[Il 7 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Dominedò. [...] Ora a me pare, cercando di seguire la trafila dei lavori preparatori e la gestazione spesso faticosa delle Commissioni, ma sopratutto sforzandomi di sentire quella che è l'aspirazione della nostra coscienza, nella veste di rappresentanti del popolo italiano in sede costituente, a me pare che la finalità centrale — e perciò lo spirito informatore del Titolo — sia esattamente quella di assicurare l'indipendenza della funzione giurisdizionale e quindi la figura del giudice libero.

Mi guardo a questo proposito da reminiscenze storiche che mi potrebbero condurre troppo oltre, sino alla scuola del diritto libero. Lascio Kantorowitc ed i suoi continuatori, perché, quando parlo di giudice libero, intendo evidentemente dire giudice libero nell'alveo della legge.

La scuola del diritto libero fa del giudice qualche cosa che si allontana dalla nostra concezione fondamentale, poiché, attraverso il così detto potere creativo del diritto nel caso concreto, il giudice finisce per sovrapporsi alla legge. Non è questa presunta libertà che noi vogliamo in un ordinamento italico e latino, il quale si ricollega necessariamente alla tradizione romanista, la più pura della nostra civiltà giuridica. Noi vogliamo un giudice libero, il quale sia ad un tempo ancorato al diritto positivo, un giudice libero che operi nell'orbita della legge, un giudice libero che dica il diritto nel caso singolo, ma insieme si inchini alla creazione generale ed astratta del diritto, la quale è opera di altri poteri dello Stato e, per il nostro ordinamento, rappresenta garanzia di giustizia, di libertà, di democrazia.

Sul piano del così detto giudice libero, il quale operi con una propria volontà creatrice nel caso singolo, noi ricordiamo quali abusi e degenerazioni siano possibili. Là dove la certezza del diritto venga meno, noi sentiamo che la funzione giurisdizionale non è più garanzia di libertà, ma strumento di oppressione della libertà. Noi sappiamo che il giudice, il quale sia libero, nel senso di poter incondizionatamente interpretare la cosiddetta coscienza popolare, e cioè una asserita coscienza collettiva, non consacrata né in diritto scritto né consuetudinario, si trasforma in un giudice che potrà seguire sino all'estrema degenerazione il concetto della Führung, presunta interprete della volontà collettiva. Signori, quel giudice tradirà il diritto: egli non sarà segnacolo di libertà, bensì veicolo di servitù. E la storia troppo recente dei nostri tempi parla duramente in questo senso.

Vogliamo invece un giudice duttile, libero, nella legge, il quale abbia il senso sociale del diritto, il senso dell'avvicinamento del diritto alla vita; questo, sì, noi intendiamo.

Riprendendo una espressione nota nel campo del diritto, miriamo ad un giudice che sia sensibile non alla sola giurisprudenza dei concetti, alla giurisprudenza teoretica, schematica o dottrinale, ma che faccia penetrare la vita nelle pieghe del diritto, che sia sensibile alla giurisprudenza degli interessi, se si vorrà ricordare la formula della Interessenjurisprudenz in antitesi alla Begriffjurisprudenz. Noi a questo tendiamo, poiché è questo che fa parte del nostro senso sociale del diritto, aderente alla viva realtà delle cose. Noi non concepiamo un diritto che sia avulso dalla coscienza sociale del popolo e che per ciò stesso non risponda alle esigenze della storia.

Ecco, precisamente: vogliamo che il diritto sia nutrito di socialità, non solo nella fase creatrice, ma anche nella fase applicativa. Questo fa parte del nostro senso umano, del nostro spirito della democrazia. Questo, sì, noi vogliamo. Ma ciò inquadriamo proprio nel principio di libertà del giudice nell'ambito della legge. Perché, a chi ben guardi, accentuare il senso di socialità del diritto, porsi a contatto col palpito della coscienza comune, significa veramente cogliere lo spirito della legge, essere cioè sul piano di chi applichi, di chi dica il diritto nello stesso quadro in cui il legislatore, espressione della volontà collettiva, lo formulò, lo creò. Siamo pertanto coerenti a noi stessi, quando si accentua questa nota sociale nella fase applicativa della legge. Poiché non si rinnega, bensì si avvalora il principio della certezza del diritto, quando affermiamo che un giudice libero, così nutrito di socialità nell'esercizio della sua virtù discrezionale, debba operare ad un tempo nel campo del diritto costituito e preservare quindi l'esigenza suprema della intangibilità del diritto obiettivo. Servi della legge per poterci dire liberi, secondo la grande parola di Cicerone.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti