[Il 14 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cassiani. [...] E poi questa tema io la esprimo nel momento stesso in cui chiedo che il principio dell'unicità della giurisdizione abbia valore anche nel senso che si affidi alla competenza del giudice togato l'esame dei reati più gravi, di quelli cioè affidati alla Corte d'assise.

Penso che, a questo proposito, l'articolo 96 del progetto di Costituzione, il quale riguarda l'istituto della giuria, sancisca una norma di dettaglio, una di quelle norme di dettaglio alle quali, come ben diceva l'onorevole Calamandrei, non si può indulgere. Se noi, onorevoli colleghi, vogliamo veramente fare una Costituzione destinata ad accompagnare lo Stato, nel corso, che ci auguriamo non breve, della sua vita, non si comprende veramente l'inserzione in questa Costituzione di una norma che innegabilmente rientra nella competenza del diritto processuale.

C'è dunque, a mio parere, un motivo, per così dire, pregiudiziale, per l'esclusione di una tal norma dalla nostra Costituzione, per la soppressione cioè dell'articolo 96. Ma io penso che vi sia anche un motivo sostanziale, sotto questo riguardo, meritevole della nostra attenzione. Cercherò di illustrarvelo brevemente.

Io ho attentamente seguito i lavori dell'Assemblea a questo proposito ed ho rilevato una strana affermazione dell'onorevole Gullo. Egli ha detto di non aver ascoltato alcun argomento serio a sostegno dell'abolizione della giuria, dell'abolizione cioè dell'articolo 96. Strana cosa, dicevo, perché io che, come ripeto, ho ascoltato con molta attenzione i discorsi dell'Assemblea, ho udito una serie di argomenti innegabilmente seri. Io potrei ritorcere quello che ha detto l'onorevole Gullo, perché potrei dire che egli ha pronunciato un magnifico discorso, ampio, completo, quasi architettonico, ma non ha detto un solo argomento — mi consenta la stessa espressione — serio, a sostegno della giuria; perché è un argomento che somiglia troppo al paravento arabescato, che non nasconde altro che il vuoto, quello usato dall'onorevole Veroni prima e dall'onorevole Gullo dopo, che la democrazia, quando sale, si porta appresso la giuria e quando precipita si porta appresso nel precipizio il giudice popolare.

Io vorrei, invece, anche per soddisfare l'onorevole Gullo, invitare umilmente l'Assemblea a rivolgere innanzitutto il pensiero a due fonti, ugualmente autorevoli, che potranno confortare il nostro giudizio, senza incidere, beninteso, sulla sua autonomia. La prima di queste due fonti è quella delle Assemblee scientifiche. Mi permetto di ricordare l'Assemblea dell'Associazione italiana di diritto penale, dove la maggioranza fu per la Corte criminale, e i precedenti storici della scuola napoletana. Ricordo il congresso del 1923 tenuto in Catania dalla Società italiana per il progresso delle scienze, che si dichiarò apertamente, nettamente contrario al cosiddetto giudice popolare. Ricordo, infine, il Comitato per lo studio delle riforme penali, costituito dall'Istituto italiano di studi legislativi, che ha concluso i suoi lavori pochi mesi fa, dichiarandosi apertamente contrario al giudice popolare e sostenendo l'attribuzione della materia alla competenza del giudice togato.

La seconda fonte sulla quale mi permetto di richiamare l'attenzione dell'Assemblea — e non mi pare una fonte priva di importanza — è il giudizio isolato, ma espressivo di uomini che, nelle aule di Assise, dai giudici popolari hanno avuto verdetti vittoriosi in giornate veramente memorabili della loro vita di avvocati penali. O che torniamo col pensiero ai numi indigeti della Patria nel campo delle scienze, patriarchi del diritto, da Carrara a Pessina, o che volgiamo il pensiero ad espressioni notevoli della scienza moderna, da Garofalo a Ferri, noi troviamo questa avversione decisa, dichiarata anche di uomini che militavano nelle file più avanzate della democrazia. Quando Ferri si dichiarava ostinatamente contro la giuria, direi quasi clamorosamente contro — come era anche nel suo temperamento — egli aveva raggiunto il fastigio non soltanto nel campo della scienza e del foro, ma anche in politica; tant'è che il suo partito gli affidava la massima delle cariche rappresentative: la direzione dell'Avanti! In quel periodo, quando dirigeva l'Avanti!, scrisse appunto: «sarebbe come se io dessi ad aggiustare un orologio al mio calzolaio». E più tardi scriveva: «Quando proposi nel 1879 l'abolizione della giuria, mi si disse che infrangevo i principî democratici; ed io risposi: Che c'entra la democrazia con l'amministrazione della giustizia? Sarebbe come dire che la democrazia deve entrare in una sala di ospedale, dove occorre un medico specializzato».

E Gennaro Marciano chiamava il giudice popolare di Assise: «sistema negatore della giustizia».

E lasciate che accanto ai grandi morti io citi un grande vivo, che siede in quest'aula, Giovanni Porzio. Lo ascolterete di qui a poco. Egli è mancato a questo dibattito, perché impegnato in una grande battaglia di Corte d'assise. Egli vi dirà il suo pensiero, che penso collimi con quello di Marciano: «sistema negatore della giustizia».

Due fonti, delle quali una ha il pregio dell'autorità scientifica e l'altra, evidentemente, ha il pregio innegabile di contenere testimonianze alte e per giunta insospettabili.

Entrambe ci indicano la via da seguire: l'esclusione dell'articolo 96 del progetto di Costituzione.

È certo che si tratta di un problema che per la sua natura non può essere consacrato nella sua soluzione in una Costituzione. Basterebbe osservare che la norma non può che essere affidata al vaglio dell'esperienza. E allora, affidiamola soltanto al Codice comune, per le ragioni ovvie che tanti amici tecnici qui presenti comprendono.

Ma si profila un pericolo grave, onorevoli colleghi, contro il quale penso che gli spiriti liberi non possono non reagire: il pericolo, come accennavo dianzi a proposito del discorso dell'onorevole Gullo, di una malintesa affermazione politica in sede tecnica, arrivando a questo assurdo, a questo paradosso che, diciamo la verità, è nelle mire di alcuni sostenitori della giuria, anche se non espresso: poiché ad abolire la giuria fu il regime fascista, ridiamole noi vita.

A questo punto io vorrei osservare che la giustizia in Italia si amministra col Codice penale che è stato promulgato in periodo fascista, e al quale saranno portati soltanto dei ritocchi.

C'è da aggiungere che quando fu decretata la fine della giuria, i tempi erano innegabilmente maturi per l'abolizione. E si erano maturati quando? Innegabilmente in clima di democrazia. Gli è che l'abolizione della giuria coincise con l'abolizione dello scabinato, forma inconcepibile a mio modo di vedere, forma di giudizio misto copiato dalla Germania.

E per rifarmi ancora ad un discorso autorevole, non fosse altro perché di un ex ministro della giustizia, l'onorevole Gullo, che mi dispiace di non vedere in quest'Aula, rilevo che egli diceva: il magistrato è lontano dal popolo, avulso dalla vita fin dall'alba della sua carriera. Ho scritto le sue parole.

Ma allora, se questo è vero, tutta la materia penale deve essere sottratta al giudice togato. È una materia incandescente, per giudicare la quale occorre talvolta più cuore che cervello. Perché mai affidarla ad un uomo che non sente più le voci che vengono dalla vita, le voci che salgono dalle strade, dalle botteghe, dai campi, dalle officine? Perché a quest'uomo dev'essere data la facoltà di irrogare dodici anni per un delitto di furto, e gli dev'essere tolta per irrogare la pena che deve colpire un omicida?

Gli è che il giudice togato trae la sua origine dal popolo, per lo stesso congegno democratico al quale noi facciamo omaggio, e lasciate che io lo dica, non solo per il diritto che mi proviene dal sedere in quest'Aula, ma anche per aver speso venti anni nell'esercizio dell'avvocatura penale.

Dicono poi alcuni: giustizia regionale. Non comprendo la esigenza per singole regioni di avere un giudice che comprenda i traviamenti, le passioni, le ardenze del popolo ospitato nella regione ove egli giudica. Se l'argomento è valido, esso è esatto e valido non solo per il giudice di Corte d'assise, ma per tutti i giudici: in materia penale, civile, commerciale, perché è innegabile che la vita nel nostro Paese ha delle differenze profonde da regione a regione. La vita giudiziaria della Calabria, della Lucania, della Sicilia, della Sardegna, ha scarsissima identità con la vita giudiziaria della Lombardia. Non c'è nessuno di noi che questo non sappia. Nella Calabria, nella Lucania lontane, delitti di sangue e materia possessoria; in Lombardia, invece, delitti prevalentemente patrimoniali e vita agitata di grosse attività commerciali. Ma con ciò, nessuno mai ha pensato di contrapporre il giudice lucano al giudice lombardo! Ecco perché non comprendo la portata del problema.

Guardiamoci invece intorno: in molti Paesi d'Europa la giuria o si avvia alla soppressione o è stata già soppressa. In Austria, prima dell'annessione alla Germania, nel 1932, si passò dalla giuria allo scabinato; in Francia si è associata la giuria alla Corte d'assise nell'applicazione della pena, annullando così la regola della separazione del fatto dal diritto, che determinava le attribuzioni rispettive della giuria e della Corte. In Inghilterra, il paese classico della giuria, si è ammesso l'appello alla Corte d'appello criminale, formata da giudici togati. E non solo: in Inghilterra è lasciata libertà di scelta, in prima sede, fra il giudice della giuria e il tribunale e, a giudicare dalle voci che a noi giungono dall'Inghilterra — voci anche più qualificate perché ci provengono dal mondo scientifico e dalla stampa scientifica — pare che sia cominciata anche lì la fase di decadenza della giuria e che vi siano segni non dubbi di una estinzione dell'istituto.

Ma non vi pare, onorevoli colleghi, che sia un elemento di incongruenza — perdonate! — il solo fatto di porre il problema nel momento in cui nel campo scientifico, con voce unanime, si chiede la specializzazione del giudice penale nelle scienze ausiliarie del diritto, in medicina legale, in psichiatria, in antropologia criminale?

Allora, qui sta la soluzione del problema.

Io non la indico, perché chiedo semplicemente la soppressione dell'articolo 96. La soluzione sarà quella che sarà. Potrà essere la competenza del tribunale con la costante duplice valutazione di merito attraverso l'appello; potrà essere la competenza della Corte d'assise limitata al delitto politico, come propone il collega Sardiello, proposta alla quale crederei di sottoscrivere se invece non facessi altra proposta; sarà la limitazione della competenza della Corte d'assise alla materia politica e alla materia passionale, cui vuole ricorrere il collega Altavilla. Comprendo poco la proposta, però, e non mi persuade. Comunque, la soluzione sarà l'una o l'altra, ma nel campo della concretezza della giustizia.

Onorevoli colleghi, la Commissione di studio si presenta a noi divisa tra timidi assertori della giuria (per la verità) e tenaci negatori di essa. È un segno di quella che io mi auguro sia la pensosa esitanza dell'Assemblea!

Guardiamo la sostanza al di fuori e al disopra della forma; rendiamoci noi, qui dentro, garanti della giustizia del nostro Paese perché, se è vero che Roma è nata a tutte le missioni della civiltà, è ugualmente vero che è nata a tutte le missioni della saggezza! (Applausi Congratulazioni).

[...]

Porzio. [...] Perché sono contrario ai giurati? Ecco la domanda che mi è stata da più parti rivolta. Potrei semplicemente rispondere: perché tranne poche autorevoli voci è tutto un coro contro la giuria e non soltanto nell'Assemblea, ma fuori e nella scienza, tra i pubblicisti più noti, tra i giuristi più esperti, tra tutti coloro insomma che hanno realmente esperienza dei giudizi penali. Ma questa risposta forse potrebbe essere interpretata come un ossequio mascherato da parte mia. La realtà è che sono stato sempre avversario della istituzione dei giurati. Mi sgorga dal fondo. Sono istintivamente, organicamente contro ogni arbitrio, contro ogni decisione immotivata, contro quel monosillabo netto, incontrollabile, irrevocabile la cui genesi è oscura e qualche volta torbida.

Come volete che si possa essere favorevoli quando la mancanza di motivazione è ciò che toglie ogni pregio al verdetto? Noi viviamo in un'epoca che il nostro antico filosofo, Giambattista Vico, diceva: i tempi umani.

È vero, Giambattista Vico ha scritto dei corsi e ricorsi: andata e ritorno; ed io non so se noi siamo all'andata o al ritorno. Comunque, è certo che in tempi umani nei quali, come il Vico diceva, la ragione spiega tutta se stessa, non possiamo appagarci di verdetti immotivati, incontrollabili e che talvolta rappresentano una pietra sepolcrale sul destino di uomini e di sventurati.

Ma quel che non comprendo in noi, uomini moderni, è questo strano miscuglio: reverenza e sfiducia, esaltazione ed avversione e diffidenza. O si aboliscono i magistrati, ed allora vedremo alla prova questi nuovi giudici. Ma quando i magistrati vi sono, si mantengono, si affidano ad essi interessi cospicui, processure complesse, ardue questioni, allora è inspiegabile e assurdo che dei processi siano ad essi demandati e siano sottratti ad essi degli altri processi per risolvere questioni che richiedono egualmente acume critico, valutazione serena, e soprattutto un corredo di cognizioni e di dottrina.

Del resto, che cosa facciamo ora noi qui? Non cerchiamo forse di conferire alla Magistratura maggior prestigio, maggiore indipendenza, renderla quasi autonoma, sottrarla ad influenze estranee, intimidatrici? Or come si concilia questo col voler introdurre nell'amministrazione della giustizia un giudice popolare? In realtà, il vero fondo del mio pensiero e della mia avversione è questo: detesto il giudizio di Trasimaco: il bene agli amici ed il male ai nemici, il bene ai ricchi ed il male ai poveri, il bene ai potenti e il male ai derelitti ed agli sventurati. Come vedete, il mio pensiero deriva da elevate considerazioni.

Capisco. Qui siamo in un'Assemblea politica. Si dice: la politica, la democrazia impongono degli istituti. E va bene. Democrazia; tutti democratici ora, democratici a destra, democratici a sinistra, democratici al centro. Anche il campanone di Montecitorio è diventato democratico. Ma che c'entra la democrazia, in un problema tecnico, in un problema di capacità? La democrazia non è comizio, non è folla, non sono grida incomposte. È la supremazia dei migliori cittadini, è la possibilità di tutti ad aspirare ai maggiori uffici, alle cariche più elevate, è la umanità nelle leggi, è il sentire più vasto. Ed allora quale democrazia? La democrazia per un verdetto inconsapevole? Per svincolare la giustizia dal potere esecutivo? Ma siete proprio convinti che il giurì possa in determinate occasioni svincolarsi dalle sinistre influenze che possono venire dall'alto o dal basso? Io ho una lunga e ben diversa esperienza e se volete un esempio vado a cercarlo nella vecchia storia. Victor Hugo fu condannato dai giurati e assolto dai magistrati. Napoleone III lo volle condannato, e vi era il giurì. Potrei invocare anche storie recenti.

Guardate: tutta quanta la nostra letteratura e la nostra vera grande tradizione è contro questo istituto. Fui nella mia gioventù profondamente scosso da una grande pagina, non ricordo più se di un pamphlet o di una arringa (non ho qui le carte), di un grande avvocato e di un grande giurista italiano: Giuseppe Ceneri, l'imperterrito difensore di Andrea Costa, della prima Internazionale, alle Assise di Bologna. Ricordo che Giuseppe Ceneri scriveva disperato perché non riusciva, pur torturandosi, a trovare un piccolo motivo di nullità per potere innanzi alla Corte di Cassazione fare annullare un iniquo verdetto che importava la condanna di un vero innocente. È stato in quest'Aula ricordato Shakespeare, mi permetterà l'amico onorevole Persico, che non è presente, che ricordi Shakespeare anch'io: «Non v'è nulla di più atroce e di più sconvolgente quanto l'ingiustizia della giustizia umana». E queste parole divennero l'epigrafe dei motivi di ricorso redatti dall'eminente uomo. E così Pessina, Carrara, ed il suo maestro Carmignani; così in Francia Lacassagne, Tarde; positivisti come Garofalo, Ferri; così gli avvocati più eminenti da Ceneri a Cavaglià, a Spirito, a Girardi, a Manfredi, a Marciano che è stato qui testé ricordato dalla eloquente parola dell'amico Cassiani. È veramente una delle più grandi angosce quella di discutere innanzi ad uomini, anche colti, ma impreparati. È un'angoscia; non parlo delle cause affidate ai Tribunali e alle Corti d'appello, ma parlo di quelle più gravi, demandate alle Corti di assise. V'è o non v'è la prova? Se la prova vi è, è tutta una ricerca di motivi, di moventi, intrinseci, estrinseci, ardue questioni psicologiche, difficili ricerche di psichiatria. Non v'è la prova. Ed allora occorre un acume critico, un senso indagatore, una ricostruzione logica nella quale ricorrono tutti gli elementi necessari per un'indagine compiuta e profonda. È stato ben detto che la critica storica sorse dalla critica forense, cioè i metodi di indagine seguiti per la ricostruzione dei fatti individuali furono seguiti per i fatti collettivi e sociali. Or non è possibile che la scienza riconosca la sufficienza della semplice intuizione e quindi non si offende la libertà quando è la scienza, è l'arte critica le quali giudicano argomenti lontani dalla immediata percezione e che rientrano esclusivamente nel loro assoluto dominio e la scienza non può riconoscere l'istinto e l'opinione comune, che molte volte è l'opinione volgare, come criterio di verità quando è così facile irridere e deridere quelli che sono i più complessi risultati dell'indagine scientifica.

Voi mi volete dire che questo capita talvolta anche coi magistrati. Non nego, ed è perciò che si richiede una Magistratura più elevata, più colta, più indipendente, meglio retribuita. E poi, sentite: non ho il piacere di essere conosciuto da molti di voi, ma io non sono mai stato né un adulatore, né un reticente nell'esprimere liberamente le mie opinioni.

Ma lasciatemi dire, che dopo il giudizio del primo magistrato v'è l'appello, v'è la motivazione della sentenza, v'è il ricorso in Cassazione. Come vedete vi sono dei rimedi che viceversa il cieco ed inappellabile monosillabo non consente.

I più grandi sostenitori — e negli atti parlamentari potrete facilmente trovarne i discorsi — furono parlamentari insigni e memorabili i loro discorsi. Stanislao Mancini ebbe parole di alta eloquenza, come Giuseppe Pisanelli, a proposito dei giurati. Anzi, Pisanelli, insigne giurista che in Piemonte stette esule, fu proprio dal Conte di Cavour incaricato di studiare la riforma giudiziaria e scrisse un libro pregevole sui giurati; volume che gelosamente serbavo ma che è andato sventuratamente travolto tra le macerie della guerra. Non importa; però ricordo che Pisanelli fu come fermato dallo sgomento innanzi a un tormentoso quesito, cioè al verdetto immotivato. Egli non concepiva sentenze senza motivazione, ed aveva perfettamente ragione. Son proprio sue parole (che più o meno ricordo): la motivazione è il freno del giudice, è la garanzia dell'imputato, è quella che affida alla storia il modo di documentare la civiltà di un paese. E l'illustre uomo non seppe suggerire un provvedimento qualsiasi per salvaguardare la dignità del verdetto, il diritto delle parti e quello della società la quale reclama di conoscere le ragioni per le quali un uomo è assolto o condannato.

Ma io vorrei dire ai sostenitori della istituzione dei giurati i quali credono che il giurì rappresenti la quintessenza della democrazia, questo: quando si procede alla scelta di coloro che debbono essere giurati, mi pare che la democrazia se ne va. Non mi parlate della libera Inghilterra. Tutti sappiamo che fin da 900 anni v'è il giurì in Inghilterra. Ivi nacque l'istituto. Però il giurì nacque nella contea, e si sceglievano i cittadini esperti in materia legale, che avessero speciali cognizioni giuridiche: proprio quella scelta, quelle categorie che tolgono il carattere di specifica democrazia alla istituzione. Per trovare veramente il giudizio popolare, bisogna risalire al mondo greco-romano, al Demos, legislatore e giudice, al Foro romano. Sicché, dall'Inghilterra, dallo statuto di Clarendon, alla Francia; e poi a Mancini, a Pisanelli, a Pessina, non avete che la scelta, la categoria. Il principio democratico quindi è più che scosso e annullato.

Cosa sostituire?

Io penso che allo stato delle cose dovremmo per necessità sospendere l'articolo e rinviare la discussione in sede legislativa. Quella è la sede opportuna. Occorre armonizzare il giurì e gli altri istituti giuridici. Bisogna coordinare il giudizio di Corte d'assise con quella che un tempo si chiamò sezione d'accusa e che oggi si chiama sezione istruttoria; provvedere alla facoltà dell'appello, del ricorso in cassazione: insomma presentare un insieme organico che conferisca valore, efficacia, prestigio all'amministrazione della giustizia.

[...]

Come vedete, onorevoli colleghi, non mi spinge nessuna gretta ragione, ma il proposito di assicurare al nostro Paese una giustizia illuminata, consapevole e degna. Io mi ribello allo strano privilegio che è quello di vedere attribuito un potere a coloro che non hanno tutte le capacità per esercitarlo. È il peggiore dei privilegi, il più odioso. Ho un elevato concetto della giustizia; essa è l'unica, la sola difesa contro l'atroce esperienza della vita: il dolore, è la fonte da cui derivano rivendicazioni e conquiste umane. E siccome io ho sentito in quest'Aula citare tanti salmi dell'antica Roma, consentite che io concluda ripetendo con Plinio: «Tanto durerà la Repubblica, quanto dura il costume di rendere imparzialmente un'illuminata giustizia». (Vivi applausi Molte congratulazioni).

[...]

Mancini. [...] In questo Titolo il popolo non è mai menzionato, salvo allorché si tratta delle pronunce delle sentenze e dell'articolo 96, concernente la giuria. Il popolo partecipa direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria nei processi di Corte di assise.

Ecco, signori, il fondamento della giuria. Ecco come la giuria diventa la espressione della coscienza e del sentimento popolare. Il popolo esercita direttamente il suo potere giudiziario, o meglio la sua funzione giurisdizionale nell'apprezzamento limitato ad alcuni fatti delittuosi, alla stregua della sua coscienza e dei suoi sentimenti.

[...]

E passiamo alla giuria.

La giuria è il tema scottante preferito dagli accaniti ed implacabili nemici di essa. In alcuni di questi valorosi avversari sembra che ci sia un fatto personale, tale la violenza dell'attacco.

Il mio eloquente amico Giovanni Porzio, signore incontrastato della Corte d'assise, ne ha dato inconfutabile prova qualche ora fa, unendo la sua maestria alla parola tornita di Gennaro Cassiani.

Io dichiaro subito, senza riserve, anche a nome del Gruppo parlamentare socialista, che sono favorevole alla giuria. Le sono sempre rimasto fedele, anche quando contro di essa imperversava la raffica impetuosa del fascismo.

L'Italia è il paese dei convertiti. Non per nulla il capolavoro della letteratura italiana (parlo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni) esalta le conversioni. Quanta gente si è convertita, solo perché dall'alto arrivava la parola d'ordine di morte alla giuria! Io mi sono divertito nel mio isolamento ventennale a raccogliere tutti gli articoli di coloro che sui giornali quotidiani e nelle riviste giuridiche o di eloquenza mutavano la loro esaltazione di ieri nella irreducibile repulsione dell'oggi. Qualche cattedratico non sfuggirebbe alla vergogna della facile e cortigiana conversione. In ogni modo la istituzione della giuria io non voglio esaminarla — come han fatto i due valorosi, che mi han preceduto, schierandosi sulla sponda avversa — delegando il mio pensiero alle delibere e agli ordini del giorno dei congressi o al parere — pur rispettabile — di tanti scrittori.

I ricordi del passato hanno la loro importanza, ma il pensiero, che si evolve e si adegua alla realtà storica sociale e politica, ha un'istanza privilegiata e suggestiva.

Rompo la consegna e ricorro alle citazioni pure io. Eccone poche, ma buone, e non tocche. Un uomo politico, il più grande uomo politico che abbia avuto l'Italia, Camillo Benso di Cavour, volle che la giuria fosse istituita nel Piemonte. E fu lui, Camillo Benso di Cavour, a volere la giuria in contrasto con quel suo Ministro, ricordato dall'onorevole Porzio.

Volete altro esempio, grande nella filosofia come l'altro era nella politica? Antonio Labriola, il quale nel 1904-905, all'Università di Roma, nel suo corso di filosofia morale, affermò che il fondamento del diritto di punire è nella coscienza del popolo, perché soltanto il popolo ha il diritto di giudicare.

E ne volete un altro: il più grande ancora nella scienza del giure? Francesco Carrara. Io mi sorprendo assai che un giovane magistrato abbia ricordato Francesco Carrara come un oppositore della giuria. Aprite, o signori (ma voi li avete aperti e li conoscete), gli opuscoli e leggerete la prolusione all'Università di Pisa nel 1876. In essa Francesco Carrara, davvero il patriarca del diritto e della psicologia giudiziaria, esalta la giuria.

Io vi rammenterò soltanto la fine di quella prolusione. Egli scrive: «per le vie di Parigi si avanzava un individuo con un cadavere sulle spalle che doveva lanciare nella Senna. Egli gridava passo per passo: passa la giustizia del re. Aristarchi, con la giuria, gridiamo: passa la giustizia del popolo. Inchinatevi!» Le parole di Francesco Carrara rivivono pur oggi nel pensiero e nella coscienza di coloro che parlano il nostro linguaggio senza prevenzioni, senza preconcetti di natura politica, e senza sofisticherie curialesche.

Intanto ho un'altra citazione da fare. Mittermayer, nella Teoria delle prove, scrive dieci pagine mirabili che, se io avessi l'abitudine di leggere, avrei dovuto leggere per farle assaporare a tutti i palati compromessi dall'odio contro la giuria.

Esaurita la mobilitazione delle grandi ombre, torno a me stesso. Ebbene, vi dico, onorevoli colleghi, — irridendo alla demagogia avversaria ed a tutte le volgarità, di cui ogni avvocato ha creduto di farsi una specialità — io sono per la giuria per le seguenti ragioni: per ragioni tradizionali; per ragioni politiche; per ragioni tecniche; per ragioni empiriche.

Per ragioni tradizionali. In una Assemblea così colta come l'Assemblea Costituente italiana, dinanzi alla quale ho l'onore di parlare in questo momento, ho sentito ancora ripetere un luogo comune, cioè che la giuria è un'importazione inglese. No, signori! Importiamo dall'Inghilterra le stoffe e le derrate; ma non istituzioni giuridiche. L'Italia ha sempre esportato simili prodotti. Nell'Inghilterra libera, nel secolo tredicesimo, si insorse contro i «giudizi di Dio». La giuria fu l'antitesi. La giustizia del popolo fu mutuata dalla rivoluzione francese, Costituzione 1790-91, e venne propagandata in tutte le repubbliche da essa fondate.

In Italia, aprite la Storia del Diritto Italiano di Francesco Schupfer e troverete: che esistevano fin dal dodicesimo secolo i giudici popolari, che si appellavano giudici dell'uso, laici, giurati, probiviri, consules, e così via. Bononia docet. A Bologna difatti troviamo uno Statuto del secolo dodicesimo — anno 1250 — in cui venne rafforzato l'istituto del giudice popolare. E si rafforzò per il prevalere del diritto romano sul diritto barbarico. Roma — ha ben detto, onorevole Porzio — ebbe un'inesauribile fonte del suo diritto: la coscienza del popolo, con il suo organo: il pretore, con il suo cui bono che Caio quaerere solebat. È vero — onorevole Porzio — Roma e Sparta ebbero in certi momenti della loro grande vita sociale l'esaltazione dell'elemento popolare. Il quale, in ogni tempo ed in ogni latitudine, con l'infallibilità dell'istinto, ha superato la fallacia della razionalità. Voce di popolo, voce di Dio. Nella cronaca e nella storia, onorevoli colleghi, ho ben altra citazione da rammentarvi. Le parole del Presidente della Repubblica Cisalpina, che salutano la giuria:

«La istituzione dei giurati è quanto di più ingegnoso abbia prodotto l'amore fraterno; in esso campeggia tutta la sua anima, affannosa di trovare innocente l'imputato e di somministrargli tutti i mezzi per potersi giustificare».

Mai fu trovato mezzo tanto ingegnoso per dimostrare l'amore fraterno, perché la giustizia è un ordo amoris, non è ordo odii; perché la giustizia non è soltanto dura lex, ma indulgenza nel castigo, se si vuole che la pena sia davvero un atto il profilassi sociale.

E mi sorprende come da quella parte dell'Assemblea, dove la democrazia è qualificata dall'aggettivo «cristiana», vi sia stata una parola garbata, come quella dell'onorevole Cassiani, che abbia dimenticato che Cristo lanciò dalle rive del Giordano una parola alle folle assetate di giustizia:

«Non giudicate, ma, se giudicate, giudicate secondo il cuore vostro, che è il cuore del popolo».

La voce di Cristo l'ha ascoltata soltanto un uomo come La Pira, anima armoniosa di bene; onde il suo voto si è unito ai nostri a favore della istituzione della giuria popolare. Ecco la tradizione italica.

La ragione politica. Non ripeterò ciò che hanno detto gli oratori che mi hanno preceduto, cioè che la giuria è legata alla libertà ed alla democrazia. L'onorevole Veroni e l'onorevole Gullo Fausto hanno eloquentemente svolto questo concetto. Io mi limiterò a ricordare a tutti le parole che il Ministro Rocco scrisse, nella relazione alla sua legge, cioè quella ibrida istituzione dello scabinato, che sostituì la giuria:

«La rivoluzione fascista, che ha rivelato i danni ed i pericoli del democraticismo anche nel campo del costume e degli istituti giudiziari, doveva necessariamente procedere ad una sostanziale riforma dell'istituto della giuria».

Signori, io sono col democraticismo e non col fascismo. Se non altro per questo si dovrebbero calmare gli ardori più o meno antidemocratici contro la giuria. Il fascismo fu meno accanito di Porzio. Il fascismo consentì almeno che l'elemento laico partecipasse al giudizio delle Corte di assise.

Ho ascoltato in questo «sacro furore» antipopolare degli argomenti assai strani: «Io sono contrario al «sì» e al «no», perché il «sì» e il «no» partono da una coscienza, la cui genesi è torbida».

Ma, signori. E noi siamo democratici? Se la democrazia è quella che ha definito l'onorevole Porzio, egli può dirsi democratico. La democrazia nostra è ben diversa, è forma e sostanza di classe dirigente. Ammettendo la giuria, noi celebriamo e rendiamo omaggio alla coscienza del popolo. È il popolo sovrano che interviene nel giudizio, è il popolo che pronunzia il suo verdetto, come il coro nella tragedia greca.

Avvocati di Corte di assise parlano con una prevenzione che offusca il loro giudizio; parlano con tanto astio da farmi sospettare un fondo inconfessato di livore politico.

Io mi permetto di richiamarli alla serenità. Valutino la giuria per sé, senza passione di parte. Alcuni hanno invocato il tecnicismo giuridico, tanto più necessario quanto più gravi sono le ipotesi criminose. Il tecnicismo giuridico è salvo. Il giurato ha il monopolio giurisdizionale del fatto. Quello del diritto è lasciato al magistrato, che applica la pena. Ed è giusto che sia così, perché nei giudizi di Corte di assise, che dovrebbero essere limitati soltanto ad alcuni reati, è la giuria che può dare quel contributo psicologico ed etico per ottenere quelle valutazioni in ordine al fatto, dedotto in giudizio ed alla personalità dell'imputato, consone il più possibile all'opinione ed al sentimento del popolo entro i limiti della legge. La giustizia è fatta per il popolo. Si è parlato di errori e di eccessi della giuria. Ebbene, pur esistendo, non discreditano il principio, ma le modalità.

La partecipazione del popolo al giudizio penale è — al disopra della democrazia — un principio giusto e vero, perché nel magistero penale si riflette direttamente la coscienza popolare. Si tratta di disciplinare il principio in modo da dare il massimo dei vantaggi ed il minimo dei danni — e ciò si vedrà in appresso — ma nella Costituzione il principio dovrà essere affermato. Ma, onorevoli colleghi, non esiste un istituto giuridico perfetto, e gli errori sono degli uomini. Ora io, se potessi confrontare gli errori dei magistrati con quelli dei giurati, credo che il vantaggio sarebbe nettamente per i giurati. Finiamola con questa retorica. Io voglio ricordare l'ultima fatica di Gennaro Escobedo. Dalle assise di Cagliari era stato assoluto un imputato. Il presidente della Corte, al quale dai giudici laici si era fatta maggioranza, redige una sentenza motivata non alla stregua dell'assoluzione, ma alla stregua della condanna. Insorse la coscienza intemerata di Gennaro Escobedo, chiamando a raccolta tutti i cattedratici e gli esperti italiani. Vi avrei voluto leggere le parole di Enrico De Nicola a proposito di questo falso ideologico, che vi dice come e quanto sia pericoloso affidarsi nei giudizi di assise al magistrato togato, che l'abitudine nel giudicare rende spesso semplicista ed inerte.

Voi, onorevoli colleghi schierati contro la giuria, non fate altro che lanciare blasfemi contro il popolo. Non vi accorgete che indirettamente date una patente di incapacità a quel popolo, che ha dato all'Italia l'onore e la libertà, che ha saputo giudicare il crimine fascista ed il crimine monarchico. Ora un popolo, che ha tale maturità etica politica, ha tutto il diritto di partecipare direttamente all'amministrazione della giustizia nel suo Paese.

Il popolo di oggi, onorevole Porzio, non è il popolo di ieri, il popolo dei suoi verdi anni professionali, così vittoriosi.

Lasciamo da parte il dogmatismo della motivazione e pensiamo che la più vera e più sentita motivazione è quella che detta la propria coscienza ed il proprio sentimento; poiché la legge non è altro che la espressione codificata della coscienza popolare in un momento storico.

Ho ancora qualche cosa da dire: presentarvi i risultati della mia esperienza.

Capisco che voi potreste pensare, se non dire — illustri come siete — che l'esperienza di un modesto avvocato di provincia lascia il tempo che trova; io posso obiettarvi però, e non pecco d'immodestia perché chi mi conosce sa che non dico cosa inesatta, che in questa Assemblea non vi è alcuno che mi superi per intensità di lavoro in Corte d'assise. Ho avuto delle vittorie e delle sconfitte, forse più le prime; ma ho sempre notato nell'intimità della mia coscienza, che alla base di certi verdetti che mi sorpresero e mi parvero aberranti, vi era un fondo di buon senso, che la passione difensiva mi aveva fatto sfuggire e che il pubblico all'unisono con la giuria aveva colto ed apprezzato.

Ed io chiedo ancora alla mia esperienza ben altri argomenti, che superano tutte le volgari censure che si scrissero in tempo fascista, e che sono state ripetute in questa Assemblea, non esclusa la accusa di possibili influenze, o di sotterranee vie per giungere alla coscienza del giurato.

Nella attuale costituzione della Corte di assise l'elemento laico — i così detti assessori — hanno con le loro maggioranze, formatesi spontaneamente per l'uniformità del sentimento, portato un correttivo al Codice penale mussoliniano, che pur troppo ancora vige.

Quell'articolo 90, cioè, quei tali stati emotivi, che non escludono e non diminuiscono l'imputabilità, i giudici laici non l'hanno mai voluto applicare; perché han sentito nella propria coscienza popolare tutta l'assurdità morale, che costituisce per la scienza un'aberrazione. E la Corte ha mai applicato l'ultimo capoverso dell'articolo 40, per cui non avere impedito un fatto quando si aveva l'obbligo giuridico di impedirlo, equivale a cagionarlo? Era la coscienza popolare, che si ribellava all'assurdo etico giuridico.

E c'è ancora un'altra eresia condannata dagli assessori: quell'articolo 116, per cui il concorrente risponde di un reato diverso da quello voluto.

L'elemento popolare, pure ostacolato e spesso arditamente dall'elemento tecnico, con la sua formulazione giudiziaria ha creato il diritto. La compatibilità delle due attenuanti dei motivi morali e della provocazione fu prima proclamata dai giudici popolari, in contrasto con i togati, e poi sapientemente ratificata dal Supremo Collegio.

Diciamolo onestamente senza farci trasportare da facili encomi; chi trovammo in Corte d'assise vicino a noi nel cuore, nella espressione, nel pensiero giuridico? Furono i magistrati togati che rispondevano: Dura lex sed lex, o i giudici del popolo, che la legge interpretavano con la razionalità del loro sentimento?

E fummo noi, quando cercammo di strappare alla ritorta crudele dell'ergastolo un disgraziato, che gridammo: «Sì, c'è la premeditazione, ma nell'animo di costui avvamparono motivi, e premettero impulsi che debbono essere apprezzati».

E chi li apprezzò? Il deriso assessore, il quale concesse la provocazione, che indi la Cassazione riconobbe compatibile con la premeditazione.

Le intuizioni del popolo.

Signori, la giuria reclama un altro merito: ha creato quella squisita forma di arte che è l'eloquenza forense. Soltanto la giuria nelle aule d'assise e non le fredde aule giudiziarie, dove il parlare è vano, ha creato questa forma di arte tipicamente italiana, e particolarmente meridionale. Ed oggi che a Capo dello Stato io vedo il più elegante ed il più limpido oratore forense; oggi che in questa Assemblea, su tutti i settori, non escluso il banco della Commissione, siedono coloro che dalle Corti di assise, auspice la giuria, ebbero a ripetere onori, successi ed agiatezza, si ascolta il coro ingrato dei convertiti che vogliono disconoscere il loro passato e stroncare l'avvenire dell'oratoria italiana. Un grande scrittore, dal quale possiamo dissentire per il contenuto della sua arte, del suo atteggiamento politico, aveva sentito magnificare l'oratoria di Genuzio Bentini, a cui mi è grato mandare da questo stallo, che fu da lui onorato, un pensiero memore e commosso, di Genuzio Bentini, ingiustamente trascurato dal primo Congresso nazionale forense. Volle andare a sentirlo: si mescolò nella folla ignorato da tutti, e palese soltanto a pochi. Ascoltò Bentini che difendeva una fanciulla di alto lignaggio, vittima delle violenze del suo autista e madre snaturata.

Gabriele d'Annunzio si tenne silenzioso ed attento; indi fu domandato. Rispose: ascoltandolo mi è parso di vivere nell'età di Pericle.

Signori, questo episodio venga per lo meno a molcere i vostri animi accesi d'ingiustificato furore.

Giovanni Porzio, che ha tenuto con insuperabile eloquenza e prestigio la sbarra della Corte d'assise di Napoli; che ancora risuona della grande eloquenza di Nicola Amore, viene oggi a gridare il crucifige contro la giuria. Io non so se tu sei nell'aula, o mio illustre amico, ma io voglio dirti: non ti accorgi che tu gridi il crucifige contro tutta l'eloquenza meridionale, contro il tuo passato?

Io non voglio essere così intransigente. Gli oppositori hanno ragione soltanto quando lamentano l'assenza di un Collegio di seconde cure. È necessario il riesame del processo. Ed è per questo che noi siamo favorevoli alle Cassazioni penali regionali.

Cassazione civile unica. Cassazioni penali multiple. Nella disputa antica fra i due sistemi ho trovato soltanto un argomento: che la Cassazione unica di Roma rappresentava l'uniformità interpretativa delle leggi. Purtroppo, la giurisprudenza penale colà muta col mutare di sezione, ed allora perché la Cassazione unica penale?

La necessità della Cassazione regionale — ripeto — cui dobbiamo dare la potestà di rivedere anche nel merito i verdetti della giuria, si impone anche perché la caratteristica locale le dà la possibilità di giudizi adeguati alle caratteristiche del popolo.

Il diritto, signori, non è qualche cosa di immutabile, di astratto. Il diritto e le leggi che si interpretano e si applicano devono tener presenti le costumanze, l'ambiente, i sentimenti, i coefficienti etnici di un popolo, se si vuole davvero adeguare il castigo al delitto e la rivalsa al danno.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti