[Il 7 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Crispo. [...] Dirò qualche parola su di un altro problema d'ordine generale, riservandomi di intervenire in sede di discussione degli articoli su questioni particolari o di dettaglio.

Intendo riferirmi alla giuria. Se il problema della Magistratura s'identifica con quello dell'indipendenza del giudice, il problema della giuria si riferisce specialmente alla competenza tecnica del giudice.

Dico specialmente, e non esclusivamente, perché io non sono d'accordo con coloro che si compiacciono di rilevare ed esaltare la competenza morale o l'indipendenza propria del giurato.

Basterebbe in proposito ricordare che, mentre nell'articolo 94 si fa divieto al magistrato di appartenere ad un partito politico, tale divieto non sussiste per il giurato. Ora, è evidente il pericolo costituito da giurie, le quali, nel decidere, possano essere ispirate e guidate da spirito o passione di parte.

Avviene così che il magistrato, occupandosi di una questione di confine o di una contravvenzione, può suscitare e suscita diffidenza, se sia inscritto ad un partito politico, mentre il giurato, nelle medesime condizioni di morale incompatibilità, può essere il più fazioso uomo di parte, e nello stesso tempo, giudice del proprio avversario politico, nei giudizi di maggiore gravità.

Io posso bene intendere il motivo per il quale non è stato ripetuto il divieto per il giurato che, giudice non permanente, ma chiamato, di volta in volta, ad esercitare una funzione non sua e che egli non ha scelto, dovrebbe adempiere non solo un gravoso dovere, ma anche sacrificare ad esso uno dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Ma, se mi rendo conto della ragione per la quale il divieto sussiste pel magistrato, e non sussiste per il giurato, ciò non significa che il giurato non si trovi nelle condizioni di morale incompatibilità per le quali s'è voluto precisamente vietare al magistrato di iscriversi ad un partito politico, con l'aggravante della maggiore competenza per materia, propria della Corte d'assise.

Sotto questo aspetto, al giurato mancherebbe evidentemente la indipendenza necessaria, sopratutto nella vita che si vive oggi, agitata e dominata dalla lotta dei partiti, dalla quale non si può pretendere che si astragga il cittadino, quando diviene giurato.

Con la indipendenza, al giurato mancherebbe anche la più elementare competenza tecnica.

Avviene così che, per giudicare di una questione di dare e di avere, o di una contravvenzione qualunque, si richiede un giudice, investito delle sue funzioni a seguito di un concorso e di un determinato tirocinio, mentre per giudicare della libertà dei cittadini, nei casi più gravi, punibili anche con l'ergastolo, basterà che il giudice abbia la sua ragione naturale, o soltanto le risorse del suo buon senso.

Quanta gente non è stata assassinata legalmente nelle Corti di assise, che furono assai spesso lo scannatoio del buon senso!

Il verdetto, per altro, non è un giudizio, poiché il monosillabo positivo o negativo del giurato costituisce, anzi, una tragica parodia del giudizio. Esso sopprime una delle maggiori conquiste della civiltà umana, la motivazione, cioè, della condanna o dell'assoluzione. E, sopprimendo la motivazione, sopprime il diritto di appello, riconosciuto per ogni condanna, sia pure a pochi giorni di reclusione o di arresto, e perfino in caso di condanna alla multa superiore alle duemila lire, e in caso di assoluzione per mancanza di prova. E col diritto di appello sopprime anche, di fatto, il ricorso per cassazione, perché, di fronte al verdetto, e all'applicazione della legge penale che, a seguito del verdetto, viene fatta dal Presidente, l'intervento del Supremo Collegio sarebbe quasi esclusivamente limitato all'esame della costituzione del giudice, e della formulazione del questionario, a casi, cioè, nei quali sarebbe assai difficile rilevare eventuali nullità.

A proposito del così detto buon senso dei giurati si potrebbe utilmente ripetere quello che un grande giudice inglese, il Coke, disse al Re d'Inghilterra. Nel 1612 Giacomo I invitò i giudici d'Inghilterra a presentarsi dinnanzi a lui per rivendicare la facoltà di sottrarre ai giudici di diritto comune tutte le cause che a lui piacesse di decidere personalmente. A tale richiesta il Coke, il primo dei giudici, obiettò, a nome di tutti, che, «secondo la legge d'Inghilterra, il Re in persona non può giudicare alcuna causa, e che tutte le cause, sia civili sia penali, dovevano essere decise dai tribunali, in sede giudiziaria, secondo le leggi, e con le consuetudini del regno».

Il Re replicò che egli reputava essere la legge fondata sulla ragione, e che egli era, al pari dei giudici, fornito di ragione. «È certamente vero», rispose il Coke, «che Iddio ha fornito Sua Maestà di un grande sapere e di doti naturali non meno grandi, ma Sua Maestà non è abbastanza dotto nelle leggi del suo reame, e le cause che concernono la vita, i diritti ereditari, i beni e le fortune dei suoi sudditi, non possono essere decise secondo la ragione naturale, ma secondo le norme del diritto, e il diritto è un'arte che richiede lungo studio e lunga esperienza, prima che se ne possa raggiungere la conoscenza completa».

Mutatis mutandis, il legislatore ragiona ancora oggi come Giacomo I ragionava ai suoi tempi, sostituendo al buon senso del Re il buon senso del popolo, mentre si accentua sempre più il carattere tecnico del giudizio penale, e, quindi, la necessità del giudice specializzato, dinanzi a questioni non solo di diritto, ma anche di psicologia criminale, di psicopatologia, di tecnica della polizia, di medicina legale, di tossicologia e simili. È questa la espressione più grossolana di quel fenomeno che fu definito il culto democratico dell'incompetenza, per il quale la società, dovendosi difendere dai ladri e dagli assassini, affida l'arma di tale difesa a coloro che non possono usarla. Quell'arma, difatti, non può essere che un codice, e questo codice sarà posto — incredibile a dirsi — nelle mani di cittadini che non sanno intenderlo per poterlo applicare. È difficile, adunque, trovare una sola ragione seria a favore di un istituto, cui rimane solo il prestigio delle origini, e di una tradizione superata, ormai, dalla esperienza vissuta, e travolta da censure di ogni genere, della scuola e della pratica, del giurista, del filosofo, e anche dell'uomo della strada, censure delle quali è così penetrata la coscienza generale da essere divenute veri e propri luoghi comuni. Resta, nondimeno, a favore della giuria, un solo argomento. Occorre — si dice — democratizzare la giustizia, onde non solo deve ripristinarsi la giuria, ma essa deve divenire del tutto popolare. Oggi non potrebbe intendersi più una giuria borghese, e nemmeno una giuria borghese-operaia: è necessario istituire una giuria proletaria. Più ignorante essa sarà, e meglio risponderà alle esigenze della democrazia! Ed è questa la ragione per la quale, in una recente legge, non entrata per fortuna in vigore, titolo sufficiente per l'idoneità alla funzione del giurato era considerato il certificato di licenza elementare!

Ora, non è già che io mi dolga di questa graduale trasformazione della personalità del giurato, fino alla più bassa sua espressione! Io non dico questo. Io dico, invece, che, borghese o proletario che sia, il giurato non ha alcuna capacità tecnica per decidere della sorte dei suoi simili, e, pertanto, occorre una buona volta insorgere contro il «tabù» del principio democratico, che s'invoca a sproposito nel tema dell'amministrazione della giustizia.

È grave errore, difatti, pretendere che il popolo debba partecipare direttamente all'amministrazione della giustizia, dato che il potere deriva dal popolo. Perché, se è vero che il potere dello Stato moderno deriva dal popolo, non è vero che si possa identificare lo Stato con il popolo, confondere lo Stato con il popolo. Sono due concetti distinti. E questa distinzione che ha un significato scientifico fu come il fondamento della Costituzione americana del 1776. Essa riconobbe che il potere deriva dal popolo e che, pertanto, il popolo ha diritto di governare, ma lo riconobbe, per trarne la conseguenza della necessità di rendere il popolo capace di governare. È assurdo pensare, infatti, che la massa indifferenziata possa governare. Il problema essenziale è precisamente questo: educare la massa e far sì che essa possa rispondere alle esigenze di una democrazia moderna. La Costituzione di uno stato non è, come diceva Burke, «un problema aritmetico». Il problema del governo consiste, invece, nell'organizzare il potere indiscusso e inalienabile del popolo, in modo che esso possa realizzare i suoi maggiori interessi.

Epperò, non si offende, e non si disconosce il principio democratico, quando si nega che il problema della giustizia in Corte di Assise possa porsi e risolversi in funzione delle esigenze d'una pura democrazia. L'istituto della giuria è, difatti, l'espressione d'un eccesso di democrazia, e Montesquieu ammoniva, e prima di lui Aristotele annunciava, che i regimi decadono non solo per l'abbandono dei principî che li informano, ma anche per l'eccesso dei principî stessi. (Applausi Congratulazioni).

 

PrecedenteSuccessiva

Home

 

 

A cura di Fabrizio Calzaretti