[Il 7 giugno 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Grieco. [...] Noi abbiamo avuto l'occhio fisso a questi obiettivi nel corso della prima parte delle discussioni sui diritti. Tanto più, mi pare, non dobbiamo distogliere il nostro sguardo da questi obiettivi entrando nel campo dell'ordinamento dello Stato e, quindi, affrontando il tema della creazione dell'Ente Regione. Da quello che ho detto risulta evidente che noi non abbiamo nessuna posizione preconcetta, né contro la creazione della Regione, né a favore di essa. Noi insomma non abbiamo un mito regionale da coltivare, né abbiamo del resto la fobia delle innovazioni, se queste innovazioni sono necessarie. Per noi questa questione non è questione di principio. Però ci sono delle questioni di principio anche in questo campo. È una questione di principio quella che mosse noi a sostenere, e non da oggi e non solo negli ultimi anni, un regime regionale particolare per la Sicilia e la Sardegna. I motivi di questa nostra posizione vanno al di là delle circostanze venutesi a creare in Italia e nelle due Isole dopo la grande sciagura che ha colpito il nostro Paese. Ciò che è accaduto era prevedibile e noi l'avevamo previsto. Era del tutto prevedibile che nel momento in cui il Paese fosse caduto in un collasso grave, il movimento autonomistico sarebbe riaffiorato alla superficie nelle due Isole e specialmente in Sicilia. Non si tratta di un caso. Ci stupisce che uomini di valore, appartenuti alla vecchia classe dirigente, si siano meravigliati del movimento sorto dopo la guerra in Sicilia. Eppure vi era e vi è tutta una letteratura politica e romantica, nell'ultimo secolo, per non parlare della storia anteriore, per esempio, della Sicilia, la quale ha fatto conoscere agli italiani, agli uomini politici, agli intellettuali ed anche agli uomini della strada il dramma delle popolazioni siciliane.

D'altra parte vi è un secolo di lotte sociali in Sicilia, che hanno posto con forza, in un modo o nell'altro, il problema del profondo rinnovamento della vita siciliana. Ed ogni volta che si è aperta una grave crisi politica nella società italiana, come nell'ultimo decennio del secolo scorso, come dopo l'altra guerra, come dopo la catastrofe recente, le spinte autonomistiche si sono manifestate in Sicilia in modo chiaro ed evidente. Qualche volta di questo malessere siciliano hanno approfittato le classi reazionarie dirigenti isolane per innestarvi tendenze separatiste; ma l'autonomismo fu sempre democratico e ricordo che esso penetrò nel primo decennio di questo secolo anche nel partito socialista, il quale in Sicilia subì precisamente una crisi autonomistica, ed una scissione, a capo della quale erano uomini come De Felice ed altri, movimento che in fondo era un movimento sicilianista, sociale e democratico. Credo che se il partito socialista del tempo avesse studiato a fondo la questione siciliana, avrebbe evitato quella scissione e si sarebbe arricchito nello stesso tempo di nuove capacità di espansione fra gli strati popolari dell'Isola.

Per la Sardegna il movimento autonomistico si è organizzato come movimento di massa in un'epoca più recente, ma anche esso, come in Sicilia, è sorto come una protesta contro la trascuratezza colpevole dello Stato verso le popolazioni isolane e verso i problemi dell'isola.

Noi, comunque, abbiamo riconosciuto che la concessione di statuti speciali alle due Isole era ed è un atto di riparazione dell'Italia verso di esse; e siamo certi che se le popolazioni della Sicilia e della Sardegna sapranno adoperare l'autonomia regionale come mezzo complementare e diretto per accelerare i tempi della loro rinascita, l'autonomia avrà come conseguenza il rafforzamento dell'unità che sta tanto a cuore a noi, quanto ai siciliani ed ai sardi.

Il movimento autonomistico della Val d'Aosta è effettivamente la conseguenza del fascismo e della guerra fascista. Quella stupida politica del fascismo che ha tanto contribuito a dividere gli italiani, ha anche inasprito, colla sua azione, la minoranza valdostana, colla quale avevamo sempre avuto eccellenti rapporti. Ecco perché i valdostani hanno chiesto, ad un certo momento, alla nuova Italia democratica, particolari garanzie costituzionali ed anche un particolare regime autonomistico. Noi abbiamo riconosciuto lo statuto particolare per la Val d'Aosta e resteremo fedeli all'impegno assunto.

Siamo certi che i Valdostani difenderanno la libertà loro concessa dalla nuova democrazia italiana, per rafforzare i vincoli di fratellanza col popolo italiano, del quale essi sono una parte, e per ricostruire con noi l'Italia e consolidare insieme a noi la Repubblica democratica italiana.

Diversa e particolare è la situazione dell'Alto Adige. Anche qui il fascismo ha condotto una stupida politica di repressione, di snazionalizzazione e di offesa al sentimento nazionale del popolo alto-atesino che era entrato a far parte del nostro Stato dopo la guerra del 1915-18. La democrazia italiana di allora — riconosciamolo — non seppe o non fece a tempo a fondere queste popolazioni col popolo italiano. In fondo, quelle popolazioni si sono sempre sentite spiritualmente come il distaccamento di una collettività nazionale esterna. Tanto che, quando Mussolini, iniziando l'opera di tradimento degli interessi nazionali, ammise, per servire Hitler, l'esistenza di un problema dell'Alto Adige, ed accettò di risolverlo, secondo il volere di Hitler, col sistema dell'opzione, moltissimi furono gli alto-atesini che optarono per la nazionalità germanica, sebbene parecchi, dopo aver optato, restassero nell'Alto Adige a fare i loro affari ed anche talora a preparare le condizioni per l'occupazione hitleriana del territorio, al momento opportuno.

Il modo come la guerra recente si è svolta e conclusa ha imposto la soluzione che conosciamo al problema della nostra frontiera settentrionale. Noi avevamo il diritto di rivendicare il mantenimento della nostra frontiera del Brennero, perché, ancora una volta nella nostra storia, l'invasione dell'Italia fu tedesca, venne dal Nord, sia pure favorita dal tradimento fascista, che aprì le porte all'invasore. Ma si è verificato un altro fatto, del quale non potevamo non tener conto. Ed è che nel corso delle lotte recenti del popolo italiano contro gli invasori tedeschi e i traditori fascisti loro complici, l'Austria è rimasta al fianco della Germania, ha combattuto fino all'ultimo sotto le insegne naziste ed i suoi soldati sono venuti in Italia a battersi contro i patrioti, i partigiani, i soldati dell'Armata Italiana di liberazione. Non abbiamo visto sorgere in Austria un movimento di massa antinazista, che abbia condotto una lotta armata di liberazione contro i nazisti germanici ed austriaci. Dovevamo, dunque, premunirci per l'avvenire e la nostra richiesta del mantenimento della frontiera settentrionale al Brennero è stata assolutamente giusta, dal punto di vista degli interessi nazionali e statali italiani.

Ma è chiaro che il nostro atteggiamento verso le popolazioni alto-atesine deve essere oggi assolutamente diverso da quello che è stato nel passato. Il governo italiano concluse con il governo austriaco un accordo, nel settembre 1946, relativo al regime ed alle libertà che l'Italia riconosce e si impegna di osservare nell'Alto Adige.

Ritengo che la Repubblica Italiana avrebbe avuto coscienza dei suoi doveri, in questa parte del suo territorio, pur senza lo stimolo, non necessario, e forse anche pericoloso, di un accordo internazionale. La questione della sistemazione regionale da dare a questa regione è allo studio ed io non mi pronuncerò su di essa in questo momento. Ci auguriamo vivamente che le popolazioni di lingua tedesca e sopratutto le popolazioni lavoratrici comprendano l'interesse di edificare assieme a noi in Italia una democrazia solida e veramente popolare, la quale garantisca loro tutte le libertà alle quali hanno diritto, e ci aiutino nell'opera di democratizzazione della Regione altoatesina, la cui situazione, dal punto di vista politico, non è ancora esente dal destare preoccupazioni nei democratici italiani ed europei.

Una rivendicazione regionale si affacciò già nella seconda Sottocommissione e poi nella Commissione dei settantacinque, e fu quella volta a creare una Regione friulana, ma non una Regione speciale. Noi fummo dapprima contrari alla costituzione di questa Regione, data la nostra posizione avversa in generale alla creazione di piccole Regioni. Ma fummo battuti. Nella Commissione dei settantacinque fu l'onorevole Fabbri, se non erro, che propose la creazione di una regione Friuli-Venezia Giulia, con l'aggregazione al Friuli della parte della Venezia Giulia che i trattati lasciano all'Italia. Noi accedemmo a questo punto di vista. La proposta fu approvata con riserva di esaminare ulteriormente se ad una tale regione dovesse essere accordato o meno un regime speciale. Io non mi addentrerò in questa questione, ora.

Se, come ho ricordato, tutte le autonomie speciali hanno una loro origine particolare, dovremo vedere se anche in questa parte del territorio nazionale italiano non vi siano, come io credo, motivi particolari che consigliano uno speciale regime regionale già da noi ammesso per altre regioni a minoranza linguistica o mistilingui.

In questa Assemblea si sono levate delle voci anche autorevoli contro le posizioni speciali, dette «di privilegio», che la nostra Costituzione assegnerebbe ad alcune parti della popolazione italiana, attraverso speciali statuti regionali. Si è detto anche che questa sarebbe una ingiustizia verso le altre parti della popolazione, escluse da un analogo trattamento.

Debbo riconoscere che nessun collega, nemmeno l'onorevole Rubilli, antiregionalista integrale, neppure lui ha proposto di sopprimere le autonomie speciali. Contrariamente all'opinione espressa da alcuni colleghi ritengo, per i motivi esposti, che un regime regionale egualitario sarebbe un errore; vorrebbe dire negare i motivi che ci hanno portato a concedere le autonomie speciali e sarebbe una ingiustizia verso le popolazioni interessate.

Riconosco che dobbiamo rivedere con attenzione alcuni punti di questi Statuti. Non ci è consentito di trascurare alcune acute osservazioni, che sono state fatte da vari colleghi qui, per quanto riguarda, ad esempio, lo Statuto siciliano e lo Statuto della Val d'Aosta.

In sede di coordinamento degli statuti speciali con la Costituzione della Repubblica, dovremo tener presente la preoccupazione di tutelare in ogni campo il principio inderogabile dell'unità dello Stato. Dico questo a quegli oppositori degli statuti speciali, che non si limitano a criticare, come sarebbe loro dovere, gli errori e certe esagerazioni contenuti in questi statuti, ma sostengono che i regimi delle regioni speciali costituirebbero un pericolo per l'unità dello Stato. Secondo me simile preoccupazione è infondata. Chi ha una simile preoccupazione dimentica che abbiamo concesso questi statuti precisamente per far argine a certe deplorevoli tendenze centrifughe e per rinsaldare l'unità dello Stato. E ciò compresero anche gli avversari decisi di ogni forma di autonomie regionali. Non è vero che sempre ed in ogni caso un ordinamento regionale rappresenti un pericolo per l'unità statale. Tutto sta a vedere quando questo pericolo esiste, quando un regime particolare è, invece, condizione dell'unità dello Stato.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti