[Il 24 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo primo della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Il Parlamento».

È in discussione l'articolo 55 del progetto di Costituzione.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici del Titolo primo della Parte seconda per il testo completo della discussione.]

Presidente Terracini. A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti. Il primo è quello dell'onorevole Nitti.

«Sostituire gli articoli 55 e 56 col seguente:

«Il Senato è eletto sulla base di un senatore per 200 mila abitanti.

«Il territorio della Repubblica è diviso in circoscrizioni elettorali, che eleggono un solo senatore ciascuna.

«A ogni Regione è inoltre attribuito un numero fisso di tre senatori.

«Sono elettori i cittadini che hanno compiuto 25 anni e sono eleggibili quelli che hanno compiuto 40 anni.

«Del Senato fan parte, salvo la loro rinunzia, gli ex Presidenti della Repubblica e gli ex Presidenti del Consiglio dei Ministri.

«Alla costituzione del Senato entrano a farne parte gli ex deputati che hanno appartenuto alla Camera dei deputati per cinque legislature, senza che però questo fatto costituisca alcun precedente per l'avvenire.

«Fanno parte del Senato il Presidente della Corte di cassazione di Roma, il Presidente del Consiglio di Stato, il Presidente della Corte dei conti e 6 professori di Università designati per elezione dal Consiglio superiore della pubblica istruzione.

«I senatori di nomina elettiva durano in carica sei anni e sono rinnovabili per un terzo ogni due anni».

[...]

Nitti. [...] Vi sono poi alcune obiezioni. Non vi saranno, dunque, si dice, manifestazioni del pensiero, dell'arte, non vi saranno senatori i quali sfuggano inevitabilmente alla pressione di una selezione attraverso il partito o attraverso l'organizzazione?

Io mi sono permesso di proporre che del Senato debbano e possano far parte coloro i quali hanno di fronte al pubblico il privilegio di rappresentare la cultura, mediante l'elezione — fatta dal Consiglio Superiore della pubblica istruzione — di sei senatori, che vengano dagli studi e dalle ricerche. Ed ho parlato di sei senatori, nel pensiero che le facoltà universitarie essenziali possano ognuna avere (se ne hanno) le attitudini, e siano in condizioni di averne la fiducia, affinché vi possano essere sei senatori che vengano dagli studi.

[...]

Laconi. [...] Ci è stata presentata tutta una serie di proposte. Si è presentata la proposta della scelta dall'alto; si è presentata la proposta dei membri di diritto. Si sono presentate proposte di elezioni indirette e proposte di elezioni a suffragio universale. Quale scegliere tra queste?

La corrente che io rappresento ed il mio Gruppo parlamentare sono nettamente contrari alla prima di queste soluzioni, e cioè ad una qualsiasi investitura dei senatori dall'alto. Mi sembra che non sia necessario soffermarci su questo punto: contrasta con qualsiasi esigenza della democrazia qualsiasi forma di designazione che affidi la scelta dei senatori a persone o organi, che possono essere i più qualificati del mondo, ma che non rappresentano in questa funzione, in alcun modo, la totalità del Paese.

Per quanto riguarda i membri di diritto, la questione si pone altrimenti. È evidente che vi sono uomini che per il fatto di essersi trovati a capo dello Stato o di una formazione governativa vengono a rappresentare direi, quasi un periodo della storia. Le proposte che si muovono in questo senso possono dar luogo ad una discussione e possono esser prese in considerazione.

[...]

Presidente Terracini. L'onorevole Rubilli ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«I senatori sono eletti per un quarto con nomina del Presidente della Repubblica e per tre quarti con elezioni a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età, col sistema del collegio uninominale».

Ha facoltà di svolgerlo.

Rubilli. Il mio emendamento consta di due parti.

Per la prima parte insisto nel ritenere che per lo meno una esigua frazione dei membri del Senato sia da nominare dal Presidente della Repubblica; non sto a ripetere le ragioni già esposte in sede di discussione generale, esigenze di giustizia, da una parte, e di utilità, dall'altra, per potere usufruire anche del contributo che uomini preclari, ma estranei ai partiti ed alla competizione elettorale, possono dare alla formazione delle leggi. Tengo a chiarire, però, che io non intendo che questa nomina debba essere a vita, ma che vada limitata alla legislatura del Senato, salvo riconferma. Aggiungo che questo criterio non inficia in alcun modo il concetto fondamentale che le Assemblee legislative debbano essere espressione della volontà popolare: sia perché sarebbe molto limitato il numero dei senatori a nomina presidenziale, sia perché non si tratta più di nomina regia, ma di nomina da parte del Presidente della Repubblica, che di per se stesso e per le sue origini rappresenta la più alta espressione del popolo intero; si avrebbe così quasi una forma di suffragio indiretto.

Altri due emendamenti, a questo riguardo, collimano col mio: quello dell'onorevole Russo Perez e quello dell'onorevole Nitti.

Ora io mantengo l'emendamento nei limiti nei quali l'ho segnato. Non credo che si possa eccedere nella frazione che dovrebbe entrare per nomina presidenziale, come vorrebbe il collega Russo Perez con il suo emendamento, portandola ad un terzo. Sarebbe troppo. Io mi accontenterei di un quarto e sarei disposto a ridurre ancora, purché non si precluda a persone, che per i loro meriti e la loro utilità possono contribuire alla tutela degli interessi nazionali, un ingresso per via di nomina da parte del Presidente della Repubblica; mi accontenterei persino di un quinto, purché vi sia comunque questa frazione riserbata a coloro che non vogliono o non possono correre l'alea elettorale, pur meritando di far parte dell'Assemblea legislativa. Insomma sui limiti potrà meglio deliberarsi con criteri di maggiore o minore opportunità, ma un'affermazione del concetto espresso nel mio emendamento mi pare assolutamente indispensabile.

Tanto meno posso condividere l'idea dell'onorevole Nitti, il quale giunge a riduzioni eccessive ed inaccettabili, perché secondo lui dovrebbero entrare nel Senato, e di diritto, soltanto 9 persone: 9 persone disperse nel Senato. Tre giureconsulti (i capi delle grandi Magistrature) e sei professori (letterati o scienziati) nominati dal Consiglio superiore della pubblica istruzione. Ora, una simile proposta eliminerebbe ogni collaborazione utile ed efficace. Nove persone, di diversa origine, di diversa mentalità ed attitudine politica non potrebbero nemmeno formare un piccolo gruppo. Quest'idea servirebbe solo a portare scompiglio nella classe dei professori. (Commenti). Già sono in perenne lotta tra loro: sono tali e tante le reciproche gelosie che non ce n'è uno che parli bene dell'altro. (Rumori). Immaginate cosa avverrà, se noi stabiliremo questa gara tra i professori universitari, ed in quale imbarazzo metteremmo il Consiglio dell'istruzione. Mi pare che non si dovrebbe tener conto né degli eccessi in più — che vengono da una parte — né di quelli in meno, che vengono dall'altra parte. Tra un quarto ed un quinto dei componenti si potrebbe decidere meglio ed utilmente sulla opportunità di immettere nel Senato persone che meritano e la cui opera può essere veramente efficace.

Nel caso in cui il mio emendamento non passasse così come è redatto, cioè sotto forma di norma permanente, io sarei disposto a ridurlo ancora e verrei — come si dice nel gergo giudiziario — ad una subordinata: per lo meno, direi, ammettiamolo per la prima costituzione del Senato. Veniamo da un ventennio in cui ogni libertà, ogni senso di democrazia ed ogni attività politica sono stati completamente soffocati. Almeno per questa prima formazione di una nuova Assembla politica e legislativa facciamo in modo che possano entrare, come guide, delle forze pratiche ed esperte che valgano a dare veramente un indirizzo serio ed utile al funzionamento del Senato.

Si può dire del resto che il mio concetto venga anche avvalorato da parecchie parti. Non soltanto gli emendamenti da me presentati sono in discussione, ma anche altri emendamenti (sui quali l'Assemblea deciderà come crede, e sui quali mi astengo, per delicatezza, di dire anche una parola soltanto) si occupano di questo argomento, e vorrebbero almeno mandare al Senato dei vecchi parlamentari coi quali si potrebbe raggiungere lo stesso scopo. Insomma, c'è una corrente che sotto una forma o sotto l'altra, per lo meno per la prima costituzione del Senato, vuole immettere nell'Assemblea forze vive ed efficaci, che possono veramente essere utilizzate in una compagine nuova che non si sa come possa essere configurata. Perciò anche se non volete accettare la mia proposta come norma permanente per la costituzione del Senato, vi prego di accettarla per lo meno in linea transitoria per la prima volta in cui si costituisce la seconda Camera, salvo a vedere meglio se debba essere mantenuta in seguito.

[...]

Presidente Terracini. Segue l'emendamento proposto dall'onorevole Russo Perez, del seguente tenore:

«Al terzo comma, alle parole: I senatori sono eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi a suffragio universale e diretto, sostituire le parole: I senatori sono per un terzo nominati a vita per libera scelta del Capo dello Stato e per due terzi eletti col sistema del collegio uninominale».

Condorelli. In assenza dell'onorevole Russo Perez faccio mio l'emendamento e rinuncio a svolgerlo.

[...]

Presidente Terracini. Segue l'emendamento proposto dall'onorevole Alberti, del seguente tenore:

«Aggiungere il seguente comma:

«Cinque senatori sono nominati a vita dal Capo dello Stato fra coloro che, con meriti insigni, nel campo sociale, scientifico, artistico, letterario, hanno illustrata la Patria».

Ha facoltà di svolgerlo.

Alberti. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione generale sui temi che ora stiamo trattando, insigne per valenti oratori di ogni parte dell'Assemblea, ha avuto però — soprattutto a causa dell'ecatombe degli iscritti — una andatura piuttosto spedita che, su qualche punto, è stata persino un po' troppo succinta.

Ora qui, in sede di emendamenti, non è certo il caso di interrompere questo ritmo, che è opportunamente veloce. Soltanto, vorrei dire al Signor Presidente che io, avendo presentato — e la Commissione me lo perdoni! — quattro emendamenti, vorrei, col consenso del Signor Presidente, rubare qualche minuto sul tempo regolamentare per i primi, promettendo di restituire questi minuti, e con larghi interessi, nel trattamento degli altri due.

Il concetto che ispira l'emendamento che io vado trattando è un concetto che non ha trovato né favore né aperta ostilità fra la maggior parte degli oratori, sia in sede di Commissione che di Assemblea; soltanto da parte dei colleghi della sinistra estrema è venuta qualche critica vivace. Oggi stesso l'onorevole Laconi ha avuto accenti quasi sdegnosi contro questa investitura dall'alto, che offenderebbe gravemente la sovranità popolare, che farebbe parte anch'essa dell'armamentario di equilibri, di contrappesi, di freni, che sono ritenuti ormai muffe e rottami del passato.

A proposito di sovranità popolare, viene in mente la frase celebre: «la sovranità popolare non ammette confine che l'arresti, ragione che la costringa, forza che le si sovrapponga». Chi, onorevoli colleghi, non si inchina alla sovranità popolare? Chi non la saluta come una grande conquista umana? Si può polemizzare fra sacerdoti, ma tutti venerano la dea. Dea veramente; poiché il popolo, il popolo in tutti i suoi ordini che ascende nel lavoro, armato di diritti, di esperienze e, via via, sempre più anche di sapere, non è solo il protagonista ma è la realtà viva della storia.

Però, onorevoli colleghi, neanche la sovranità popolare è un assoluto: l'assoluto non esiste in natura; non esiste — vi direbbe il mio amico Clerici che è uno squisito cultore d'arte, oltre ad essere, come ne avete avuto conferma pochi giorni fa, un politico ed un giurista di alto valore — non esiste, dicevo, neanche in arte, l'assoluto: il senso del limite è anzi uno dei suoi attributi essenziali.

Non esiste in politica; non è esistito nemmeno nelle monarchie assolute, perché è stato giustamente osservato che anche le monarchie assolute trovavano la loro limitazione nella nobiltà feudale di provincia o di corte, nel papato e nelle chiese nazionali, o nelle città libere, o nei corpi autonomi: limitazioni di carattere ora feudale, giurisdizionale, ora popolare, secondo i tempi.

Ma, onorevoli colleghi, qui non si tratta di limitazione bensì di integrazione. La parola integrazione è affiorata in questi ultimi giorni sulle labbra di molti colleghi che hanno parlato su questi temi. L'onorevole Clerici, parlando della rappresentanza degli interessi che egli, con molti altri, ed io fra essi, avrebbe auspicato, ha avuto una frase felice; ha detto: si tratta di fotografare la nazione sotto un altro profilo.

Io avrei aggiunto una parola sola; avrei detto: come si fa con le persone a cui si vuol bene. E noi tutti vogliamo bene al Paese. Anche qui, onorevoli colleghi, si tratta di fotografare — di scorcio — il Paese nelle più alte manifestazioni della cultura e dell'arte. Si è detto, a proposito di questo emendamento, nello stesso modo come ci si era opposti a Clerici e agli altri che patrocinavano la rappresentanza degli interessi, si è detto: sono nascoste manovre di carattere conservatore. A me anzi si è detto in anticipo: si vuole spingere anche così il Senato a destra. È una vera profanazione: lo ha detto, se non con queste precise parole, con questo concetto, l'onorevole Laconi. Ma perché siano manovre conservatrici non si è detto. Si è però insistito su questo concetto, che il criterio unico, il metodo unico, l'unico strumento della vita politica debba essere la volontà della maggioranza espressa dal popolo indiscriminatamente nel suffragio universale.

Ora, da quando i greci hanno fornito, perfezionandolo, allo svolgimento della vita politica, questo strumento della volontà della maggioranza, il mondo non ne ha trovato — e probabilmente non ne troverà mai più — uno migliore. Ma, badate bene, onorevoli colleghi; si tratta di un concetto empirico. Prima di essere vero in politica, questo concetto era vero nello scontro delle forze fisiche: nella legge della foresta, come ora si dice. Ora, la democrazia (ossia la civiltà) deve tendere a conquistare, attraverso il trionfo del numero, il trionfo della razionalità.

La maggioranza e la razionalità molte volte concordano e si identificano. E guai se non fosse così. Ma sarebbe un po' temerario ritenere che si identifichino sempre. Se questo fosse vero, onorevoli colleghi, non sarebbe vera la sentenza che voi, onorevoli colleghi dell'estrema, certamente non ripudiate: sono le minoranze quelle che anticipano i tempi e fanno la storia.

Nella Commissione, quando si è trattato — sempre fugacemente tutte le volte che è venuto in discussione questo tema — della possibilità dell'investitura dall'alto, ossia della nomina da parte del Capo dello Stato, è risuonata una parola energica, intensiva, quasi spietata: «mostruosità».

Perdonatemi, illustre e amato Presidente, la breve battuta polemica. Honor et onus, direbbe anche in questo caso — e giustamente — il mio amico Cappi. Ma si tratta anche qui di una specie di deificazione, come è stato detto. Una volta si deificava la ragion di Stato, che poi, nella maggior parte dei casi, era soltanto l'interesse delle case regnanti; più tardi — in tempi, purtroppo, a noi vicini — si è deificato lo Stato, considerato ed elevato non solo a «primo» politico, ma a «primo» etico insieme. Ed ora... Ma badate bene, onorevoli colleghi, con questa proposta noi riteniamo, però, di muoverci nell'ambito della più ortodossa democrazia.

In Commissione si è detto: «L'opinione di quanti pensano che, in sostanza, la stessa designazione dall'alto potrebbe in certa guisa considerarsi come un'elezione di forma indiretta, non è accettabile, perché la designazione del Capo dello Stato sorge da un'elezione di secondo grado, e coloro che da lui fossero designati come membri della seconda Camera, trarrebbero la propria investitura da una elezione di terzo grado. E a questo punto, parlare ancora di volontà e di scelta popolare sarebbe puro artifizio, perché il tramite tra gli pseudo-eletti e la volontà degli elettori di primo grado sarebbe del tutto evanescente».

Perfettamente accettabile questa osservazione, se noi considerassimo il mandato che il Presidente riceve dal popolo attraverso l'Assemblea (Assemblea Nazionale, il cui parto si preannunzia piuttosto difficile, ma che almeno in questo, penso, avrà vita: nella designazione e la nomina del Capo dello Stato) soltanto come un mandato di rappresentanza, nel senso che ogni gesto del Capo dello Stato non debba compiersi se non in relazione esatta, e vorrei dire matematica, con un impulso elettorale. Invece esso è anche un mandato di fiducia.

L'onorevole Tosato, in sede di Commissione, aveva osservato che, con l'elezione, il popolo compie un atto di fiducia verso la Camera. Questo stesso atto di fiducia, attraverso l'Assemblea, compie il popolo anche nei riguardi del Presidente.

Pochi giorni or sono l'onorevole Nitti ha parlato (su un'interruzione, se non sbaglio, dell'onorevole Lussu) con commossa riverenza del ricordo di Roma. Ebbene, lasciate, amici, ch'io ricordi a me stesso che la grandezza di Roma è consistita soprattutto in questo: nel pieno e perfetto congiungimento del principio democratico, onde aveva libera espansione la volontà della massa, e la fiducia — d'onde il prestigio di autorità — delle magistrature elette.

A proposito dei poteri che il progetto di Costituzione vorrebbe conferire al Presidente, alcuni dicono che sono eccessivi, altri che sono scarsi; il mio caro amico La Rocca ne è addirittura sgomento; e quando parla del potere che il progetto vorrebbe affidare al Presidente, di sciogliere le Assemblee, adopera una parola veemente, dice che è un potere «tremendo»!

Ebbene, onorevoli colleghi, se a questo modestissimo gregario è consentito esprimere il suo parere, io vorrei che la funzione del Presidente fosse quanto più è possibile spoliticizzata (scusate la barbara parola); vorrei che il Presidente della Repubblica fosse soprattutto una grande forza morale. Si dice una grande forza morale: ed ecco che subito si aderge davanti ai nostri occhi l'alta figura di Enrico De Nicola! — grande forza morale che non contraddice alla sua funzione politica, se è vero — come indubbiamente è vero — che la politica è (o dovrebbe essere) la morale nella vita pubblica.

Questa grande forza morale dovrebbe essere quella che non soltanto fa da moderatrice, ma quella che impersona e simboleggia la nazione in tutte le sue manifestazioni più alte. Ecco perciò che a questa grande forza morale dovrebbe essere commessa la scelta dei cinque rappresentanti della Nazione nel campo della cultura, dell'arte e della scienza. La scelta sarebbe fatta con criteri morali, nel senso più alto della parola; l'altezza del costume nell'intelletto e nel sentimento.

Ma — incalzano — nell'Assemblea questi sommi, non servono a niente. C'è stato Manzoni, c'è stato Verdi, c'è stato Marconi. Raramente hanno varcato la soglia dell'Assemblea.

Ebbene, quando parliamo di Manzoni — questa sovrana grandezza morale e intellettuale che non si finirebbe mai di ammirare — bisogna tener conto, nei riguardi della sua partecipazione ai lavori dell'Assemblea legislativa, che notoriamente egli era affetto da una non grave balbuzie, che certamente non è qualità che sospinga a prendere parte alle discussioni di un'Assemblea.

Comunque, per essere completamente sinceri, occorre anche dire che questa sovrana grandezza ha avuto, come tutte le cose umane — anche le migliori — qualche sua menda. Il dire che Manzoni abbia partecipato nella misura in cui avrebbe potuto alle vicende della resurrezione nazionale sarebbe irriverente verso questo grande morto. Qualcuno di voi tra i meno giovani ricorderà l'invettiva di Cavallotti: «Ma quando i fati italici — penso ed i giorni bui — e le inutili folgori — che stetter chiuse in lui — penso che a tal silenzio — Dio non l'avea sortito!», con quel che segue.

Verdi: qui abbiamo sentito da qualcuno che Verdi non aveva mai varcato le soglie del Senato se non per prestare giuramento. L'onorevole Rubilli ha evocato invece giorni fa non so se la storia o la leggenda di un Verdi che si dilettava di costellare di note musicali sui resoconti parlamentari le polemiche fra i senatori.

Micheli. Nella Camera dei deputati.

Alberti. La ringrazio della correzione. Ad ogni modo, nella vecchiezza Verdi era più che mai rapito nelle sue melodie e soprattutto turbato dai suoi dolori.

Ma di Marconi, per esempio, i suoi colleghi di Assemblea mi hanno detto che la sua frequenza alle sedute del Senato era piuttosto notevole.

Comunque sia, onorevoli colleghi, queste sono contingenze. La ragione pratica — perché c'è la ragione pratica — che mi ha spinto o che mi ha suggerito la proposta di questo emendamento è un'altra: assicurare ai sommi, ai geni tutelari della Patria (consentitemi la fugacissima scorribanda nel linguaggio retorico) una tribuna che essi non hanno, che non hanno più. Occorre un angolo luminoso in cui si possa collocarli e dove le moltitudini possano sempre vederli...

Una voce a destra. Ci sono le accademie...

Alberti. Quali accademie? Quella dei Lincei? È certamente un'accolta di illustri personaggi, ma non è una tribuna dalla quale si possa parlare al Paese nelle ore solenni della Patria. Questa ragione pratica non mi pare vada ad urtare con i principî. Il principio, si dice, non deve essere mai infirmato. Siamo d'accordo. Ma quando la pratica può contemperarsi con il principio, ossia quando effettivamente non lo compromette, mi pare che anche la pratica possa essere accettata. Si è fatto altrove? Non so e non voglio sapere. So che un giorno l'onorevole Porzio, in seduta di Commissione, con bella fierezza, ha detto: abbiamo titoli storici sufficienti per fare una Costituzione italiana senza modellarci su Costituzioni straniere.

Vi dicevo che il contemperare la pratica con il principio effettivamente non compromette niente. Perché? perché sarebbero non più di cinque i personaggi illustri che il Presidente dovrebbe nominare. Cinque, perché? Cinque, perché l'esperienza, mi dicono, dimostra che in media una generazione non dà più di cinque geni. Non facciamo commenti sfavorevoli a questa che stiamo attraversando... (Si ride). Speriamo nella prossima.

La seconda ragione è questa: cinque, perché nessuno possa sospettare che qui vogliamo foggiare uno strumento per dare dei passaporti falsi a geni e a fame di princisbecco. Ad ogni modo, questi cinque non potranno mai in nessun modo spostare il centro di gravità di una situazione politica al Senato. Capisco che è stato detto che anche lo spostamento di un atomo ha la sua influenza sul corso degli astri; ma qui vaghiamo nell'inafferrabile, mentre noi dobbiamo invece trattare cose concrete.

Anche a questo punto si dice che l'alta cultura ha delle tendenze conservatrici.

Onorevoli colleghi; non è vero — e basta a dimostrarlo questa Assemblea, nella quale le celebrità scientifiche, letterarie ed artistiche sono distribuite equanimamente su tutti i banchi — non è vero... ma se fosse vero, onorevoli colleghi, se fosse vero che l'alta cultura ha delle tendenze conservatrici, quale tema di meditazione per tutti noi, e specialmente per voi, colleghi ed amici della estrema sinistra! (Applausi al centro).

Noi, dunque, vorremmo che nel Senato fosse costituito un piccolo limbo dei saggi e dei sapienti: un piccolo limbo (senza che con questo il mio pensiero corra al cono infernale, il che sarebbe gratuita irriverenza verso l'Assemblea nascitura).

Ma anche il Senato sarà un'Assemblea come tutte le Assemblee, e, se non vedrà scatenarsi fra i suoi banchi la «bufera infernale», qualche volta potrà accadere che si determini anche nel suo seno qualche ritmo incomposto.

Ad ogni modo, giova sempre a tutti gli istituti avere l'assistenza della sapienza e della saggezza. Certo, le parole del presidente del tribunale rivoluzionario che, al Lavoisier, il padre della chimica moderna condannato a morte nel 1794 e invocante una breve proroga all'esecuzione della sentenza per aver modo di portare a compimento certi suoi esperimenti, rispondeva: «la République n'a pas besoin de savants», non sono certo parole che possano trovare eco, non dico qua dentro, ma in tutta la vita moderna. Onorevole Presidente e onorevoli colleghi, un'ultima considerazione ed ho finito.

È stato detto che la democrazia non deve essere il raduno dei mediocri, ma l'aspirazione di ognuno di noi verso l'alto; deve essere il terreno adatto per il fiorire delle individualità. È certo però che nel corso della sua evoluzione non sempre la democrazia — e in tutti i luoghi — ha tenuto fede a questo superbo programma. Qualche critico arcigno ha potuto dire che la democrazia è sembrata qualche volta l'incoraggiamento alla mediocrità. Ebbene, noi domandiamo che anche da questi banchi e con questo modestissimo provvedimento, noi smentiamo questa che è una oltraggiosa leggenda. Noi chiediamo modestamente che da parte di questa Assemblea la votazione — siccome spero che essa sarà favorevole all'emendamento — significhi omaggio al genio dell'Italia. Scusate se insisto su questa nota che è stata toccata e modulata da tanti, e così bene, qua dentro. Vi insisto perché essa ci canta nel cuore, perché è il canto della nostra speranza. Il nostro genio, il genio italiano, è il solo patrimonio che nessun trattato iniquo può depredarci o comprimere. Veramente il suo primato invitto sovrasta e risplende sui lutti e sulle rovine. Per questo, onorevoli colleghi, noi domandiamo che voi dichiariate che l'alta cultura, i sommi geni della Patria, saranno ospiti del nostro Senato; perché anche di là essi ricorderanno al mondo immemore quello che siamo stati e faranno presente al mondo ingiusto quello che ancora, malgrado tutto, saremo. (Vivi applausi al centro Molte congratulazioni ).

Presidente Terracini. L'onorevole Alberti ha proposto anche il seguente articolo 55-bis, aggiuntivo:

«Sono senatori di diritto e a vita gli ex-Presidenti della Repubblica.

«Sono pure senatori di diritto e a vita gli ex Presidenti del Consiglio e gli ex Presidenti delle Assemblee legislative, i quali abbiano coperto la carica almeno per un anno anche se non continuativamente.

«A tale diritto si può rinunziare, purché la rinunzia sia fatta prima della firma del decreto di nomina da parte del Capo dello Stato».

Ha facoltà di svolgere la sua proposta.

Alberti. Con l'emendamento, che ho testé finito di illustrare, proponevo che si immettesse nel Senato un piccolo numero di personaggi insigni, i quali preferiscono gli ameni paesi della letteratura e dell'arte o gli austeri panorami della scienza agli scoscesi e tribolati sentieri della politica.

Con quest'altro emendamento, dovrei dire, all'opposto: vi propongo di includere i personaggi più cospicui della politica.

Intanto, per disarmare le diffidenze, devo farvi rifletterei che si tratta anche qui di un numero esiguo di persone, per legge di natura e per necessità di cose.

Devo anche fare una premessa. Io ho posto la firma ad un altro emendamento, che segue immediatamente questo, col quale si propone un provvedimento eccezionale, che sistemi la posizione di alcune persone insigni, facenti parte di questa Assemblea, in questo eccezionale momento. Tale emendamento ha avuto già sostanzialmente l'appoggio dell'onorevole Nitti e di altri.

Mi soffermo soltanto sul mio emendamento, che riguarda il tempo futuro.

Propongo che a fare parte del Senato siano chiamati, di diritto, gli ex Presidenti della Repubblica e gli ex Presidenti del Consiglio e delle Assemblee legislative, i quali abbiano tenuto l'ufficio almeno per un anno, anche se non continuativamente.

Per quel che riguarda il Presidente della Repubblica, mi pare che occorra breve discorso. Si tratta di collocare nel Senato personaggi, i quali non solo hanno simboleggiato, ma hanno sintetizzato dei periodi politici. Ora, il Presidente della Repubblica mi pare che sia veramente il tipico rappresentante riassuntivo di questa sintesi.

Sul Presidente della Repubblica, l'altro giorno l'onorevole Condorelli — in un discorso notevole, come sempre, e, come sempre, meritevole della maggiore meditazione — si esprimeva in termini che ci hanno un po' sconcertato. Egli negava al Presidente, al Presidente anonimo si capisce, non dirò il prestigio, ma il prestigio sufficiente a rappresentare una forza unificatrice nel paese. Voglio rispondergli con le bellissime parole contenute a questo proposito nella prima relazione dell'onorevole Ruini: «Egli (il Presidente) rappresenta ed impersona l'unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica». Quella forza morale a cui facevo riferimento poc'anzi.

Ma anche per i Presidenti del Consiglio ed i Presidenti dell'Assemblea, gli eletti degli eletti, questi ultimi, si può dire che sintetizzano periodi politici e che qualche volta sintetizzano un periodo storico. Viene alle labbra il nome di Giovanni Giolitti. Noi non possiamo dimenticare che i consoli a Roma davano il nome all'anno. Si dice: lasciamo stare la storia di Roma; non c'è nulla in comune tra l'antica storia romana e noi. Potrà essere vero; anzi... è vero soltanto in una qualche misura. Onorevoli colleghi, penso per esempio che la storia di Roma, dopo Canne, potrebbe essere utilmente riletta e rimeditata dagli italiani dopo la loro catastrofe. Ma — si obbietta dall'estrema sinistra e da qualche amico, in private conversazioni — volete ricominciare secondo la moda dello Statuto albertino a popolare anche il Senato di «ex»? Ebbene, giacché la parola mi ha portato a Roma antica, non posso non ricordare che il Senato di Roma — il più alto consesso politico che la storia abbia mai avuto, «il consesso dei re», come diceva il Ministro di Pirro — era un consesso di «ex:» ex consoli, che erano poi i ministri degli interni è degli esteri, ex questori, ecc.: era veramente una «élite». Parola questa un po' sospettata in questi tempi, eppure, attraverso l'esperienza dei secoli, una parola che ha ed avrà sempre una grande risonanza nella storia e nella scienza politica. Si tratta proprio di costituire anche nel Senato una piccola «élite» di uomini illustri per prestigio di autorità e per preziosa esperienza. Guardate che saranno uomini di ogni fede. Sono già uomini di molte fedi, se ci guardiamo intorno, quelli che potrebbero fruire di questa disposizione, attualmente. Potranno essere di tutte le fedi in avvenire. Accettate queste parole, amici dell'estrema sinistra, come una possibilità, come una previsione o come un augurio, come meglio vi piace.

Noi diciamo che non soltanto dovrebbe essere conferito questo seggio in Senato a questi personaggi, in omaggio alla loro autorità, che in fondo è un concetto tutt'altro che incompatibile con la democrazia, ma anche perché essi dovrebbero andare là dentro a rappresentare la continuità della vita nazionale, quella continuità della vita nazionale, che nei decenni si chiama continuità, e che nei secoli diventa la tradizione.

Un grande rappresentante della idea democratica ha scritto: «La sovranità popolare si estrinseca attraverso una serie di singoli atti che riguardano il momento attuale, mentre la vita della Nazione e dello Stato si svolge indefinitivamente nel tempo. Un grande albero, si è detto, che profonda le sue radici nel passato e protende i rami nell'avvenire. Al di sopra del principio della sovranità popolare sta quello ancora più vasto e più armonico della solidarietà, il quale stringe insieme le generazioni che furono a quelle che sono ed a quelle che saranno».

Si tratta, vi dicevo, di uomini di ogni fede, e la loro assunzione a quel seggio non può certo rappresentare offesa alla democrazia, in quanto che proprio nella pratica della democrazia hanno operato e nella pratica della democrazia sono diventati eminenti. Dunque, la sovranità popolare non contrasta con questo senso della solidarietà fra generazioni ma soltanto si assomma. È qualcosa che non si aggiunge alla sovranità popolare, e qualcosa di cui bisogna tener conto perché è un «dato» della vita, e della storia da cui non si può prescindere. Onorevoli colleghi, quando la storia deve subire, contro la sua legge, delle fratture troppo violente, se ne vendica.

Voi certo condividete con me il pensiero che Robespierre non prevedeva certamente Napoleone, e molto meno Luigi XVIII e Carlo X. Ecco la ragione per la quale noi siamo per l'evoluzione.

«La vita incomincia domani» è il titolo di un romanzo che ha avuto una qualche fortuna, ma non è la legge della storia. Se voi guardate gli avvenimenti storici per trasparenza, avrete delle impressioni curiose. Ricordo di aver letto un giorno, proprio in Salvemini, che è un uomo non certo sospetto, che Diderot e Voltaire erano dei conservatori in tutto, tranne che in religione. E questo passo mi ritornava alla mente un giorno in cui Nenni, con molta franchezza e da par suo, rivendicava l'origine illuminista della dottrina socialista.

Con questo, onorevoli colleghi, io non voglio certo negare la legge della storia, la quale procede in una sola direzione (è un articolo di fede, e guai se non fosse così), in quella direzione che è sintetizzata nella formula mirabile: «Diffondere sempre più il benessere sul maggior numero dei consociati». Ciò vuol dire che qualche volta, quando la storia vede violata troppo bruscamente la sua legge, il suo pendolo incomincia a fare dei sobbalzi che sono veramente strani. Ecco, vi dicevo, la ragione per la quale siamo per l'evoluzione.

Presidente Terracini. Onorevole Alberti, forse è giunto il momento di fare il calcolo del tempo dal quale ha preso la parola.

Alberti. Ho svolto due emendamenti. Avrei quaranta minuti a disposizione.

Presidente Terracini. Lei moltiplica per due i suoi diritti. Due emendamenti significano venti minuti e lei ha parlato più di quaranta minuti.

Alberti. Ho finito, onorevole Presidente, e mi scusi.

Noi vorremmo che questi personaggi illustri entrassero nel Senato anche per rappresentarvi il passato prossimo, il passato prossimo di questi tempi vertiginosi e di tempi a venire, che spero siano meno burrascosi di questi. Gli illustri colleghi che sono in quest'Assemblea, e che fruirebbero di questa disposizione, ci mostrano che con la rettitudine, con il sapere e con l'ingegno sanno anche abbracciare il presente e presentire l'avvenire.

Ho finito, onorevole signori. Soltanto vi facevo osservare che la limitazione di un anno almeno all'esercizio della potestà è una necessità a cui non si può venir meno.

Certo, se un Presidente dell'Assemblea legislativa appena eletto se ne va o lo mandano via, se un Presidente del Consiglio è nominato dal Presidente della Repubblica e si presenta all'Assemblea e non riesce ad avere la fiducia, vengono a mancare e agli uni e agli altri tutti gli attribuiti che sono venuto elencando.

Per questa ragione è bene che si dica: è necessario che abbiano coperto la carica almeno per un anno.

Ed ho finito davvero e domando scusa. Nelle mie previsioni sono stato un cattivo calcolatore. Lo sono stato anche in tante cose della mia vita. Soltanto vorrei che l'Assemblea mi desse almeno atto di questo: che non sono venuto meno ai canoni della democrazia, di quella democrazia che secondo uno dei suoi più illustri commentatori, che del resto ha rubato la frase all'Apostolo, è «l'atmosfera» nella quale ormai noi viviamo e ci moviamo, quella democrazia che anche per questo modesto gregario è e resterà il credo fondamentale ed insostituibile della sua fede politica.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti