposizione di questo genere: che i soldati non potessero, nelle ore di libera uscita, passeggiare sotto i portici di destra (i portici di destra della Via Roma erano quelli frequentati dall'élite della città); i soldati dovevano passeggiare dalla parte opposta.

Un'altra norma era diretta a stabilire che nei cinematografi i soldati in divisa non avessero accesso in galleria, perché ciò poteva infastidire qualche ufficiale.

Ora, è la mentalità degli ufficiali che bisogna modificare per democratizzare l'esercito; e bisogna modificare anche il regolamento di disciplina, perché abbiamo ancora oggi in questo regolamento una disposizione in base alla quale il soldato deve salutare il superiore in qualsiasi circostanza, anche quando il superiore abbia la sua attenzione rivolta altrove. Cosicché, se un soldato passa dietro la schiena del superiore, deve salutare la schiena del medesimo.

Bisogna dunque aggiornarlo questo regolamento; bisogna evitare che il soldato, in omaggio al regolamento, venga rapato come un condannato all'ergastolo, perché questo dà luogo ad un sentimento di depressione morale da parte di questo soldato che a vent'anni si vede rapare la testa: e noi italiani, specialmente i giovani, abbiamo una certa debolezza per la nostra chioma prolissa.

Noi arriviamo fino a questo punto: che il complesso delle disposizioni del regolamento di disciplina, come voi sapete, hanno indotto i soldati a tirar fuori qualche barzelletta che indica bene quali sono le relazioni tra superiori e inferiori, o per lo meno, quali erano le relazioni tra superiori ed inferiori nel recente periodo che io ancora ricordo. Ad esempio, si attribuiva ad un caporale che, rivolgendo un rimprovero ad un soldato, esclamasse: «Quando parlate con me, fate silenzio!». Ovvero si dava la seguente definizione della disciplina: «La disciplina è quel vago sentimento di malessere che invade l'inferiore in presenza del superiore». Sono barzellette che pur hanno un fondamento di verità e bisognerebbe che il regolamento di disciplina fosse aggiornato e modificato in modo da rendere le relazioni tra superiore ed inferiore molto più — non dico amichevoli — ma intime in modo da avvicinarli nello spirito.

Perciò, io rinunzio all'emendamento soppressivo del terzo comma dell'articolo 49 e mi limito a mantenere la proposta di sostituzione delle parole «Forze armate» alla parola «Esercito».

[...]

Sullo. [...] Per quel che riguarda l'art. 49 poi devo manifestare il mio più netto dissenso da coloro i quali oggi parlano contro la coscrizione obbligatoria. Ho sentito da parte di alcuni parlare della necessità che il bilancio della pubblica istruzione sia perfettamente uguale (in entità) a quello delle forze armate. Vorrei rispondere con un paradosso: nella Italietta passata, quando non ero probabilmente ancora nato, molte spese, che si sarebbero dovute fare attraverso il bilancio della pubblica istruzione, sono state fatte attraverso il bilancio delle forze armate.

Noi meridionali sappiamo che il vecchio esercito, non dico quello inflazionato o recente, è stato una scuola di educazione e di istruzione specialmente per le nostre regioni. Sarebbe falsa una affermazione contraria. Come meridionale, posso dire che attraverso l'esercito vi è stata una pubblica istruzione ed una educazione popolare e che lo scambio che vi è stato da regione a regione, dai monti ai piani, da un mare all'altro mare è servito ad amarci e ad apprezzarci l'un l'altro; mentre, probabilmente, se vi fosse stata non la coscrizione obbligatoria ma il volontario, molti degli oscuri abitanti laboriosi ed affaticati delle nostre terre non sarebbero usciti da esse, né avrebbero visto altri fratelli delle altre parti d'Italia, né avrebbero sentito questa unità così come si è preparata prima della guerra mondiale e attraverso la guerra mondiale.

Onorevoli colleghi, non è soltanto una ragione di carattere morale quella che vuole che in democrazia tutti ci affatichiamo ugualmente, anche sotto le armi, anche quando si deve subire qualcosa che può essere perfino animalesca, ma tuttavia necessaria per la formazione del carattere; non è soltanto una ragione di carattere morale, ma anche di patriottismo, quella che mi fa insistere particolarmente su questo.

Ed io vorrei, appunto, ricordare a coloro che troppo facilmente dimostrano il desiderio di innovare e portare degli istituti nuovi nel nostro Paese, che la soppressione della «coscrizione obbligatoria» potrebbe essere un passo dannoso, non soltanto al modesto avvenire militare, della difesa del nostro territorio, ma anche e sovrattutto al senso di unità, che è venuto formandosi attraverso la vita militare.

Sono stato anch'io militare, ho sentito in certi momenti il disdegno contro certe forme militaresche da caserma e la inferiorità morale di chi mi metteva sull'attenti, ed ho sentito di vivere in quei momenti non come anima, ma come corpo bruto; nonostante questo, ritengo necessario per la formazione del carattere il servizio militare, sia pure modificato, e credo che non bisogna creare istituti nuovi, senza averne ben considerate prima le conseguenze.

E la medesima cosa a proposito delle innovazioni vorrei dire sul terzo comma dell'art. 49:

«L'ordinamento dell'esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica Italiana».

Se democrazia significa elezione alle cariche e governo della maggioranza, non capisco come lo spirito democratico possa stare nell'esercito o cosa possa significare.

Evidentemente, l'esercito è strumento di azione, che ha le sue regole particolari. Che si debbano togliere gli attendenti o dar loro altre funzioni o che il regolamento di disciplina debba essere modificato, chi è stato ufficiale in servizio permanente effettivo può saperlo meglio di me, che sono stato semplice ufficiale subalterno di complemento. Ma che questa modifica del regolamento di disciplina e dei particolari debba significare proprio quello che significa questo comma, io non cedo.

Questo comma o è superfluo o è pericoloso; se è superfluo, possiamo sopprimerlo; se è pericoloso, dobbiamo combatterlo.

Io ne ho proposto la soppressione, perché non credo che dobbiamo mettere dappertutto la parola «democrazia» senza ponderatezza; altrimenti democrazia non è quello che intendiamo sia, cioè rispetto della personalità umana, come mezzo per organizzarci e stringerci; in questo modo finiremo col considerare l'esercito, che deve essere uno strumento, nulla di più che uno strumento, per la salvezza e la consacrazione della democrazia, come un mezzo che ha di per se stesso un certo valore.

[...]

Calosso. [...] Credo che sia compito della Costituente, compito politico essenzialmente, quello di segnare le grandi linee della struttura dell'esercito, specialmente dopo un disastro di questo genere; è compito dei politici, dei costituenti e non dei tecnici, perché è chiaro che i tecnici, i militari, di per sé sarebbero portati a dire che è bene che l'esercito italiano sia superiore ad ogni altro esercito, per poter essere sicuro della vittoria. A questo tende naturalmente un tecnico. È un difetto della sua virtù che lo porta a questo; ma tocca a noi politici, e non tecnici, di valutare quale è la situazione geografica e politica in cui si inquadra il nostro esercito.

Ora c'è stato un cambiamento enorme nella struttura geografica delle potenze mondiali. Oggi non ci sono più grandi Nazioni, ma continenti: abbiamo l'America, abbiamo la Russia. Noi non siamo più una grande potenza, come non sono più grandi potenze la Francia e nessun altro Paese europeo.

Noi siamo grandi appena come la California, che è uno dei 48 Stati degli Stati Uniti; siamo grandi come appena una delle Repubbliche sovietiche, per cui dobbiamo calcolare questo fatto che ha i suoi svantaggi ed anche i suoi vantaggi.

Io personalmente preferisco essere cittadino di uno Stato non enorme, ma di uno Stato di 45 milioni, in cui in un certo senso ci conosciamo abbastanza, anziché essere sommerso in un immenso Stato imperiale.

Per esempio, la Cina ha 450 milioni di abitanti. Io apprezzo i cinesi, ma preferisco essere italiano. Non è una fortuna appartenere a un grande popolo. E questo si dovrebbe insegnare alla gioventù. Comunque, dal punto di vista militare, noi siamo ormai non più una grande potenza; siamo appena una regione di Europa.

In questa nuova carta geografica del mondo noi dobbiamo inserire un calcolo per vedere quali forze armate dobbiamo avere; dobbiamo calcolare la nostra forza relativa, poiché non esiste un esercito che vada bene in assoluto.

Se noi siamo, per esempio, la Repubblica di San Marino, avremo un ottimo, grande esercito quando avremo quattro soldati ed un caporale.

Un paese non può essere mai sicuro soltanto perché ha un esercito, a meno che non abbia un esercito superiore a tutti quelli degli altri paesi messi insieme ed una flotta superiore alle due più grandi flotte del mondo. Il calcolo politico si impone in maniera assoluta, se non vogliamo andare incontro a delle delusioni. Bisogna anche che si calcoli il nemico potenziale. Il nemico potenziale qual è oggi? Non, come taluno pensa, la Jugoslavia, perché in questo mondo moderno le guerre sono mondiali e quindi il nemico potrebbe essere uno dei due giganti. Ora è assurdo che noi possiamo misurarci con uno dei due giganti mondiali, e tuttavia credo che noi dobbiamo prepararci a rimediare al disastro sofferto.

Se osassi dire una parola, che ha bisogno poi di due minuti per non essere non disapprovata, vorrei dire che il proposito nostro è di pigliarci una rivincita della sconfitta avuta. Ora, questa rivincita, nella situazione mondiale, a mio parere, consiste nell'aver la forza necessaria per spostare il piano della lotta. È chiaro che con le armi è difficile che noi possiamo avere una rivincita, oggi che i grandi Paesi sono continenti; ma se noi ci spostassimo sul piano del pacifismo assoluto, se cioè riuscissimo a stare in pace trentacinque anni, come fummo in guerra trentacinque anni (perché in trentacinque anni avemmo cinque guerre e distruggemmo la nostra gioventù ed il Paese), in una Europa che probabilmente si lacererà in una guerra, io credo che potremmo fare dell'Italia il giardino di Europa.

E questo è il nostro programma. Sarebbe questa una magnifica rivincita.

Una voce. Un giardino coi «piselli»!

Calosso. Con i piselli: proprio con i piselli. Secondo il socialismo tedesco della epoca di Marx, c'era una teoria che diceva che i piselli erano una specie di vitamina di allora, tanto che i tedeschi, prima della guerra, quando andavano a pranzo, cantavano una bella poesia sui piselli. Questa poesia sui piselli è simpatica e anche noi canteremo l'inno dei piselli:

Noi abbiamo il pane

che basta a noi e ai nostri fratelli;

cresce il pino, il mirto e la rosa,

ed anche i piselli.

(Ilarità — Applausi).

Pigliarci questa rivincita italiana: questo è il nostro scopo. Noi possiamo farlo. Possiamo fare dell'Italia il giardino di Europa in maniera che gli stranieri, i turisti, gli oziosi quando verranno in Italia, vedranno un grande popolo fisicamente e moralmente sano; perché io non so quale piacere ci sarebbe ad essere un grande impero, come lo voleva il duce, dalle Alpi all'Oceano indiano (ricordate: faccetta nera, sarai romana), questo era il suo sogno: avere un impero color caffellatte. Mi pare che ciò sia un errore. Ora, in questa atmosfera nuova, noi dobbiamo calcolare quale deve essere il nostro esercito per avvicinarci più che si può alla possibilità della nostra difesa. Le vittorie oggigiorno non sono più vittorie militari. Esclusi questi grandi giganti con cui non possiamo misurarci, nessun Paese può aspirare ad una vittoria militare. Perfino l'Inghilterra, che era una grande potenza prima della guerra, in fondo in fondo non lo è quasi più. Ha fatto due guerre. Per la prima volta nella storia si è messa a fare vere guerre sanguinose: ci è cascata! Perché le guerre non si vincono sul campo di battaglia. La Francia ha vinto non so quante battaglie, con Luigi XIV e con Napoleone; ed a forza di vincere ha distrutto la sua gioventù. Le statistiche dimostrano che queste guerre continue sono riuscite perfino ad abbassare la statura media dei suoi cittadini. Altri popoli antichi militaristi sono addirittura scomparsi dalla terra. Per cui il militarismo è estremamente pericoloso, almeno per chi ama la battaglia per se stessa, come è accaduto ai tedeschi, che hanno preso una bella lezione. Noi non siamo fra questi. Le vere guerre si vincono sul terreno demografico. I manuali di storia non ne tengono conto, ma ne dovranno tener conto in futuro. Un Paese che riesce a stare in pace, e a non sacrificare la sua gioventù, migliora la stirpe. Così abbiamo popoli prosperi e felici. Ci sono esempi storici, come quello costituito dall'Inghilterra che, prima di lasciarsi trascinare nelle guerre, che l'han fatta decadere di potenza, nel '600, quando fece la sua rivoluzione parlamentare, che fu rivoluzione antimilitaristica, levò dalle mani del Re un esercito, per cui essa rimase senza esercito e si sviluppò l'aristocrazia come complesso antimilitaristico.

Una ragazza inglese, quando un ragazzo non le piace gli dice: «Perché non vai nell'esercito?» Questo modo proverbiale deriva dall'antimilitarismo innato nei britannici.

Appena presa questa direttiva, l'Inghilterra cominciò a salire in modo da stupire gli stessi contemporanei e divenne il Paese più prospero del mondo. Per essa la guerra non era guerra, perché la combatteva con piccoli eserciti mercenari di tedeschi o svizzeri, e persino a Waterloo il Comandante generale Wellington, che io apprezzo, disse che in fondo la sua armata aveva ben poco orgoglio militare e chiamò questo esercito: «feccia della terra». Infatti era una vera e propria accozzaglia di mercenari stranieri, privi di orgoglio militare. Ebbene questa accozzaglia, notate bene, fece la fortuna dell'antica Inghilterra parlamentare. Ma quell'epoca è finita con questo secolo di nuovi imperialismi Kiplinghiani. Si crede nel sogno imperialista: prima si fanno gli imperi e poi si diventa imperialisti. Ma chi fa gli imperi non è mai imperialista: lo dissero i Romani, e lo disse anche Machiavelli. Ma quando il sogno di Disraeli e di Pitt penetrò nell'Inghilterra, questa si mise a far guerre ogni venti anni, e ad ogni guerra cadde più giù. Voi direte che le guerre sono state pure la sua fortuna. Io vi rispondo: ebbene, essa ebbe uno sviluppo mercantilistico in anticipo, evolvendosi dalla sua condizione iniziale di isola, ma questo fu un fattore favorevole.

Perché noi non potremmo fare qualcosa di simile? Ma fare qualcosa è la nostra difficoltà: avete visto che per due anni non abbiamo arrischiato provvedimenti audaci, e non abbiamo mai fatto, od osato fare, grossi giuochi. Perché? Diciamo: è il tripartito! Questo è giusto, perché un Governo prende la responsabilità del Paese; ma non neghiamo di essere tutti colpevoli di questa specie di «donabbondismo» che è nelle nostre vene, dopo una dittatura debole e debolmente mascherata. Siamo tutti timidi; questa è la realtà: non osiamo prendere nessuna decisione. Mentre gli Stati orientali dell'Europa hanno fatto una riforma agraria, quelli occidentali hanno cominciato, alcuni, la costruzione del socialismo coi metodi della libertà, e gli Stati piccolissimi, come l'Olanda, hanno formato capitali bancari ed hanno risolto il problema della ricostruzione, noi non abbiamo osato. Perché? Perché venti anni di dittatura ci hanno resi timidi. Questa è la realtà. In questo fatto di timidezza è naturale che anche nell'esercito non riusciamo a prendere una decisione sufficientemente forte.

Il Partito socialista dei lavoratori italiani ha proposto, con alcuni Deputati di altri gruppi vicini, che «nel bilancio dello Stato le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno». Questa proposta ha delle difficoltà, ma quale è il carattere di Don Abbondio? È quello di mettersi prima nelle difficoltà e poi guardare la cosa. Ora, se facciamo così non concluderemo mai niente. Ma la cosa in sé è logica, perché questo emendamento racchiude questo concetto: noi abbiamo in Italia il 21 per cento di analfabeti, che in alcune regioni sale al 48 per cento, cioè di gente che firma con la croce. Vi sono paesi, come la Scandinavia, la Germania e la Svizzera, dove tutti hanno fatto almeno otto anni di scuola: in altri paesi dieci ed anche dodici. Noi, invece, abbiamo metà del popolo analfabeta, e questo è gravissimo e vergognoso in un paese come il nostro. D'altra parte, questo implica cattiva qualifica operaia. Noi avremmo bisogno di una grande qualificazione, anche per motivi di danaro; invece, spesso il nostro operaio non è qualificato.

Ed allora, in questa situazione, con le scuole distrutte, con l'analfabetismo che aumenta, noi diciamo: perché non uguagliamo il bilancio dell'istruzione a quello delle spese militari? Noi dobbiamo, in questa sede, onorevoli colleghi, stabilire che cosa dobbiamo spendere, e questa non è una cosa che si può domandare al tecnico, perché il tecnico risponderà: «due volte quello che guadagniamo». È chiaro che questo è il minimo che possa suggerire un generale. Invece dobbiamo stabilirlo noi. Ed allora, dobbiamo dire che le spese militari non dovranno superare quelle scolastiche. Sarebbe un assurdo spendere più per spese militari che per spese scolastiche in un paese analfabeta come il nostro. E sarebbe un assurdo anche nel campo militare. Qual è la vera forza dell'esercito? Non è quella di fare «Uno-due» in una caserma con delle baionette buone ad aprire una scatola di conserva. La forza sta nelle industrie e nelle attitudini sportive. Gli americani sono riusciti a formare un esercito all'ultimo momento, perché erano altamente sportivi. Le spese scolastiche, creando una qualifica operaia, e le spese sportive migliorando il materiale umano, costituiscono la vera forza dell'esercito. I nostri soldati sono forti, ma impacciati: occorrono tre mesi prima di farli camminare, mi diceva un giorno un importante generale attuale.

Un esercito senza industrie, senza qualifica operaia è l'esercito della sconfitta.

Oggi abbiamo 150 mila soldati, senza contare i carabinieri e le altre Forze armate. Tale cifra in Italia non si raggiunse mai in tempo di pace. Questi soldati sono male armati, né potranno mai essere bene armati, perché occorrono speciali industrie. Che cosa potrà fare un esercito di questo genere? Una volta un generale diceva: un soldato italiano batte dieci nemici. Questa è una bella frase per un caporale, ma non per un generale. Non si può ammettere che un soldato italiano nudo possa abbattere dieci nemici in carro armato.

Ora, questi 150 mila soldati male armati non possono arrivare che ad una conquista eroica: potranno magari farsi massacrare tutti e passare alla storia, ma non è questo il nostro scopo. Il Ministero della guerra, concepito come lo concepiscono i nostri generali conservatori piemontesi, come dice l'onorevole Pacciardi, (però ce n'è qualcuno che non è piemontese), basato su un esercito così fatto, il quale non può farsi che sconfiggere, è un Ministero che si potrebbe chiamare della sconfitta eroica. Non dobbiamo quindi mascherare la situazione. Questo lo dico non per un concetto antimilitarista, astratto, ma proprio per un calcolo dei bisogni del nostro Paese, e diciamo pure, della vittoria del nostro Paese nel mondo. Personalmente non avrei nessun motivo astratto per voler diminuire l'esercito; lo voglio anzi aumentare, specialmente nel prestigio e nella forma. Io stesso sono figlio di un contadino piemontese, che per di più è diventato sergente e poi ufficiale, e non c'è nessun conservatore più grande di un sergente, di un maggiore piemontese, e non dico questo perché mio padre mi chiamasse Umberto. (Si ride).

Ora, questa tradizione in casa mia c'era, ed io sono nato in questo ambiente, ed ho sempre vissuto in mezzo ad ufficiali effettivi e ne conosco la profonda onestà; ma ne conosco anche i difetti mentali, gli errori possibili, ed è a questi errori che noi dobbiamo rimediare con la più larga visione. Se noi riuscissimo, con molto coraggio, ad ancorare le spese militari a quelle scolastiche, avremmo fatto senza dubbio qualcosa; anche se il finanziere potesse obiettare che bisogna fare un bilancio unico, ecc. Bisognerebbe piuttosto realizzare subito un programma di questo genere e sarebbe bene poter dire, nella giornata di domani, per esempio, di aver potuto risolvere il problema scolastico. Questa è una difficoltà che dovremmo cogliere al balzo; per risolverla e dare al Paese un senso di fiducia, senza necessità di prendere un soldo al Tesoro. Su questo programma il nostro partito è impegnato.

Vedo qui degli emendamenti particolari, come quello degli onorevoli Cairo e Chiaramello, per l'abolizione della leva obbligatoria. Questo è un punto che è stato lungamente dibattuto e vi sono state anche molte obiezioni; ma se noi badiamo prima alla sostanza, poi alla forma, vediamo che anche la leva in Italia rappresenta un complesso militaristico che porta alle sconfitte, perché, in fondo, questo militarismo diffuso porta in sé qualche cosa di follaiolo e diminuisce il valore individuale.

Ora, se togliamo la leva obbligatoria, e facciamo un piccolissimo esercito, direi quasi un esercito di quadri, pagati bene — questo credo che anche ai nostri quadri non dispiacerebbe — se viene una guerra, evidentemente, non possiamo entrare e allora stiamo in pace.

Una voce al centro. Se ci lasciano in pace.

Calosso. Ecco un'obiezione che mi aspettavo e che giustamente è stata fatta. Supponiamo che non ci lascino stare in pace e ci invadano. Le alternative sono due: o noi con 150 mila soldati armati di baionetta andiamo a farci massacrare — ed allora resterà una bella pagina eroica nella storia — oppure, non facciamo la battaglia e allora non avremo neanche la sconfitta.

C'è qualcuno di voi che preferisce un buon massacro in una battaglia ad una sconfitta in una non battaglia?

Prima, quanto meno, avevamo due potenze quasi uguali; oggi è un assurdo perciò non vedo la necessità di questi 150 mila uomini. Ci occorre un esercito di quadri, incapace di entrare in lotta. (Commenti).

Una voce a destra. E allora a che serve?

Calosso. Quando scoppia una guerra o ci invadono, oppure, se c'è il tempo, abbiamo il germe per creare lentamente un esercito che, dopo cinque o sei anni, potrà essere qualche cosa.

Prendiamo un esempio pratico: l'altra guerra. Se avessimo avuto un esercito così fatto, non potevamo entrare in guerra subito; ci saremmo entrati il 3 novembre del 1918 e vincevamo sul serio, senza sacrifici. Anche in questa guerra, se avessimo avuto la necessità di prepararci alla lunga, ci sarebbe andata bene.

Uberti. Che strategia meravigliosa!

Calosso. Non è strategia: non credo di essere uno stratega. Io faccio della politica, cioè espongo quello che dobbiamo dire ai generali, che non possono imparare da nessuno.

Ora, cosa propone lei? Dieci milioni di soldati invece di 150 mila? Questo ci darebbe una sufficiente sicurezza; ma non c'è via di mezzo.

Vi sono delle obiezioni; anche i nostri compagni comunisti non sono entusiasti dell'abolizione della leva obbligatoria.

Io non so perché, ma certo vorrei esporre loro un motivo per cui — caro Pajetta — l'abolizione della coscrizione obbligatoria sarebbe utile. (Interruzione dell'onorevole Pajetta Giancarlo).

Io non ho mai detto di essere antipatriottico; ma il nostro pericolo è quello di essere mercenari, di essere adoperati dall'uno o dall'altro blocco come mercenari. Questo non deve essere in nessun modo. Noi dobbiamo avere astuzia, se possiamo — e non è impossibile — ed ardire nello stesso tempo.

Disgraziatamente siamo timidi in questo momento storico. Noi dovremmo, piuttosto, adoperare la flotta inglese, l'aviazione americana e l'esercito russo, anziché esserne adoperati. Noi dobbiamo cercare di non combattere per gli americani, o per gli inglesi, o per i russi. Questo deve essere il nostro scopo: metterci in situazione di non essere mercenari di nessuno.

Oltre tutto, questo nostro continuo interventismo in guerra, che dura da 35 anni, fa ridere gli stranieri, i quali dicono: «ecco gli italiani che vogliono entrare in guerra per poi scappare». (Commenti).

C'è poco da dire: sono insulti che all'estero ci facevano arrossire e a cui rispondevamo.

Pajetta Giancarlo. A noi che facevamo la guerra in Italia non l'hanno mai detto che volevamo scappare.

Calosso. Va bene; ma io cito Vishinsky come un esempio. Il Viceministro degli esteri Vishinsky è l'unico degli uomini politici europei che disse la sciocchezza...

Pajetta Giancarlo. Ma lei sa che... (Commenti).

Presidente Terracini. Non interrompa, onorevole Pajetta, la prego.

Calosso. Ma veda, gli inglesi, presso cui io ero, lo pensavano. (Commenti Interruzioni). Mi lasci parlare, onorevole Pajetta. Gli inglesi lo pensavano, anche se non me l'hanno mai detto. Essi sono infatti degli uomini politici consumati che hanno quel garbo per cui nella conversazione sono perfetti; ma io sentivo sotto la pelle, ogni volta che ci facevano un elogio, quella critica. Vishinsky invece l'ha detto apertamente: gli italiani scappano sempre. Siamo d'accordo che è una menzogna; Vishinsky ha mentito; è un insulto. (Interruzioni dell'onorevole Pajetta). Ma sì, siamo d'accordo: Vishinsky ha mentito. Bravo, onorevole Pajetta! (Commenti Applausi al centro).

Pajetta Giancarlo. Ma io dico che lei sta insultando gli italiani.

Calosso. Ma io dico che il soldato italiano è valorosissimo e che è stato condotto da capi inetti alle sue sconfitte, perché è stato costretto a combattere uno contro dieci, il che ha condotto all'accusa falsa di Vishinsky che i soldati italiani scappano sempre. Questo ho voluto dire; non si travisi, onorevole Pajetta, quello che ho voluto dire.

Io penso che, con un esercito senza leve obbligatorie, con un piccolo esercito di quadri, avremo il vantaggio di non poter diventare mercenari di alcuno e alla lunga ci accorgeremo che avremo vinto per lo meno sul terreno demografico.

Perciò mi pare utile, specialmente per gli amici della Russia, se lei accetta di essere amico della Russia, onorevole Pajetta, come io lo sono di fatto, che noi prepariamo al popolo italiano l'impossibilità di diventare mercenario. Questo è il fatto; perché non crediate che, con una propaganda comunista nell'esercito, si riesca a fare l'insurrezione, nel caso in cui noi siamo sotto questa influenza:

Pajetta Giancarlo. Speriamo di avere un Governo democratico contro il quale non sia necessaria alcuna insurrezione.

Calosso. Comunque sia, se abbiamo questo esercito fatto in questo modo, non possiamo diventare mercenari facilmente e questo è un vantaggio russo; e perciò vi prego di pensarci su, a meno che non abbiate risolto tutti i problemi a riguardo e questo è un problema da discutere nell'interesse della Russia.

D'altra parte, se si fa un esercito di quadri, si dice: si fa un esercito di mestiere. Ma noi abbiamo già 70.000 carabinieri che sono uomini ottimi, che sono uomini disciplinati, che sono uomini, direi, democratici: ora avere altri uomini di mestiere, non vedo che cosa cambi.

E, d'altra parte, si possono inserire i partigiani e i volontari. L'onorevole Gasparotto, Ministro della guerra, ha detto che nei carabinieri i volontari sono il 100 per cento, nell'aviazione il 64 per cento, nella flotta il 61 per cento. Si aggiunga che il volontariato è un sistema tradizionale, per lo spirito garibaldino italiano.

Ma anche questo, mi pare che non basti; la questione deve essere inquadrata, come ogni problema, in un orientamento deciso della Nazione. Ed è qui la difficoltà per noi, in questo momento storico: di fare qualche cosa di deciso. Difatti abbiamo cercato sempre di fare cose poco impegnative, mai qualche cosa di energico; e siamo i soli in Europa, in fondo. Perciò proporrei, come gli onorevoli Cairo e Chiaramello, un emendamento per cercare di ancorare il nostro Paese alla neutralità perpetua. Certo, una neutralità perpetua, giuridicamente definita, implica un accordo con gli altri; ma la Costituente può fare i primi passi su questa strada, piena di difficoltà anch'essa; perché aderire all'O.N.U. sembra in contraddizione con la neutralità perfetta. Ma noi dentro all'O.N.U. dovremo batterci — almeno a titolo di propaganda — per poterci inserire con questo nostro vincolo di neutralità perpetua. E ciò ci converrebbe anche per un motivo di fierezza. Guardate gli svizzeri, che sono neutrali, come sono rispettati da tutti i popoli. (Interruzioni Commenti). Senza dubbio sono militarmente un popolo estremamente rispettato. Fate che noi non ci comportiamo più da imbecilli in Europa coll'intervenire sempre in guerra — e io non mi sbaglio; conosco gli stranieri abbastanza per leggere i loro pensieri segreti, presuntuosi e ironici — restiamo in pace cinquant'anni, ed essi apprezzeranno la nostra fierezza, guarderanno alle nostre glorie militari, ricorderanno le virtù militari del soldato italiano, che, in condizioni di parità, si è sempre misurato in una maniera straordinaria e — come diceva Guicciardini — «nei congressi dei pochi ha sempre vinto».

Facciamo questo e avremo, in fondo, in Europa un primato; saremo guida in qualche cosa. È impossibile che l'Italia, che ha avuto tre civiltà, possa rinunciare ad essere guida in qualche cosa. L'Italia, in fondo, è sempre guida, nel bene e nel male: guardate lo stesso fascismo che ha iniziato — le cose si iniziano in Italia di solito — questo nuovo ciclo che pareva lieto; tutti ridevano, dicevano: «non è nulla»; si portò in Germania, diventò un fatto internazionale; nacque il disastro. Noi oggi che raccogliamo questa eredità fallimentare, dovremmo proporci — come suggeriva Mazzini — un primato italiano. Quale? Il primato pacifista. Se legassimo questo nostro popolo alla bandiera del pacifismo assoluto, della neutralità perpetua e ancorassimo il bilancio militare alle spese scolastiche, senza dubbio saremmo una guida in Europa; e io confido che nello spazio di una generazione l'Italia potrebbe veramente diventare il giardino d'Europa. (Applausi).

[...]

Giolitti. [...] Dobbiamo poi esprimere il nostro pensiero sull'articolo 49, il quale ha dato luogo alle discussioni più approfondite che si siano fatte a proposito di questo Titolo. Il nostro pensiero è che il servizio militare obbligatorio rappresenti indubbiamente una conquista democratica. Non è a caso che vediamo formulato questo principio già nella Dichiarazione dei diritti del 1789. L'affermazione di questo principio va intesa in tutto il suo significato e va collegata con l'articolo 6 già approvato, che stabilisce che l'Italia ripudia la guerra come mezzo d'offesa; e va considerato questo obbligo del servizio militare anche in relazione con la seconda parte, con lo stesso secondo comma, come pure con l'ultimo, dell'articolo 49, allorché si dice che il militare non viene pregiudicato nel suo lavoro e nell'esercizio dei diritti politici, ecc. Se noi teniamo presenti tutti i riferimenti che si ricollegano alla affermazione del servizio militare obbligatorio, possiamo dire che nella Repubblica democratica italiana il servizio militare obbligatorio rappresenta anche un mezzo di educazione civile e politica del cittadino. Ma è necessario per questo che sia mantenuto l'ultimo comma. Dico questo per controbattere l'osservazione fatta da alcuni colleghi dell'altra parte; quando si è detto che questo riferimento, questo avvicinare l'aggettivo «democratico» alla parola «esercito» significherebbe, in certo senso, sottomettere l'esercito ad una ideologia politica, significherebbe mescolare l'esercito alla politica, portare la politica nell'esercito. Qui si adopera l'espressione «spirito democratico»; mi pare che sotto questa espressione non si possa vedere adombrata nessuna particolare ideologia politica. Mi pare che proprio un'affermazione di questo genere, proprio l'adozione di questo termine «spirito democratico» dimostra che qui si vuole semplicemente avere questa garanzia: la garanzia di quello che è il denominatore comune di tutti i partiti che hanno diritto di parlare e di far sentire la loro voce in una libera Assemblea, in una Assemblea democratica come questa.

Io ho sentito poco fa le suggestive proposte che ha fatto l'onorevole Calosso a proposito della posizione di neutralità che dovrebbe assumere l'Italia. L'onorevole Calosso ha usato questi due termini: pacifismo assoluto e neutralità perpetua. Ora, se sul primo termine mi pare che dovremmo fare le più ampie riserve, perché è collegato con un atteggiamento politico pienamente condannato dalla storia passata e recente, il termine «neutralità perpetua» può essere anche attraente, può anche indicare una direttiva di politica estera, se vogliamo. Non è questa, comunque, la sede né il momento per discutere di ciò. Però mi pare che questo non escluda affatto, non sia in contraddizione con l'affermazione dell'obbligatorietà del servizio militare, giacché — è la storia che lo dimostra — proprio una certa potenza militare, una discreta potenza militare, una organizzazione militare efficiente è quella che garantisce la neutralità. La neutralità della Svizzera in questa guerra è stata garantita appunto dall'efficienza militare del suo esercito. Ciò non significa che sia stato quell'esercito a costituire un baluardo insuperabile, ma è stato certamente un fatto che ha garantito in qualche modo la possibilità di questa neutralità. D'altra parte, proprio per l'osservazione che faceva Calosso, che la guerra è oggi una guerra totale, proprio questo ci dimostra che in una guerra di questo tipo, che travolge tutto e tutti, anche il piccolo non può rimanere assente, anche il piccolo deve avere una certa possibilità di manovra, e quindi entra nel gioco dei grossi. D'altronde, se dovessimo accettare una volta per sempre questa considerazione, che in un conflitto di colossi bisogna rimanere assenti, allora dovremmo addirittura dire che la nostra guerra di liberazione, la nostra guerra partigiana è stata perfettamente inutile, è stata un inutile massacro che non ha portato nessun frutto. Io credo che, invece, appunto un'organizzazione democratica, una forma democratica di organizzazione militare possa essere la migliore garanzia, anche se si vuole una efficace ed utile neutralità.

[...]

Caporali. [...] Io ho poi presentato, a mio nome personale, come vecchio pacifista integrale e intransigente — ed avrei avuto piacere che fosse stato presentato dalla parte democristiana dell'Assemblea — un emendamento sugli obiettori di coscienza.

È un problema che non deve essere preso alla leggera.

Obiettare vuol dire compiere un atto meritorio, condannando quello che la guerra ha di più crudele e di più orribile e vuol dire soprattutto negare la guerra.

E siccome il problema merita profonda considerazione, io avrei voluto trattarlo dinanzi ad una Assemblea numerosa.

Tuttavia, mi limiterò a dirvi che gli obiettori di coscienza non sono degli irregolari, essi non devono confondersi con i disertori; essi chiedono di servire la Patria in umiltà, rivendicando il diritto di non tradire i principî spirituali, ai quali sono legati dalle loro convinzioni umane.

«Tu non ucciderai»: questo meraviglioso imperativo del Vangelo cristiano è stato troppo dimenticato dagli uomini, perché non debba essere ripreso oggi da tutti coloro i quali, al di sopra e al di là d'ogni credenza, ne facciano un simbolo di pace e di solidarietà umana.

Coscrizione obbligatoria od esercito mercenario? Ma i termini si equivalgono. Quando la Patria lo esigesse, tutti i suoi figli dovranno compiere il loro dovere.

Sia accordato almeno agli obiettori di coscienza, agli avversari tenaci e irriducibili di sempre della violenza che è arida ed infeconda, bestiale e selvaggia, sia essa individuale o collettiva, la possibilità di cooperare nella difesa del suolo della Patria nei settori dell'assistenza e della solidarietà che hanno comuni i rischi e i dolori, ma senza il triste onere di portare le armi fratricide.

La guerra si combatte negandola e disonorandola.

Gli obiettori di coscienza costituiscono la pattuglia avanzata della nuova umanità che si ostina a credere nella maestà della vita contro tutte le forze che tendono a degradarla. (Applausi).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti