[Il 13 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Pecorari.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Gasparotto. [...] Non vale più la pena di parlare sulla Corte di assise. Forse anche la stessa discussione già fatta poteva essere evitata. Ognuno porta da tempo nel proprio cuore le convinzioni antiche o recenti. C'è una così vasta letteratura, una così larga fioritura di dottrina su questo argomento, che la discussione su di esso non può che convertirsi ed esaurirsi in mera accademia.

Perciò, coerente alle mie antiche convinzioni, mi dichiaro favorevole al mantenimento della giuria popolare, nei limiti indicati dal testo della Commissione, cioè demandando alle leggi particolari, alle norme comuni la disciplina dell'istituto nei suoi limiti di competenza e nella composizione della giuria.

Qui si sono evocati i grandi spiriti che hanno dominato la dottrina antica e moderna. Si è ricordato perfino lo Stuart Mill, il Montesquieu, e tra i nostri più vicini scrittori, il Pessina, il Pisanelli, il Finocchiaro Aprile, ed altri. Mi permetterò invece di ricordare il più grande spirito italiano, che ha anticipato l'istituto moderno del giudice popolare, ed è Cesare Beccaria, il quale diceva che, mentre riconosceva al giudice togato la maggiore e migliore capacità per istruire le cause, preferiva il giudice popolare, scevro da preconcetti, per il giudizio sulle cause. Vale la pena — e con questa citazione credo di aver esaurito l'argomento — di leggere quello che ha scritto in tempi tanto lontani Cesare Beccaria: egli diceva che se nel cercare le prove occorre abilità e destrezza, nel giudicare un risultato si richiede «un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a trovare il reo, e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato ai suoi studi». Si dirà che questo è già un luogo comune e fu detto da tanti oratori; ma è privilegio e gloria dei grandi precursori quello di esprimere opinioni che, a distanza di tempo, diventano luoghi comuni.

Qui, da più parti, fu rievocato il «caso Olivo», che — riconosco — a suo tempo, quarant'anni fa, provocò una larga campagna di stampa contro la giuria popolare. Poiché ho avuto la fortuna di assistere a talune di quelle sedute, alla Corte di assise di Milano, posso portare un chiarimento sul «fatto Olivo», imputato di uxoricidio. Olivo era un modello di impiegato, per rettitudine, per capacità, per assiduità. Aveva la disgrazia di avere al suo fianco, e di convivervi, una donna la quale gli rendeva la vita impossibile. Portato all'estremo limite della disperazione, un certo giorno la soppresse. Le cronache umoristiche del tempo dicevano: «non riusciva a farla tacere; per chiuderle la bocca, si decise a sopprimerla».

Il giudice popolare di Milano lo ha assolto, deponendo nell'urna 12 schede bianche. Sotto la pressione della stampa, la Corte di cassazione annullò il verdetto (e questo fu giudicato da tutti un atto di arbitrio) e trasferì la causa alla Corte d'assise di Bergamo. Quasi in via pregiudiziale, fors'anche — lo riconosco — per ribellione al giudizio del magistrato supremo, i giurati di Bergamo con 12 schede bianche confermarono il giudizio milanese. Si venne poi a conoscere il retroscena di queste assoluzioni. I giurati milanesi intendevano assolvere dall'uxoricidio, vale a dire dall'accusa più grave, l'Olivo; intendevano condannarlo per lo strazio fatto del cadavere, a scopo di occultamento del delitto. Il Presidente della Corte d'assise — e potrei farne anche il nome — il quale, badate bene, aveva scritto un libro Sui quesiti ai giurati — non credette, non volle o non poté inserire fra essi quello dello scempio del cadavere.

Macrelli. Omicidio preterintenzionale!

Gasparotto. No. Il Codice Zanardelli del tempo, che regolava la materia, bensì contemplava il delitto di vilipendio, ma era un reato che aveva un ben diverso contenuto, punibile con la pena irrisoria da tre mesi a trenta mesi. Così, i giurati si trovarono nella impossibilità di giudicare in senso sfavorevole, per quanto grandemente attenuato, l'imputato.

Ebbene, che cosa avvenne? Avvenne che il successivo Codice penale ebbe ad introdurre precisamente, pur mantenendo l'antico articolo 144 del vilipendio, un nuovo articolo 411, per la distruzione del cadavere, punibile con la sensibile pena da tre a sette anni. L'errore dei giurati ha servito al legislatore.

Questa è la spiegazione del caso Olivo. Del resto, riconosco col caro amico Villabruna, che colla Corte d'assise ha consuetudine di antica data, riconosco che la questione su questo argomento si trasferisce dal campo tecnico al campo politico.

Giustamente ha detto Veroni che l'istituto della giuria rappresenta un trionfo della democrazia e della libertà. L'accostamento della giustizia al popolo, il principio di far giudicare l'uomo dai suoi pari è principio di democrazia e di libertà. Perciò, in questi gravi reati, soltanto il giudice popolare può, in un certo momento, interpretare la pubblica coscienza, e soltanto al giudice popolare è dato di assolvere nei delitti a ragion d'onore, per difesa cioè dell'onore della famiglia, mentre ciò, per il rigore della legge e per l'abito professionale, al magistrato togato non sarebbe mai consentito. Queste assoluzioni nei reati d'onore non hanno mai meravigliato l'opinione pubblica, anzi hanno trovato il pubblico consenso perché, più che una repressione, costituiscono un ammonimento per coloro che attentano all'onore delle donne e alla pace della famiglia; precedenti questi, che dimostrano che la giuria popolare è gradita all'opinione del popolo italiano. Perciò dev'essere mantenuta.

Quanto poi ai limiti di questo istituto, quanto alla scelta dei giurati, alla qualità dei reati che saranno sottoposti al suo giudizio, provvederà la nuova legge. La Costituzione è uno statuto solenne che deve avere carattere, se non di fissità, di stabilità tale da essere sottratto alle alterne fluttuazioni delle condizioni contingenti della vita politica ed economica del Paese. Tutto quello che può essere frutto del mutevole corso del tempo deve essere regolato dalla legge speciale, per non esporre il Paese, non dico alla vergogna, ma certamente al fastidio di cambiamenti frequenti alla legge costituzionale.

[...]

Avanzini. [...] La giuria: tema arroventato. E non potrebbe non esserlo, se il bravissimo amico onorevole Turco ha detto che tale tema attiene alla torrida zona della criminalità umana.

Poche voci in favore della giuria, qui dentro. Dirò la mia modestissima e la trarrò non dall'astrazione e dalla dilettazione teorica.

Vedete: se noi vogliamo incidere la figura del giudice perfetto, o più vicino alla perfezione, dobbiamo certo concludere che il giurato è il giudice più imperfetto. Ma c'è un giudice, non dico perfetto, ma che si avvicini alla perfezione? Ciò non può dirsi neppure del giudice togato. Quante volte sbaglia! Basti pensare al numero delle sentenze che quotidianamente vengono riformate in sede di impugnazione.

Quante cose poi dovrebbe sapere il giudice? Se egli è chiamato a decidere in processi di bancarotta dovrebbe intendersi di contabilità e della complessa vicenda commerciale e industriale; se è chiamato a giudicare nei processi di aggiotaggio dovrà conoscere il minuto e complesso, talora insidioso funzionamento delle borse; se sarà chiamato a giudicare in processi di omicidio, di lesioni, di aborto dovrà intendersi di medicina legale, di psichiatria, di psicologia. Tante e tante cose insomma, per cui, non ricordo chi, volendo dimostrare l'assurdo che è nel motto notissimo: «il giudice è il perito dei periti», scriveva che allo scopo, ciascun giudice dovrebbe avere il cervello poderoso di Leonardo.

Allora il problema è un altro. È davvero il giurato, pur giudice imperfetto, del tutto incapace di rendere giustizia, o quanto meno di renderla quale la renderebbe il giudice togato? Io sento il problema, onorevoli colleghi, non secondo quanto ho letto nelle riviste o nei libri — del resto poche cose, quasi sempre uguali e non del tutto suadenti — ma secondo la mia pratica professionale. Perché la teoria non è sempre la vita, come la vita non sempre si può inquadrare negli schemi rigidi imposti dalla teoria. Consentite dunque anche a me di partire da un ricordo professionale.

1921! Una frotta di giovani fascisti percorre un argine del Po nella mia terra mantovana. Dai lati della strada partono colpi di rivoltella: tra quei giovani un morto e due feriti gravi. È arrestato un giovane del paese: ne ricordo ancora il nome. Istruttoria e rinvio a giudizio. I due feriti sopravvissuti ed altri che erano in loro compagnia riconoscono senz'altro nell'arrestato lo sparatore. Al dibattimento i confronti si ripetono fermi, precisi, senza esitazioni, mentre io rivivevo la disperazione del vecchio padre dell'imputato, il quale nel mio studio mi scongiurava di salvargli il figlio innocente. Il vecchio soffriva d'asma, vegliava tutta la notte: giurava quindi che il figliolo, quando il delitto veniva commesso, dormiva nel letto, che gli era vicino! Cosa dovevo fare? Dovevo citarlo come testimonio? Già il codice di procedura del tempo non lo consentiva. E anche se lo avessi potuto fare chi gli avrebbe creduto? Un padre può mentire per salvare la sua creatura. Io non ricordo quel che dissi allora ai giurati. Ricordo solo che alla fine l'urna rivelò cinque schede per l'assoluzione e cinque per la condanna. E fu l'assoluzione! L'assoluzione di un innocente! Si ripeté la solita storia: dopo anni, un uomo venne a morire, ma prima si confessò autore di quel delitto, indicò i complici, escludendo la partecipazione di colui che aveva, innocente, azzardato l'ergastolo.

Onorevoli colleghi, di fronte a quella imponenza di riconoscimenti il giudice togato non avrebbe mai assolto. Ai miei argomenti sulla possibile fallacia del riconoscimento, sulla possibilità dell'equivoco, sulla suggestione dell'ora avrebbe risposto: «ferravecchi del mestiere». E avrebbe condannato un innocente!

Potrei aggiungere altri casi: ma basta uno. Perché anche da quest'uno deriva un grande ammonimento! Gonzales, che ha tanta pratica di vicende giudiziarie ha scritto:

«Pur abrogata fin dal 1944 la pena capitale per i reati comuni del codice penale, le lunghe pene sono comunque pene capitali; 20-30 anni di reclusione, l'ergastolo, annichiliscono le ragioni di vivere. Allora, affidare tanto destino di uomini alla routine professionale, all'ossequio formale ed intransigente per le regole cristallizzate del diritto, in confronto delle molteplici esigenze di vita, dei molti problemi di equità e di responsabilità sociale, che affiorano nei drammi umani, ripugna al sano istinto popolare di giustizia».

Lo so, amico Scalfaro, che ti do un dispiacere, ma è certo che il giudice togato ha sempre in sé una insidia, che alla lunga non riesce a vincere: l'abito professionale. Dopo i primi fervori, se pur, come te, li ha avuti, il giudice finisce per procedere per schemi, per convinzioni ed idee acquisite. La logica delle prove nel fatto — e, badate, che in Corte d'assise è soprattutto questione di logica delle prove nel fatto — diventa in lui come anchilosata, onde perde quella duttilità, quella elasticità che sono postulate dalla diversità dei casi.

La pratica professionale insomma ottunde la sensibilità! E allora che mi importa se il giurato non sarà un pozzo di scienza giuridica, quando egli nel giudizio porta invece come una freschezza, una spontaneità, oserei dire una innocenza di indagine? Se egli procede con una sensibilità più aperta, con una comprensione, certamente non professionale, ma indubbiamente più umana?

Amico Bettiol, il giurato se tu lo interroghi non ti saprà definire, secondo i testi, in che consista la preterintenzione, non ti spaccherà l'argomento, ridotto ad un capello, nelle innumeri distinzioni dei giuristi. Così, in tema di premeditazione, non saprà dirti se per essa basta il proposito, o se ci si deve aggiungere la riflessione, e quindi alla riflessione la deliberazione, e ancora la pervicacia nella deliberazione. No, queste cose non te le saprà dire, ma nel caso concreto il giurato saprà dirti se colui, che attende il suo giudizio, ha colpito o non oltre l'intenzione, ha premeditato o non, e te lo saprà dire di istinto, per intuizione, con una comprensione umana, proprio quale è richiesta dalla gravità del giudizio!

Per questo indubbiamente grandi Presidenti di Corte d'assise: Campolongo, Vaccaro, Raimondi, Fanelli, che hanno vissuto la loro vita fra i giurati, che hanno presieduto tante giurie, quando si trattò della loro abolizione si ribellarono e proclamarono che, per i più gravi delitti, la giuria popolare è somma garanzia per la giustizia.

Scalfaro. Non c'è anche una coscienza anchilosata di difesa?

Avanzini. Non immiseriamo il problema, onorevole collega. In questo momento io non parlo da avvocato, ma parlo da uomo che guarda al problema della giustizia: perché al problema della giustizia sia data la soluzione che più conviene alla tradizione italiana ed a quelle che sono le supreme esigenze del diritto.

Devo anche dissentire da altro collega che ha parlato da questi banchi, ed ha guardato con orrore a quella che definì la nefasta influenza del fattore politico nei giudizi affidati alle giurie. Potrei ricordare che uno dei più fieri oppositori della giuria, l'Altavilla, finì per riconoscere che alla giuria devono almeno essere riservati i giudizi nei processi politici e in quelli passionali.

Anche qui dentro mi affiorano ricordi personali e in quest'Aula vi sono uomini che possono rendere testimonianza di quanto io dico. L'onorevole Villani, innocente, allora seduto tra gli imputati. Gli onorevoli Targetti e Grilli con me al banco della difesa. Fu nel processo chiamato allora dell'eccidio di Castello Estense. Le colonne fasciste avevano investito il Castello, in cui i socialisti si erano asserragliati per difenderlo. Scaricate le armi dall'una e dall'altra parte sul terreno, fra i fascisti, cinque morti e numerosi feriti.

Il processo non si poté celebrare a Ferrara: si celebrò a Mantova per legittima suspicione. Agguerritissima la parte civile: i migliori avvocati del foro penale ferrarese ed altri ancora. Ma non essa ci impauriva. Ci impauriva altro fatto: tra i giurati ben sette erano iscritti al fascio. Per due mesi, tutti i giorni quei sette dischetti tricolori innanzi agli occhi! Dove andiamo? Come finirà? ci domandavamo.

Ebbene, la conclusione fu che, di quindici imputati, dodici furono assolti e degli altri tre uno, il più accusato da me difeso, fu condannato a 7 anni di reclusione, altro a 4, altro a due. Condanne miti quindi, quali nessun giudice togato, nel caso, avrebbe pronunciate. È vero dunque che quei giudici popolari avevano sentito che la giustizia era un qualche cosa di più alto sul loro spirito di parte.

Potrei citare altri casi. Lo sa l'onorevole Ghidini. Lo sa l'onorevole Cappi che tratto a Cremona davanti alla Corte d'assise, domino Farinacci, quale imputato di vilipendio alle istituzioni, fu assolto.

Non vogliamo dunque esser così pessimisti.

C'è e resta sempre in fondo all'anima umana un sedimento di nobiltà e di responsabilità. Sovrattutto di responsabilità!

Fuori delle ore più convulse e arroventate della storia, nella ritornata normalità della vita, sedete sul banco del giudice il più acceso uomo di parte. Nel momento in cui dovrà decidere la sorte di un suo simile — ergastolo, trent'anni, vent'anni — quel senso di responsabilità risorgerà in lui prepotente e obbligante!

L'altro giorno l'onorevole Villabruna mi ha stupito, poi che in lui parlava un penalista di così alta statura.

Egli ha detto che per correggere la giuria fu creato l'assessorato, e fu un passo avanti. Ma non certo per la giustizia! Lasciamo il caso delle sentenze suicide.

Gli assessori eccezionalmente impongono l'assoluzione dell'imputato e allora il Presidente scrive una sentenza volutamente contraddittoria e carente di motivazione, così da assicurarne l'annullamento. Ho detto eccezionalmente, perché la caratteristica più grave dell'assessorato è la subordinazione del giudice popolare al giudice togato. Così, proprio nei processi più gravi, si arriva al giudice unico.

Sì, può essere accaduto che i giurati abbiano assolto forse chi non lo meritava. In fondo, non è un gran male. «Purché il reo non si salvi il giusto pera e l'innocente». È un verso di un poeta epico italiano, che l'ha posto però sulle labbra di un saraceno. Non è un gran male. Certo, però, nei miei ricordi professionali c'è questo: io ho sicura coscienza che mai sia stato condannato un innocente dalla giuria popolare. Ho la sicura certezza, invece, che durante l'assessorato, due innocenti mi sono stati condannati. E da uno di questi sciagurati a tanto a tanto mi giunse una lettera disperata, quasi come un triste rintocco di campana! È il più funesto ricordo della mia vita professionale. E anche allora, per quella deprecata subordinazione del giudice popolare. Cinque ore di camera di consiglio, finché il Presidente impose la sua convinzione. Il giorno dopo la sentenza tre assessori, fra cui un ingegnere e un professore, si presentavano al presidente del Tribunale per chiedere di essere cancellati dalla lista degli assessori. Tanto era il peso che ingombrava la loro coscienza.

Ecco perché son sorto a parlare sovrattutto per il ripristino della giuria. Certo, vedete, bisognerà rendere la giuria più rispondente ai suoi compiti. Basterà selezionarla.

Un magistrato eletto, il Serena Monghini, il quale non è certo tenero per la giuria, al riguardo scrive: «Secondo i principî della sana democrazia, il potere è esercitato dai migliori per designazione diretta o indiretta di tutti i cittadini... Questo criterio dovrebbe estendersi progressivamente all'amministrazione della giustizia anche in Italia. Se si ritiene pertanto, che nei casi di reati più gravi l'elemento popolare debba concorrere all'amministrazione della giustizia, è opportuno che tali giudici siano scelti tra i cittadini che per le loro qualità intellettuali e morali appaiono al popolo suoi legittimi rappresentanti come i più idonei all'esercizio di tale funzione». E qui una serie di proposte, fra cui quella di elevare il titolo di studio, che consente l'ammissione al corpo dei giurati.

C'è però l'ultimo argomento, quasi il fortilizio, degli avversari della giuria. Dicono: «Ma non la sentite la iniquità? Chi viene condannato soltanto ad un mese di reclusione o a 2.001 lire di multa, può ricorrere in appello, mentre ciò è negato al condannato all'ergastolo o a trent'anni!».

È argomento questo che può essere superato; una soluzione può essere trovata in sede di legislazione. Un'idea che mi è venuta ieri sera, pensando a queste poche cose che dovevo dirvi, e che questa mattina ho incontrata anche in qualche autore. Se, per esempio, fosse disposto che un verbale di dibattimento, rigorosamente e diffusamente redatto, raccogliesse tutte le prove dibattimentali, che cosa potrebbe vietare alla Corte di cassazione o ad una sua Sezione, di essere ammessa al riesame del fatto? In presenza cioè e delle prove dibattimentali, compiutamente raccolte, e delle prove istruttorie, essere ammessa a giudicare se anche il monosillabo, il semplice monosillabo che afferma o che nega ha corrisposto e corrisponde alla logica delle prove e alle supreme ragioni del diritto e della giustizia? E questo, non solo in ordine all'affermazione o alla negazione della responsabilità, ma in ordine anche alla più esatta definizione giuridica dei fatti contestati e delle conseguenze che ne possono derivare?

Un'idea che potrà essere elaborata.

L'altro giorno l'onorevole Bettiol diceva: tutte le norme devono essere dettate a garanzia dell'innocenza dell'imputato. È vero, è vero: questa dev'essere la meta. Ma non è men vero che questa meta la giuria popolare non allontana se essa, in fondo, esaudisce un prepotente desiderio di giustizia, ansia indomita da secoli, di tutti gli uomini, di tutte le genti.

[...]

Castiglia. [...] La prima violazione dell'indipendenza della Magistratura è costituita dalla formulazione del quarto capoverso dell'articolo 95, il quale costituisce nello stesso tempo violazione del principio di indipendenza della Magistratura e offesa all'unità della giurisdizione, dato che con esso si dà la possibilità di sottrarre qualsiasi controversia alla Magistratura ordinaria, tranne che in materia penale, la sola per la quale sia sancito il divieto di istituzione di magistrature speciali.

[...]

Consentite, o signori, che mi trattenga ora brevemente sull'ultimo argomento che ha formato oggetto della più appassionata discussione in questa Assemblea: il problema della giuria.

Il collega Avanzini — in fondo — ha argomentato (così come ha argomentato ieri l'onorevole Fausto Gullo) soprattutto su quelli che sono i suoi ricordi personali e professionali.

Ma, o signori, chi di noi avvocati non ricorda di aver vinto una causa che credeva di dover perdere e di aver perduto una causa che credeva di dovere vincere? Chi di noi non si è lamentato, durante la vita professionale, di una sentenza che ha ritenuto ingiusta e quindi ha — vorrei dire — solidificato una sua impressione su questa che ha ritenuto una grande ingiustizia?

Ma, così come vi sono state giurie che hanno assolto innocenti che sembravano raggiunti da prove imponenti, vi sono state giurie (e non vi affliggerò con dei ricordi personali che non hanno poi nessuna importanza), che hanno condannato, senza possibilità di revisione, senza possibilità di appello, degli innocenti a delle pene che vanno fino a trent'anni, che vanno all'ergastolo. Perché noi nel ricordare questi episodi della vita professionale ricordiamo soltanto quelli che fanno comodo alla nostra tesi personale? Quante volte la giuria è caduta in errore, ha giudicato male per influenze o politiche o paesane o di interessi più o meno larvati, confessabili o non confessabili per tutto quel complesso di elementi che formano un ambiente tanto pericoloso nel quadro della giustizia amministrata dal giudice popolare che non può essere serena come deve essere quella amministrata dal giudice togato? Signori, dice il collega Avanzini: siccome il giudice togato sbaglia pure lui e lo dimostra il fatto del gran numero di sentenze in grado di appello, così può sbagliare il giurato. Ma l'errore del giudice togato lo potete correggere, se v'è una Corte di appello che giudichi in secondo grado, ma l'errore del giurato, del giudice non togato, non potete rimediarlo perché non v'è e non vi può essere nessuna possibilità di revisione di fatto, perché l'espediente suggerito dal collega Avanzini, quello di conferire alla Cassazione la potestà di una revisione del fatto, attraverso un verbale di dibattimento che sia completo, non è espediente che possa essere attuato. Nemmeno per sogno! Del resto l'idea non è nuova, perché è stata attuata anche in Inghilterra fin dal 1908 quando si istituì una Corte di revisione che rivedeva i giudicati della giuria. Ma è assurdo e questo ha segnato una grande decadenza dell'istituto della giuria popolare. L'idea suggerita dal collega Avanzini è inattuabile per due ragioni sopratutto: come possiamo affidare alla Cassazione, la quale è una giurisdizione che deve occuparsi esclusivamente delle violazioni di diritto, una giurisdizione di merito, di fatto, snaturando quella che è la natura dell'organo che noi vorremmo investire di questa conoscenza? E poi non vi accorgete che proprio così verreste ad annullare questo principio della sovranità popolare della giuria, conferendo al giudice togato (proprio a quel giudice togato al quale voi vorreste sottrarre la conoscenza dei delitti affidati alla competenza della giuria popolare) questo giudizio di revisione il quale potrebbe naturalmente ritornare sulla decisione del sì o del no della giuria e fare precipitare nel nulla questo principio della sovranità popolare della giuria?

Proprio in questo preteso rimedio si rivela il più forte, il più grosso inconveniente della giuria popolare. Ma poi, signori, non vi sono due ragioni, v'è una serie di ragioni, una quantità enorme di ragioni le quali sono tutte contro il ripristino della giuria popolare. Lasciamo stare tutto il patrimonio di ricordi di ingiustizie più o meno volontarie da parte della giuria popolare.

Ma quando mi si dice, per esempio, come ha fatto l'onorevole Avanzini, che il magistrato togato, appunto per quella routine professionale alla quale è abituato non è più sensibile come dovrebbe essere il giudice non togato, il giudice popolare, io protesto, signori, contro questa affermazione e mi sorprende che venga da un collega che è anche avvocato. Noi viviamo la vita delle nostre corti, dei nostri tribunali, partecipiamo a questa amministrazione della giustizia.

Non mi sono mai accorto che il giudice togato non fosse all'altezza della situazione, non soltanto riguardo alla conoscenza, alla preparazione, ma anche in quanto a sensibilità, a quello scrupolo che si accompagna sempre nello sforzo del giudice che deve giudicare il suo simile. Non posso lasciar passare sotto silenzio una affermazione che lede la dignità della Magistratura. Io devo rendere atto di omaggio — io che non sono magistrato — ai magistrati, a quelli che possono essere considerati nella nostra vita professionale, per certi riguardi, i nostri antagonisti. Io rendo omaggio a questo spirito di serenità che non è affatto insensibile a tutte le esigenze di vita vissuta.

Il giurato — dice il collega Avanzini — non saprà definire in termini giuridici un istituto giuridico, ma lo saprà praticamente applicare.

Vorrei vedere come farebbe il giurato ad applicare, per esempio, quella famosa disposizione dell'articolo 133 del Codice penale, secondo cui la valutazione del reato deve essere, fra le altre cose, desunta dall'intensità del dolo o dal grado della colpa. Vorrei vedere come si può spiegare ad un giudice popolare, ad un complesso di giudici popolari i quali saranno lasciati soli tra loro a decidere, come si potrà fare a spiegar loro e a far applicare, per esempio, il capoverso dell'articolo 56, a proposito della desistenza volontaria, e far definire i confini fra gli atti non punibili della desistenza e il tentativo punibile. Tutto ciò affatica coloro che hanno una preparazione giuridica che si è consolidata attraverso gli anni, come il non tecnico potrà affrontare problemi di questa specie? Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi all'infinito. Diceva ieri l'onorevole Fausto Gullo che Finocchiaro Aprile nel 1905 affermava che i processi di Corte d'assise erano in diminuzione e da parte sua aggiungeva che se è vero che la pena ha una funzione educativa, evidentemente bisogna dedurre che la giuria aveva efficacemente contribuito a questa riduzione giudicando bene.

Oh signori, ma la riduzione di certi reati o l'aumento di essi viene da tali e tante circostanze, viene da molteplici moventi che agiscono in un senso o nell'altro, per cui non si può dire che la diminuzione di processi annunziata cinquanta anni fa da Finocchiaro Aprile dipendesse unicamente dal fatto che la Corte di assise avesse giudicato bene o male, e dir ciò è assolutamente arbitrario. Il punto fondamentale su cui si fondano i sostenitori della giuria popolare, è la necessità della separazione tra il giudizio di fatto e il giudizio di diritto.

Ma, signori, come si fa a distinguere l'esame di fatto dall'esame di diritto se fatto e diritto non sono due entità che possono nettamente separarsi, ma che inevitabilmente si amalgamano e si confondono? Ogni valutazione di fatto importa di necessità una valutazione di diritto. Basti pensare all'articolo 133 del Codice penale già da me citato, o al congegno dell'articolo 62 dello stesso Codice, sulle circostanze attenuanti comuni, e così via. Io non starò a ripetere quello che hanno detto giuristi di chiara fama. Si sono fatti dei nomi qui ai quali potremmo aggiungere quelli di Carrara, Carnelutti, Pessina, Del Giudice, Altavilla, Maraviglia e Jannitti Piromallo, che ha scritto un pregevole opuscolo sulla abolizione delle Corti d'assise, tutti contro l'istituzione della giuria popolare. E vi ricordo le parole di Pessina a proposito di questo argomento, che cioè non è sempre possibile separare la questione di fatto dalla questione di diritto e spesso su problemi giuridici deve sentenziare il giudice popolare. Sono parole sacrosante sulle quali dobbiamo convenire come quelle di Del Giudice: «La distinzione tra fatto e diritto in Corte di assise è artificiosa e non rispondente a verità». Ed allora viene meno uno dei pilastri fondamentali su cui si vuol poggiare l'esigenza della istituzione della giuria popolare.

L'equità. Qualcuno ravvisa la ragion d'essere della giuria popolare nella sua funzione equitativa, come se fosse possibile svincolare il giudizio, sia pure fatto dal giurato, dalle norme fondamentali, e dai principî di diritto. Se la giuria facesse questo, dimostrerebbe di aver fallito la sua missione.

Possiamo parlare di equità come una fonte di diritto autonoma? È assurdo. Violerebbe con ciò il principio della certezza della norma giuridica. Ma se per equità s'intende quel complesso di considerazioni che possono attenuare un giudizio e determinare quella che noi chiamiamo comunemente la benevolenza nei riguardi dell'imputato, la comprensione più umana e benigna di certi fatti delittuosi, in questo il giudice togato, che ha a sua disposizione il rimedio, perché nel giuoco delle diminuenti può benissimo fare entrare quella sua considerazione, può attenuare di molto la responsabilità secondo le particolari condizioni di ambiente, di mentalità, di educazione.

Quante volte noi abbiamo fatto appello a questa equità, a questo senso di benevolenza e di umana comprensione, che non è privilegio del giudice popolare ma anche e soprattutto del giudice togato! Quante volte abbiamo visto sentenze rispondenti a questo criterio di equità, anche se da un punto di vista strettamente giuridico potessero presentare lacune, anche se fossero state superate delle concezioni giuridiche strettamente rigorose! Eppure, questo è stato fatto dai magistrati togati. «Per fare direttamente partecipare il popolo all'amministrazione della giustizia», si è detto.

Signori, in nome del popolo si possono fare e soprattutto dire tante cose; ma se la funzione di amministrare giustizia in regime democratico deriva, come tutti i poteri dello Stato, dalla investitura popolare, che cosa vogliamo di più?

«Il popolo deve direttamente giudicare». Come se il magistrato non fosse il popolo. Solo per il fatto di aver frequentato le Università e superato il concorso si dovrebbe ritenerlo avulso dal popolo come un essere che viva una vita autonoma e diversa da quella della comunità. Anche questa obiezione, consentitemelo, ha un carattere non serio, ma semplicemente demagogico, che deve assolutamente essere bandito.

Le ragioni, viceversa, che militano per l'abolizione, sono molte e sono state tutte esposte. Le influenze politiche vi sono e vi saranno sempre, onorevole Avanzini. Se l'influenza politica è in noi, immaginiamo quella che può essere nel giudice popolare che della sua funzione non fa norma di vita e che non ha acquistato quella sensibilità, quella abitudine a giudicare, quella certa mentalità e quella particolare tendenza a valutare i fatti degli uomini senza lasciarsi fuorviare da considerazioni diverse da quelle che non siano le esigenze di una rigida applicazione della norma giuridica. Pensate voi che cosa potrebbe essere il giudizio nel processo Graziosi, tanto per citarne uno, e in tutti quei processi che appassionano la stampa. Pensate come il clima rovente della passione sia alimentato da certa stampa che attualmente specula sui più bassi istinti dell'uomo. Questa stampa, la quale tenta di orientare l'opinione pubblica in un senso o nell'altro, quanto male fa e potrebbe fare sulle decisioni di una giuria popolare che non fosse corazzata contro questa seduzione, contro questa influenza deleteria! A tutto questo bisogna pensare, specialmente in questo clima di sovvertimento morale, in questa epoca spaventosamente piena di delitti. La stampa può essere orientata in certo modo, per ragioni intuitive. E la giuria popolare può a sua volta essere irresistibilmente influenzata dalla campagna di stampa, nel suo giudizio.

Quindi: pressione e impreparazione. Non soltanto impreparazione giuridica, ma impreparazione in quel complesso di cognizioni, le quali molto spesso sono insufficienti al giudice, che pure ha percorso tutti i gradi della carriera; immaginate se non debba essere insufficiente anche in colui il quale occasionalmente viene chiamato a prestare la sua opera di giudice, e normalmente non possiede il curriculum di studi di un magistrato. Impreparazione in quella particolare capacità di spersonalizzazione, tanto necessaria per riportare ciò che si apprende alla mentalità e alla personalità dell'imputato, sempre diversa da quella di chi giudica.

Mancanza di responsabilità: il «sì» o il «no», puro e semplice, sottrae spesso il giudice popolare al dovere di un processo logico, specialmente quando questo sia complesso e difficile; e spesso la risposta è determinata da impressioni superficiali, da sensazioni errate, o da ragioni indipendenti da una convinzione, formatasi attraverso la raccolta delle prove ed attraverso un procedimento logico non soltanto formale ma anche sostanziale.

Queste sono alcune delle ragioni che militano contro l'istituzione della giuria popolare; problema, questo, che non dovrebbe riguardare nemmeno la Costituzione. Ma poiché v'è un articolo, il quale consacra questo principio, è opportuno proporne, come io ho fatto, la soppressione, per i motivi esposti.

 

PrecedenteSuccessiva

Home

 

 

A cura di Fabrizio Calzaretti