[Il 6 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Turco. [...] Ma non basta: dev'essere perentoriamente affermato il principio dell'unicità, della integrità, e, quindi, dell'esclusività di tale funzione, che risponde all'integrale fiducia che l'Ordine merita e meriterà sempre più con l'affinamento progressivo, mercé la specializzazione della competenza tecnica e correlative funzioni.

L'unicità importa che nuove giurisdizioni speciali (questa perniciosa crittogama della giustizia) non debbano essere instaurate, e che debbano, anche, essere prontamente eliminate tutte quelle che sono state create per circostanze contingenti e per fini politici.

La Corte Suprema ha espresso solennemente in proposito il suo parere, ed ha elencato tassativamente le sole giurisdizioni eccezionali ammissibili (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, tutela giurisdizionale degli interessi legittimi) restituendo, quindi, al Magistrato ordinario l'intera funzione giurisdizionale.

E l'integrità importa sopra tutto, a mio avviso, che non sia strappato all'ordinaria magistratura, sotto pretesto di utopie politiche ed umanitarie, il compito più delicato e geloso — e della massima responsabilità — il governo della giustizia nella zona torrida dell'alta criminalità.

Ed eccomi, con questa considerazione di culminante interesse giuridico e sociale, entrato nella tesi specifica del mio intervento.

Proprio là dove incombe la suprema responsabilità del giudice, non può, non deve mancare il tranquillante corrispettivo della garenzia della competenza, della superiorità morale, della vigilata e progressiva attitudine del giudicante!

Entrata di straforo, in occasione dell'esame dei progetti Gullo per le norme complementari e la procedura del decreto legge 31 maggio 1946 sulla riforma della Corte di Assise, la questione del ripristino della giuria determinò un immediato schieramento, pro e contro, ed io, di parte contraria, fui incaricato di redigere e redassi una relazione di minoranza, che fu onorata dalla sottoscrizione dei Commissari consenzienti.

Ma la vivace battaglia venne abilmente sopita in un prudente agnosticismo, poiché si adottò il criterio di rinviare, senza specifica pronuncia, collegando la questione al vaglio dell'Assemblea in sede costituzionale. Ed è in questa sede, dunque, ed in questo momento, che, nella modestia delle mie forze, adempio al mandato conferitomi.

La nostra tesi è nitida e precisa: noi siamo contrari ad un istituto imperfetto ed imperfettibile, la cui riapparizione, se può ritenersi giustificabile nel tempo e pel tempo di eccezionale, transitorio, arroventato clima politico nel quale riapparve, non può essere accettata definitivamente, sub specie aeternitatis, sul piano tecnico costituzionale. Tutt'al più, dovrebbe, secondo l'ammonimento della Suprema Corte, rinviarsene, con l'abolizione dell'articolo 96, l'esame nel futuro ordinamento giudiziario, poiché non impegna una riforma di diritto sostanziale, ma soltanto una modifica processuale imposta dalla voce perentoria, inequivocabile dell'esperienza.

Ma, prima di giustificare tale tesi, consentitemi di sbarazzarmi di un'accusa pregiudiziale, che scaltramente ci si getta fra le gambe. Siamo reazionari noi nel contrastare non già la partecipazione del popolo, ma la diretta partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia? Siamo noi antidemocratici nel contrastare la partecipazione laica al governo della pesante giustizia criminale?

Qui, perdonatemi, è necessario precisare, con una autocitazione: tengo a riprodurre testualmente il brano correlativo della mia abortita controrelazione:

«Noi non disconveniamo affatto sulla necessità attuale ed imperiosa di democratizzare tutta l'attività statale; e siamo ben lungi dal non riconoscere esatto che la sovranità appartiene al popolo, e che, quindi, sia specifica espressione della sovranità popolare la funzione giurisdizionale. Tutto ciò attiene all'elemento fondamentale di un regime democratico, è una vera e propria esigenza democratica.

«Ma riteniamo che operi soltanto un pregiudizio democratico nella pretesa della partecipazione diretta del popolo sovrano all'amministrazione della giustizia, quando è premessa la norma fondamentale che la sovranità si esercita nelle forme e nei limiti della costituzione, e che quella giurisdizionale (come quella amministrativa) non è funzione originaria, ma derivata, ed è esercitata in nome del popolo (art. 94) e che altre forme di sovranità — la legislativa, l'esecutiva, ecc. — si esercitano dal popolo mediatamente ed indirettamente.

«Il popolo esercita democraticamente la sua sovranità, indirettamente, a mezzo degli organi che attingono origine, legittimità e potere dal popolo stesso organizzato a Stato. Così il popolo partecipa all'amministrazione della giustizia mediante l'organo della Magistratura, proposto nello stesso progetto come organo di designazione derivata dal popolo, autonomo ed indipendente, espresso e governato da un Consiglio Superiore, nel quale la voce e la volontà della Nazione è determinante e decisiva. Oggi, mediante la netta distinzione dei poteri dello Stato ed il concorso delle varie categorie sociali alla formazione delle leggi per mezzo dei loro rappresentanti, la coscienza morale e giuridica della collettività si esprime nel momento legislativo. Al giudice resta soltanto il compito di applicare la legge».

Potrei aggiungere che noi oramai siamo pervenuti ad una svolta del concetto di democrazia, che, slargandosi dal settore politico, va trasformandosi in democrazia sociale ed economica.

Comunque, anche a restar fermi al vecchio schema, è troppo chiaro che noi, oppositori della giuria, non contrastiamo l'esigenza democratica, ma soltanto un pregiudizio democratico, che è costato troppo duro nel passato alla giustizia criminale.

Ma noi siamo tanto equanimi, dopo respinta la immeritata accusa, da ammettere e convenire che nelle speciali transitorie (oggi fortunatamente superate) circostanze politiche, sul piano della necessità di una drastica ritorsione politica, anche quello che era soltanto un pregiudizio democratico, potesse e dovesse avere diritto (precario) di cittadinanza legislativa, per dar la sensazione al popolo di volersi definitivamente cancellare, direi plasticamente e di impeto, ogni vestigio della combattuta, contraria ideologia.

Giacché noi abbiamo la serenità necessaria per riconoscere, sul piano storico, la ricorrenza e l'irresistibilità del fenomeno del globale mimetismo, pel quale, in ogni crisi costituzionale, nel suo periodo parossistico di sovratensione politica, ogni manifestazione sociale si adegua e si colora della colorazione politica del momento critico che si attraversa.

Nella vita politica dei popoli si nota un fenomeno ricorrente: quello dell'inevitabile mimetismo che regola il ritmo della evoluzione legislativa sul passo del progresso politico sociale nella storia di ciascun paese.

Inevitabile ed opportuna è la uniforme colorazione, l'adeguamento esageratamente formale di tutti gli istituti fondamentali dello Stato all'accentuazione politica. È la tendenza mitopeica che si sgancia ed opera, nel momento della febbre politica, e sommerge e colora l'intera fenomenologia politico-sociale. Così abbiamo avuto, nella nostra crisi, la palingenesi democratica. Tutto per la e nella democrazia: niente al di fuori della democrazia. Ed allora si esagera: ma è naturale, opportuna l'esagerazione, purché temporanea, limitata al momento e pel momento di sovratensione politica transitoria.

Ecco perché l'onorevole Togliatti ha fatto bene, e non poteva far diversamente, nel periodo di estrema concitazione politica, quando gli si chiedeva da ogni lato l'abolizione delle Sezioni Speciali delle Corti politiche, a ripristinare l'istituto della giuria per quell'arroventato clima politico.

Il fascismo — con la sua tendenza mitopeica dello Stato — non riconoscendo altra sovranità che quella dello Stato, non poteva tollerare che si contrapponesse, con la giuria, la giustizia del popolo a quella del Re.

Era ben naturale, che per necessaria, immediata ritorsione politica, l'onorevole Togliatti, non riconoscendo altra sovranità che quella del popolo, affermasse anche nel piano tecnico la contrapposizione della giustizia popolare a quella dello Stato. Epperò ristabilì con il decreto-legge 31 maggio 1945, n. 500, l'organo della giuria come patentemente, immediatamente e direttamente rappresentativo della coscienza popolare, per dare la sensazione viva della unicità della sovranità del popolo, per dare la colorazione politica anche alla funzione giurisdizionale.

Ma ora che il turbine politico va lentamente ma decisamente quetandosi, e noi legislatori siamo chiamati a fare opera duratura in una Costituzione rigida, come faremo a conservare ancora questo ibrido istituto, regalatoci dalla nostra inguaribile mania imitativa delle legislazioni straniere, a mantenerlo ancora nella nostra tradizionale, limpida e quadrata compagine legislativa?

Crollano i troni attorno a noi, o signori, tramontano vecchie e pur nobili ideologie, che hanno fatto le glorie dei secoli passati. Solo i giurati debbono permanere a perturbare sempre, con il loro ictus irragionato, incorreggibile ed irresponsabile il tremendo flusso della giustizia punitiva?

Noi, modestamente, ci opponiamo: e non tanto per ragioni di fideisnio scientifico o per servaggio a pregiudiziali politiche, quanto per la costatazione realistica del bilancio fallimentare dell'istituto della giuria al banco di prova dell'esperienza. Già al principio del secolo il nostro grande Alimena lo definiva «l'organo dell'ordinamento giudiziario senza pace».

E difatti è riuscito a guadagnarsi, nel cinquantennio di sua vita funzionale, l'ostilità decisa e quasi unanime della dottrina, dei tecnici, dei congressi. E la perturbazione era così progredita che, nella prassi giudiziaria, l'opera del Supremo Collegio, più che in un controllo di diritto si era dovuta trasformare in vero e proprio controllo di giustizia.

Per noi, che abbiamo lungamente vissuto l'avventura giudiziaria dei giudici popolari, è doverosa la testimonianza che il verdetto dei giurati, in buona metà dei giudizi in Assise, quando non era il risultato di sopraffazione (o intellettuale o politica o, peggio, finanziaria), era semplicemente il risultato dell'azzardo, pel meccanico sorteggio, di quei giudici improvvisati. Onde la coscienza pubblica s'era da tempo orientata più che verso la speranza, verso la sicura attesa dell'estromissione definitiva del giurì dalla nostra legislazione. Perché, ripeto, quello della giuria è un istituto imperfetto ed imperfettibile. Infatti, due supreme facoltà umane, antitetiche fra loro, ma egualmente indispensabili, dovrebbero concorrere alla formazione di un giudizio umanamente perfetto: la intuizione e la riflessione. Donde, due tendenze contrastanti: la commossa, spontanea reattività al reato della coscienza popolare: è la prima. La seconda è l'attento consapevole travaglio del senso critico del giudice esperto.

La prima sgorga dall'irrazionale, impulsivo campo della emotività, ed è, qualche volta, divinatrice: arma prodigiosa, ma pericolosa, perché «l'affetto l'intelletto lega» e trascina oltre e contro la volontà della legge, e sbocca e non può che sboccare in un enigmatico monosillabo incontrollato ed irretrattabile, donde la lunga teoria degli errori giudiziari, che di lagrime gronda e fa terrore.

La seconda, la riflessione, è facoltà raziocinante, detersiva di ogni contaminazione alogica o sentimentale, severa e sicura investigatrice della realtà ontologica (esistenza del reato e individuazione dell'autore) e della realtà psicologica (colpevolezza e responsabilità anche in rapporto all'alterazioni psichiche ed ai riflessi sociali) con pienezza di capacità di attenzione e di critica.

Questa sbocca in una pronuncia razionalizzata della motivazione, quindi controllabile e quindi reparabile; motivazione proporzionata all'importanza della imputazione. Una giustizia, si è detto, sottratta all'obbligo della motivazione è il sintomo di uno Stato in isfacelo.

Ora, come è possibile contemperare queste due esigenze? E, nella impossibilità, a quale delle due attenersi?

Noi optiamo decisamente per la seconda, perché, mentre non è, quasi mai, da aspettarsi che il giurì improvvisi la competenza, l'attitudine critica e la dirittura morale, doti del giudice togato, c'è da aspettarsi, invece, che il giudice togato, accortamente sollecitato, superi e vinca quella, che sotto il nome di deformazione professionale, gli si rimprovera come insensibilità al flusso della realtà ed al ritmo palpitante della vita collettiva.

Non vi è giudice che possa resistere allo squillante richiamo del sentimento e alla suggestione dell'umana giustificazione dell'episodio criminoso e delle sue correlazioni sociali e politiche: come non vi è reato che, nel suo intrico psicologico, non abbia una piccola luce di umanità, che, saputa scovrire e portare in primo piano, illumina tutto l'orizzonte processuale e guida e sorregge il giudice attraverso le dighe e le precisazioni scientifiche del diritto.

Il problema definitivo da affrontare è, dunque, non già quello di scegliere fra il giudice improvvisato ed irresponsabile, ed il giudice ordinario e responsabile: ma è quello di arrivare, mediante gli opportuni ordinamenti, alla formazione di un giudice ordinario compos, sagace, addestrato, aggiornato nelle varie specializzazioni apprestate da tutte le scienze moderne: e di renderlo tetragono, nella sua coordinata indipendenza, al bisogno ed alle prepotenze.

E ad un giudice così fatto, che è fortunatamente frequente, e più lo sarà nel prossimo avvenire, non bisogna negare la fiducia, e disautorarlo negandogli il compito più grave ed essenziale della funzione giurisdizionale: quello di arginare le asprezze brutali della realtà criminosa.

Voglio dirvi un'ultima parola, o signori: una parola di vita palpitante di umana realtà.

I destini degli uomini sono imperscrutabili ed irreversibili. Niente può mettere al sicuro il più giusto, il più puro, il più forte degli uomini dal trovarsi impigliato, attore o vittima, in una macchinosa vicenda giudiziaria.

Quale giudice voi preferireste per la tutela della vostra libertà, del vostro onore, dell'avvenire dei vostri figli: il giudice improvvisato ed irresponsabile, o il giudice conscio, esperto, addestrato, indipendente e responsabile?

Questa scelta, che impegna la vostra responsabilità di legislatori, voi dovete tradurre sulle tavole della Costituzione.

E se noi, accettando il sistema bicamerale, abbiamo rifiutato di credere all'infallibilità di una intera Assemblea di ottimati: come possiamo credere al tabù delle infallibilità di un manipolo raccogliticcio di giudici popolari? (Applausi al centro Congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.

Bozzi. Onorevoli colleghi, non mi intratterrò, come ha fatto l'onorevole Turco, su un tema particolare, se pure di alta importanza, quale quello della giuria; ma cercherò di dare uno sguardo panoramico ai Titoli del progetto, che sono all'ordine del giorno.

Dico subito che sul tema trattato dall'onorevole Turco io sono perfettamente d'accordo con lui; tuttavia ritengo che il problema della giuria non debba essere risoluto in sede di Carta costituzionale, perché la giuria è giudice ordinario e la questione se essa debba esistere o no e, eventualmente, con quali competenze e limitazioni è questione da Codice di procedura penale o da legge sull'ordinamento giudiziario, così come è stato fino ad oggi.

[...]

Mastino Pietro. [...] Nell'articolo 94 ho introdotta una dizione che mi sembra più precisa, ed è questa: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». Appositamente ho parlato di «magistrati del pubblico ministero», intendendo con ciò che la nuova fisionomia del pubblico ministero deve essere quella di un magistrato staccato dalla dipendenza del potere esecutivo; il pubblico ministero diventa così organo del potere giudiziario. Anche adesso la sua funzione principale è quella di dare giudizi di necessità e di legalità, e solo eccezionalmente esprime giudizi d'opportunità e di convenienza. È giusto, quindi, precisare che la funzione giurisdizionale è esercitata, oltre che dai giudici, anche dai magistrati del pubblico ministero.

Sono stato anche indotto a questa precisazione dal fatto che nei lavori non solo riaffiorò, ma fu sostenuto, in termini espliciti, il concetto opposto. L'onorevole Leone vorrebbe riaffermare nella Costituzione la figura del pubblico ministero dipendente dal potere esecutivo.

[...]

In fatto di unità di giurisdizione io, onorevoli colleghi, sarei per l'unità della giurisdizione civile, penale e amministrativa. Ma se anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti dovessero rimanere come organi giurisdizionali, io chiederei che fosse sancito il diritto di ricorso alla Corte suprema contro ogni decisione di Magistratura ordinaria o speciale, per qualsiasi violazione o falsa applicazione della legge.

Credo che tutti siamo d'accordo, in linea per lo meno teorica, nel riconoscere che debbano essere aboliti i tribunali speciali e che nuovi tribunali speciali o commissioni straordinarie non debbano essere stabiliti. Però, intanto, nel progetto, la disposizione precisa dell'abolizione di quelli esistenti non è consacrata. È consacrato, sì, il divieto dell'istituzione di nuovi tribunali speciali, ma non è stabilita la soppressione immediata degli attuali. È stabilito che la soppressione debba avvenire entro cinque anni; ma se noi, ad esempio, dovessimo — uso questo termine un po' volgare, ma espressivo — dovessimo, dicevo, sorbirci, per cinque anni ancora, i provvedimenti straordinari stabiliti in materia penale, per cui l'imputato viene sottratto talvolta ai suoi giudici naturali, ed affidato — direi consegnato — ai tribunali militari di guerra, se questo, dico, si dovesse verificare, dovrei dire allora che noi, con questo nostro progetto di Costituzione, non abbiamo fatto un passo innanzi, ma ne abbiamo fatto molti in una via di regresso.

[...]

Ed entriamo, onorevoli colleghi, nell'ultimo argomento che io tratterò un po' diffusamente: nella dibattuta questione della Corte d'assise. È curioso questo, ed è singolare come quasi tutti gli avvocati, soprattutto gli avvocati penalisti, siano in genere poco favorevoli alla Corte d'assise. (Commenti).

Intendiamoci: alla giuria, così come era e come funzionava anni fa, crederei che quasi tutti siamo contrari; alla giuria così come venne concretata e formulata nell'attuale progetto, crederei che anche quasi tutti siano maggiormente contrari; per lo meno sono contrari i penalisti. Ma siamo anche ugualmente contrari all'attuale funzionamento della Corte d'assise, che consiste nell'inserimento di elementi cosiddetti popolari fra i giudici togati, cioè all'assessorato. Si verifica questo, onorevoli colleghi: che il magistrato spesso considera precipua sua funzione quella di stare a guardia per ciò che gli assessori eventualmente potranno fare. Noi dobbiamo uscire da questa situazione.

L'articolo 96 dispone che il popolo partecipi direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria, nei processi di Corte d'assise.

Io credo di non poter essere giudicato sospetto quando affermo che qui si è avuta una infiltrazione di tendenze demagogiche. Il popolo deve partecipare all'amministrazione della giustizia? Senza dubbio. Ma non è detto che debba parteciparvi solo attraverso la giuria nei processi di Corte d'assise; il popolo partecipa all'amministrazione della giustizia, informandone le leggi, rendendole più moderne, nel senso di renderle più adatte, più attuali, più adeguate all'ambiente; nel senso che la legge ha da essere modificata, rimodernata, resa viva, di modo che contempli i fatti umani così come si verificano nell'ambiente e nel periodo di tempo in cui deve essere applicata.

Io ricordo come il vecchio Codice — consentitemi l'accenno — non stabilisse minore pena per chi commettesse delitto per causa di onore. Tutt'al più si poteva ammettere il beneficio della provocazione. In seguito, opportunamente, venne introdotto un articolo, per cui i reati di sangue commessi per ragioni di onore vengono puniti con una pena speciale, di molto ridotta. Ecco che la spinta del popolo ha influito sulla modificazione della legge.

In questo senso, onorevole Bozzi, io trovo motivo per dire che non è vero che la giurisprudenza, quella che rappresenta e costituisce l'opera dei magistrati, debba necessariamente aver carattere conservatore. Il magistrato deve necessariamente applicare la legge, ma spetta al suo spirito, al senso di modernità e di umanità di cui possa essere animato, di far fare un passo innanzi alla legge stessa. I nuovi Codici, in certo senso, altro non rappresentano, se non la codificazione nuova di ciò che la giurisprudenza ha portato come nuovo contributo, per fare un passo innanzi. Ed è per questo che noi abbiamo introdotto nel Codice penale — come dicevo — un istituto relativo ai delitti per causa d'onore, considerati in modo speciale; ed è perciò che si è ristabilito il criterio delle attenuanti, ed è perciò che ha vita l'articolo 62 sulle diminuenti, articoli e principî che dovrebbero avere maggiore amplificazione.

Il popolo partecipa, quindi, all'amministrazione della giustizia, vi partecipa con le forme e per le vie di cui ho parlato. Quindi il problema delle Assise lo dobbiamo esaminare sotto un altro punto di vista.

Qual è il criterio fondamentale, in base al quale decidere se attribuire al giudizio delle assise le cause così dette di maggior competenza, oppure attribuirle ai tribunali? Dobbiamo seguire la via che porti ad una migliore amministrazione della giustizia. Questo dev'essere il criterio per decidere.

Attualmente, alla Corte di assise vengono deferiti tutti i processi in cui la pena superi i dodici anni. Questo criterio, onorevoli colleghi, non può essere seguito. Non bisogna badare ad un criterio quantitativo, bisogna badare ad un criterio qualitativo. Certi reati potranno essere ancora di competenza della Corte di assise. Quali? Ecco il punto. Potranno essere di competenza della Corte di assise, onorevoli colleghi, reati politici, qualche reato o tutti i reati passionali. Con questo criterio dovrà regolarsi la competenza delle Assise.

Io ho proposto la soppressione dell'articolo 96, non perché sia contrario a qualunque deferimento di cause alle Assise, ma perché non ammetto possa risorgere una giuria, le cui sentenze debbano decidere della vita di esseri umani e dei loro averi senza neanche la possibilità di appello.

La stranezza oggi è questa: che mentre è possibile l'appello da qualunque sentenza che condanni a qualche migliaio di lire di multa o a pochi giorni di carcere, tale possibilità è vietata per le cause in cui prima c'era la condanna a morte ed oggi v'è la condanna all'ergastolo.

Di modo che si arriva a questa incongruenza: che di fronte a casi troppo appariscenti, che cioè troppo palesemente violano la giustizia, la Cassazione che dovrebbe occuparsi solo di questioni di diritto, esamina la causa talvolta in linea di fatto.

La Corte di assise, competente solo nelle poche cause alla cui natura ho accennato, dovrebbe essere sistemata e regolata in modo da garantire il diritto all'appello.

La difficoltà del problema dovrà essere esaminata in sede di ordinamento giudiziario, o potrà avere, alla luce dei criteri ora espressi, opportuna soluzione.

Devo spiegare perché non attribuisco l'esclusività della competenza ai magistrati togati, dicendo, anche a questo proposito, chiaro il mio pensiero. Devo riconoscere che non sempre e non tutti hanno l'animo aperto a correnti e a sentimenti nuovi, e voglio sperare che, con l'attribuire loro la competenza anche in molte cause ora di assise (e col togliere loro la preoccupazione di quello che sarà il comportamento dei giurati o degli assessori), siano animati nella loro opera da spirito più largamente umano e, mi permetto di dire, anche da minor senso di diffidenza verso le posizioni a difesa, se non, talvolta, verso gli avvocati.

[...]

Ciampitti. [...] Un'ultima parola a proposito della istituzione della giuria popolare, prevista nell'articolo 96 della Costituzione. Io sono convinto e irriducibile avversario della istituzione della giuria popolare. La mia lunga esperienza professionale mi conduce a questo convincimento, che io non so se sia condiviso dalla maggioranza di questa nobile Assemblea. Ma io ricordo gli scandali frequenti, gli errori frequenti, che si sono verificati durante il funzionamento delle giurie popolari. Nella relazione del Comitato per lo studio della riforma penale, costituito dall'Istituto italiano di studi legislativi e composto di magistrati insigni, di professori universitari e di liberi insigni professionisti, sono stati esposti e lumeggiati i motivi molteplici e seri che fanno ripudiare l'istituto della giuria popolare. Molte volte, specialmente nei processi indiziari, il delitto appare avvolto da mistero e l'imputato tenta ogni mezzo per occultare la verità e sfuggire alla condanna, traendo talvolta in errore anche il giudice più accorto ed esperto.

Ora, come può un giudice improvvisato, e quindi impreparato ed inesperto, accingersi alla ricerca della verità, quando egli non ha pratica, quando egli può essere facilmente travolto ed ingannato da equivoche apparenze e da falsi testimoni?

Ricordo che l'onorevole Enrico Ferri, a proposito della funzione giudiziaria che si attribuiva alla giuria popolare, ricorse ad un esempio banale, ma significativo. Egli si esprimeva così: «Sarebbe lo stesso come affidare la riparazione di un orologio ad un calzolaio». Non è colpa della giuria popolare se non è all'altezza della funzione che le si dovrebbe assegnare. E non perché si vuole che il popolo direttamente partecipi all'amministrazione della giustizia, si devono eliminare i magistrati togati, i quali, non so perché, dovrebbero essere capaci di giudicare nelle altre cause e non in quelle che ordinariamente si assegnano alla Corte d'assise.

Del resto, se si parla di percezione logica o di intuito da parte dei cittadini che dovrebbero costituire la giuria popolare, io mi permetto di osservare che tutto ciò non basta.

Occorre che vi sia una preparazione giuridica e che si abbia il sussidio di scienze complementari, oltre che pratica e tecnica giudiziarie, per rendere meno frequenti gli errori, il che con la giuria popolare non si può conseguire.

Moderni studiosi reclamano che il giudice penale abbia forte preparazione giuridica e scientifica. Ora, i rappresentanti del popolo si smarriscono molto spesso in quella che è la ricerca della verità, perché è soltanto la lunga pratica giudiziaria che può mettere i giudici in genere in condizione di poter ricercare la verità e corazzarsi contro tutte le insidie.

Questa non è opera che può essere attribuita a qualunque cittadino; non si possono improvvisare i giudici, specialmente quando alle Corti di assise si assegnano le cause per delitti più gravi di quelli che competono al tribunale. E poi, per chi abbia pratica delle Corti di assise, basta anche considerare la facilità con cui sono conseguite le vittorie da parte di avvocati che finiscono per travolgere il giudizio dei giurati con le blandizie della eloquenza oratoria. Ecco perché si hanno le facili vittorie nelle Corti di assise. Inoltre bisogna considerare anche la influenza che si può esercitare sull'animo dei giudici popolari in conseguenza di ragioni politiche, familiari, per interessi morali, per rapporti di simpatia, ecc., che possono determinare nell'animo dei giudici popolari un atteggiamento favorevole verso l'una o l'altra parte; il più delle volte ciò accade anche inconsapevolmente, per effetto di questi stessi rapporti.

Vi sono, è vero, dei difensori della giuria popolare, i quali si servono di questo argomento: essi dicono che nelle Corti di assise ordinariamente si dà un giudizio di fatto, e questo lo possono dare anche coloro che non sono cultori del diritto e che non sono dei magistrati; ma questo è un errore, perché il fatto ed il diritto spesso si concretizzano nello stesso processo, onde non è possibile parlare distintamente del fatto e del diritto. Il più delle volte bisogna giudicare una questione di diritto insieme ad una questione di fatto ed i giudici del popolo non sono sempre in grado di risolvere queste questioni.

Per quanto riguarda l'assessorato, il rimedio mi pare peggiore. Se i due magistrati che fanno parte della Corte di assise sono in dissenso circa la risoluzione di una questione di diritto, questa si decide col voto di cinque assessori, che non sono giuristi e che di legge non si intendono affatto. Basta questo per tutto.

Quindi, non v'è nessun serio motivo — ed io ho letto molto intorno a questo argomento e non ho trovato elementi capaci di distogliermi dalla mia convinzione — perché al magistrato togato si debbano sottrarre le cause di competenza della Corte di assise, molte delle quali — del resto — sono di più facile indagine e di molto più semplice decisione. Ancora, bisogna aver riguardo a quello che è il problema delle aggravanti e delle circostanze attenuanti in Corte d'assise. Quando si parla di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti non si può prescindere da considerazioni di diritto: il giudice popolare non è in grado di esaminare se, date alcune modalità di fatto, siano o no applicabili le aggravanti o le attenuanti previste dal Codice penale e, ancora, il giudizio della giuria popolare si esprime attraverso un «sì» o un «no», senza una motivazione, senza che, cioè, chi giudica abbia il dovere e la responsabilità di dire le ragioni, la motivazione del proprio giudizio, sia esso di condanna o di assoluzione.

Per queste modeste considerazioni, credo che si debba, da parte dell'Assemblea Costituente, respingere l'articolo 96 del progetto di Costituzione, nel senso che si debba eliminare il giudizio della Corte d'assise a base di giudici popolari e che addirittura tutte le cause penali, qualunque sia la loro entità, debbano essere giudicate dal magistrato togato, il solo che abbia la competenza, la capacità, l'esperienza per assicurare il trionfo della giustizia. (Applausi).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti