[Il 29 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cifaldi. [...] Si è detto che in questo modo il popolo avrebbe potuto fare un confronto, per vedere il sistema migliore. Ora, ciò rappresenta un attentato all'unità della Patria. Ma, onorevoli colleghi, si potrebbe dire che questa è una interpretazione di quello che può essere il pensiero di un deputato, autorevole per quanto si voglia, ma isolato. Però, onorevoli colleghi, guardando all'essenza effettiva delle cose, ieri l'onorevole Einaudi diceva che tutta l'Assemblea avrebbe dovuto riformare lo Statuto siciliano, tornando sui passi già compiuti, togliere alla Sicilia quello che la Sicilia considera una delle sue più forti conquiste, vale a dire la possibilità di rifarsi di quello che essa afferma essere stato il dissanguamento subìto per tanto tempo, onde non infrangere l'unità della nazione.

Quali sono le lamentele della Sicilia? È che il denaro delle rimesse dei suoi emigranti in moneta pregiata venisse preso dallo Stato italiano in cambio delle sue importazioni. Cosa si è stabilito nel progetto di costituzione della Sicilia? Ce lo spiegava chiaramente ieri l'onorevole Einaudi: ci ha spiegato che ogni entrata deve rimanere al popolo siciliano e che, anzi, lo Stato debba ancora dare una quota di integrazione allo Stato siciliano, onde il pericolo la preoccupazione addirittura, che la Sicilia potesse battere moneta, avendo essa un corso pregiato rispetto alla lira italiana.

Ambrosini. Ma qui parliamo delle norme del progetto!

Una voce a sinistra. Devono essere coordinate!

Cifaldi. E allora, si chiedeva che alla Sicilia venisse tolto quello che si è già concesso, perché si pensava, si temeva giustamente che questo potesse dar luogo a richieste da parte delle altre regioni, da parte di ciascuna delle 22 regioni — chiamiamole così — che si vanno a creare.

E ciò è in rapporto alla disciplina del credito e del risparmio di cui all'articolo 111 del progetto.

Ma se noi, onorevoli colleghi, dovremo chiedere...

La Malfa. Voi liberali avete votato per fare le elezioni subito in Sicilia.

Cifaldi. È esatto, onorevole La Malfa. Vi era una richiesta che partiva da lei per il rinvio delle elezioni. Noi liberali abbiamo votato per fare le elezioni subito, in quanto c'era un impegno con la Sicilia e volevamo provare che questa libera assemblea, eletta per la prima volta con sistema democratico, manteneva l'impegno assunto dalla Consulta. (Commenti). Non avevamo, noi liberali, il pensiero di conquistare una maggioranza nella lotta elettorale in Sicilia: avevamo — come mi permisi di dire con una dichiarazione in quest'aula — solamente bisogno di dimostrare alla Sicilia che si mantenevano gli impegni assunti.

E oggi, se bisognerà tornare su qualche concessione fatta, per mantenere l'unità monetaria della Nazione, la quale è la forza più coesiva che rappresenta l'unità di uno Stato, se questo dovremo fare, sarà necessario dimostrare alla Sicilia che effettivamente non si fanno due pesi e due misure e che, anche nei confronti delle altre regioni si mantiene un concetto perfettamente uguale.

Ed è così, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo guardare il problema, che dobbiamo guardare quella che è la portata della regione e delle norme che la devono regolare e costituire, secondo il titolo V di questo progetto.

E quando mi permetterò di ricordare che si chiedeva che dall'articolo 110 venissero tolte le norme a proposito delle acque pubbliche e della energia elettrica, e quelle sul credito e risparmio dall'articolo 111, per quella chiara dimostrazione che ne faceva l'onorevole Einaudi, mi permetterò, in contrapposto, di ricordare anche le parole dell'onorevole Uberti che dava una dimostrazione pratica di quello che può essere il contenuto delle norme previste in questo titolo. Perché quando egli affermava che la banca delle Tre Venezie aveva centinaia di milioni di depositi, egli chiedeva e domandava come e perché ci dovesse essere un organo centrale che potesse togliere una parte di questi risparmi alla regione per investirli di autorità in titoli di stato o in altro modo. E ha detto che le risorse idriche del Trentino, con le quali si facevano correre i treni lungo tutte le ferrovie d'Italia, dovevano rimanere impiegate nella zona di origine per potenziare quelle industrie artigiane!

Così si annienta l'unità di un Paese.

[...]

Ma, onorevoli colleghi, consentite che io manifesti una più grave preoccupazione ancora, per quello che possa essere effettivamente, come dicevo, la integrità della Nazione e la possibilità di contrasti gravi tra regione e regione. Leggendo le attività affidate alla regione di cui all'articolo 109 noi troviamo fra le prime quella della «polizia locale urbana e rurale». E sembrerebbe a prima vista che questo fosse qualche cosa di trascurabile importanza, mentre io credo che questo sia il punto più grave e più preoccupante di questa riforma che noi stiamo esaminando. Non è, onorevoli colleghi, che si tratti semplicemente delle guardie campestri, che vengono pagate dalla regione, ma siamo di fronte alla possibilità che ciascuna regione si crei e costituisca dei veri e propri corpi armati, delle vere e proprie milizie.

È questa una preoccupazione che dobbiamo avere e che si ricava precisamente dalla dizione di queste norme. Non è senza ragione io credo che è stato scritto nell'articolo 109 che «la Regione ha potestà di emanare per le seguenti materie norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell'ordinamento dello Stato — ed ecco, onorevoli colleghi, il punto che mi preoccupa e che mi fa credere quello che dicevo — e rispettino gli obblighi internazionali e gli interessi della Nazione...». Quali obblighi internazionali, onorevoli colleghi, se fra le materie di cui all'articolo 109 che possa interessare dal punto di vista internazionale gli altri Stati non vi è che semplicemente questa della polizia locale urbana e rurale?

Perché al certo non credo che sul piano internazionale possano interessare né la beneficenza pubblica, né la scuola artigiana, né l'urbanistica, né i porti lacuali e le torbiere di ciascuna regione. E allora...

Einaudi. Vi sono laghi che bagnano coste di stati esteri.

Cifaldi. È troppo poco, onorevole Einaudi! Ma quando si dice «polizia urbana e rurale» e quando si dice all'articolo 112 che la regione provvede all'Amministrazione in queste materie, significa che la regione provvede all'amministrazione della polizia locale urbana e rurale; vale a dire la polizia di zone vaste come la Lombardia o la Campania, vale a dire polizia la quale interessa le metropoli e interessa intere regioni. Polizia significa ordine pubblico, sicurezza; polizia non significa guardia campestre! E questo, onorevoli colleghi, (consentitemi che io insista) tanto più quando viene auspicata non solo per implicito, come si ricava da questo Titolo quinto, ma viene richiesta con più chiara parola l'abolizione del prefetto, quando viene domandato appunto che scompaia quest'organo di collegamento fra gli Enti autarchici e il centro, che scompaia questo rappresentante del potere centrale nella provincia.

E allora, quando questo rappresentante dello Stato scomparirà, quando non rimarrà che la regione con la provincia come ente autarchico di decentramento interno, quando questa regione avrà l'amministrazione della polizia locale urbana e rurale, mi pare che questa preoccupazione non sia una preoccupazione vana ma sia una preoccupazione la quale deve farci pensosi, perché la polizia la quale deve rispettare anche gli impegni internazionali e che interessa una regione come la Lombardia o la Campania è una polizia di migliaia di uomini; e quando questa polizia dipenderà solamente e unicamente da rappresentanze locali e quando è facile prevedere che queste rappresentanze, per varie esigenze, creeranno contrasti e attriti fra loro gravi e paurosi e vi potranno essere scontri fra regioni e regioni, allora consentite che la preoccupazione sorga, allora consentite che io affermi che veramente noi non siamo di fronte a un decentramento amministrativo ma dinanzi alla creazione di piccole repubblichette le quali avranno un Parlamento proprio, un patrimonio proprio, leggi proprie e forze armate di polizia che nomineranno esse, che dovranno amministrare ed armare esse, che dipenderanno finanziariamente dalle singole regioni, con tutte le preoccupazioni, onorevoli colleghi, che vi sono al riguardo.

Onde, dinanzi a questo problema, dobbiamo guardarlo con la trepidazione che è d'uopo avere.

[...]

Mannironi. [...] L'argomento che maggiormente impressiona gli avversari della Regione è quello della potestà legislativa. Si dice: con l'attribuire questo potere alla Regione, si crea il federalismo.

Altra esagerazione, signori: altro errore di impostazione e di prospettiva, perché non è vero che con l'attribuire una limitata potestà normativa alla Regione le si diano gli attributi, non dico di uno Stato, ma neanche di un ente autarchico che possa essere di molto superiore a quelli esistenti.

Scusate; riandando alla legislazione vecchia e anche a quella vigente, non vi pare che, di fatto, gli enti autarchici attuali siano dotati di una potestà normativa, che siano capaci di fare delle leggi in senso materiale? Non vi pare che questi enti autarchici minori creino delle leggi che sono vincolative erga omnes e abbiano la possibilità giuridica di creare dei diritti, dei doveri e degli obblighi, non soltanto verso i propri dipendenti gerarchici, ma anche verso i terzi che vivono nell'ambito territoriale dell'ente autarchico?

Io potrei ricordarvi, per esempio, il regolamento di polizia urbana che fa il Comune, o quello di polizia edilizia: non vi pare, che pur chiamandosi «regolamento», questa sia una norma primaria, sia una legge anche in senso materiale? In senso materiale, perché? Perché regola anche il diritto di proprietà; perché, per esempio, i regolamenti di igiene e di polizia comunale limitano anche la libertà della persona, del cittadino. Ora, quelle sono leggi, signori, sono leggi in senso materiale (Commenti).

Dove si fanno i regolamenti indipendentemente dall'intervento dello Stato, sia pure entro limiti generali fissati dalle leggi dello Stato stesso, è evidente che questi regolamenti sono essi pure delle leggi anche in senso materiale.

Ora, quelle leggi vi hanno mai preoccupato? No; non vi hanno mai preoccupato né vi preoccupano perché la potestà di emanarle è attribuita al Comune. Ma vi sono anche degli enti istituzionali che hanno pure fatto delle leggi: basterà che io vi citi l'esempio delle corporazioni del tempo fascista, le quali stipulavano i contratti collettivi di lavoro. Non erano forse i contratti collettivi di lavoro delle leggi in senso materiale? Lo erano indubbiamente: eppure tutto questo non ha mai preoccupato alcuno ed era giusto che non dovesse preoccupare.

Ma rapportiamo adesso il concetto e l'argomento, da quel piccolo ente che è il Comune, a quell'ente più vasto, più complesso che noi vogliamo creare: la Regione. È evidente che anche la Regione deve essere dotata di un potere normativo, perché altrimenti non sarebbe un ente autonomo, non sarebbe un ente autarchico.

Io non so concepire infatti l'ente autarchico senza l'autonomia. L'autarchia si riferisce all'amministrazione e l'autonomia si riferisce invece al potere discrezionale che viene concesso all'amministratore locale, di emanare provvedimenti normativi: e questa è la caratteristica peculiare dell'ente autonomo.

Ora, se alla Regione si affidano dei poteri di una certa estensione per amministrare determinate materie, quali quelle che sono indicate nel progetto di Costituzione, non le si può nel tempo stesso, correlativamente, negare il diritto di emanare delle leggi in quel campo.

Ora, la parola «leggi», dicevo, preoccupa enormemente gli avversari della Regione, i quali dicono che questo potere normativo non è conciliabile con la sovranità dello Stato, perché in tal modo si verrebbe a creare una altra sovranità, perché in tal modo si produrrebbe fatalmente una frattura dell'unità legislativa dello Stato; perché in tal modo si produce un disordine politico interno che non può essere facilmente sanato e superato. Perciò sono indotti a concludere che è meglio evitare che si conceda originariamente questa potestà normativa.

Il ragionamento, signori, è troppo semplicistico, e non porta alcun contributo concreto per la risoluzione del problema che noi ci siamo accinti ad esaminare.

Incomincerò col dire che non si deve ravvisare alcun pericolo di frazionamento dell'unità legislativa. È proprio dalla destra che ho udito parlare — mi pare dall'onorevole Lucifero — di decentramento legislativo. Ora, io sottoscrivo in pieno, e non posso nel tempo stesso non sottolineare il fatto che una ammissione di questo genere venga fatta proprio da un uomo di destra. Ciò è sintomatico ed è grave che i partiti di sinistra se ne preoccupino invece eccessivamente.

Oggi l'Assemblea di che cosa si occupa? Lo diceva ieri molto efficacemente l'onorevole Uberti ed io non vorrei ora ripetere ciò che già ha detto lui. Egli vi ha dimostrato come sia una necessità pratica quella di operare un decentramento anche nella sfera legislativa, per materie che si riferiscono a situazioni o necessità locali.

Ora, non si può attuare questo principio del decentramento legislativo, se non concedendo una potestà legislativa agli enti autarchici: al Comune e alla Provincia, i quali in parte li hanno già, e poi alla Regione.

Lucifero. Si può anche risolvere sul piano nazionale.

Mannironi. Sì, creando degli enti autarchici istituzionali; ma non bastano. Io non ho fiducia nell'opera e nel rendimento di quegli enti autarchici istituzionali, e penso che sia più utile — e credo che anche lei sarà d'accordo in questo — e più opportuno dare la potestà normativa agli enti autarchici territoriali oltre che a quelli nazionali di carattere istituzionale.

Ma quello che preoccupa gli avversari della Regione è il fatto che le si dia una potestà legislativa primaria. Si dice: mettere le Regioni sullo stesso piano dello Stato significa frantumarne la sovranità, rappresenta un pericolo, perché in quelle materie che sono attribuite con la legislazione primaria alla Regione, lo Stato rinuncerebbe preventivamente ad intervenire e a legiferare.

Ora, ieri, molto opportunamente l'onorevole Einaudi vi ha precisato dei punti importanti su questo argomento. E neppure in questo caso vorrei ripetere cose già dette; vi accenno soltanto perché mi servono per la necessità logica del mio ragionamento. L'onorevole Einaudi vi ha dimostrato in sostanza questo: che quelle materie che sono affidate alla competenza legislativa primaria della Regione sono di così scarsa importanza, che, se pur gliele lasciate, lo Stato non ci perde niente. Infatti, quando, per esempio, nelle varie Regioni si dia una diversa regolamentazione legislativa alla caccia o alla pesca, io non capisco quale pericolo possa venirne allo Stato o agli interessi generali della Nazione. E, per converso, se questa potestà legislativa primaria alle Regioni la togliete, le Regioni, credo, perderanno poco o non perderanno niente neppure loro. Perché, in sostanza, ripeto, si tratta di materie di così scarso rilievo ai fini economici, sociali e politici che se le Regioni dovessero essere costrette ad uniformarsi ad una legislazione unitaria dello Stato, restando soltanto a loro riservato il potere di integrare le norme generali, l'autonomia potrebbe realizzarsi lo stesso. Questo è il mio punto di vista personale, che mi permetto di esprimere in questo momento.

Quindi, signori, se questo dovesse costituire l'ostacolo insuperabile, per cui voi non vi sentireste di dare la vostra adesione alla riforma autonomistica in senso regionale, quella legislazione primaria si può anche sacrificare, sicuri — ripeto — che nessun danno ne deriverà alla Regione. Ma allora, se si dovesse eliminare quella potestà legislativa primaria, bisognerebbe includere quelle stesse materie per lo meno nella legislazione concorrente.

Ecco un altro degli argomenti che formeranno indubbiamente oggetto di discussione, perché è un argomento che merita. Io di questo soprattutto voglio limitarmi a parlare, volendo obbedire, per quanto possibile, all'invito dell'onorevole Presidente di ridurre lo sviluppo del mio intervento, anche rinunciando a svolgere molti altri argomenti che sarebbe utile toccare ai fini della completezza della discussione.

La legislazione concorrente, dicevo, è stata per me — dico la verità — una novità dal punto di vista giuridico, costituzionale. Io, nei miei lontani studi di diritto amministrativo e costituzionale, non ne ho mai forse sentito parlare; ma, comunque, devo riconoscere che è stata una felice trovata dell'onorevole collega che nella seconda Sottocommissione ha suggerito questa soluzione, in quanto ha finito, con questo suggerimento, con questa proposta, col conciliare praticamente e la libertà legislativa delle Regioni autonome e l'unità legislativa dello Stato. Infatti, se si dava alle Regioni soltanto la potestà di emanare norme integrative o di attuazione o regolamentari, si concedeva troppo poco ad esse.

Perché in sostanza, come tutti sappiamo, quelle norme di attuazione, di integrazione, regolamentari, non possono andare molto oltre la sostanza e lo spirito e i limiti della legge fondamentale di cui sono quasi appendice.

E allora bisognava trovare un modo per il quale la Regione fosse ancorata a determinati principî direttivi fissati dallo Stato per conservare l'unità della legislazione su determinate materie fondamentali, ma avesse anche una certa libertà di manovra, una certa zona libera entro cui potesse adattare quei principî generali e svilupparli secondo le esigenze territoriali locali.

Questa è stata la ragione che ha suggerito la proposta della legislazione concorrente, che ha avuto l'approvazione della Commissione.

Ora, signori, che cosa vi può essere di pericoloso in questo, nel consentire cioè alle Regioni la possibilità di fare una legislazione concorrente, sì, con quella dello Stato, ma sempre circoscritta nei limiti che lo Stato stesso fissa, salvaguardando gli interessi unitari, gli interessi nazionali e gli interessi delle altre Regioni e, soprattutto, l'ordinamento giuridico fondamentale? Io credo che nessun danno possa venire né allo Stato né alla legislazione stessa, perché la varietà che si potrà determinare nell'applicazione e nello sviluppo di questi principî direttivi contenuti nelle leggi generali dello Stato non potrà mai rompere quell'equilibrio, quell'armonia e quell'unità d'indirizzo che sono presupposto fondamentale per lo sviluppo normale della legislazione nazionale.

Ora, si potrà dire che quel principio consacrato nell'articolo 111 necessita di ritocchi; che sarà opportuno apportarvi emendamenti, soprattutto per evitare certi inconvenienti che oggi, così come l'articolo è formulato, potrebbero presentarsi; ma nella sua sostanza il principio è meritevole di approvazione da parte dell'Assemblea.

Gli inconvenienti che possono essere eliminati sono questi: si può presentare, per esempio, il caso che lo Stato emani una legge che contenga quei dati principî direttivi e che la regione non faccia la legge integrativa che ha il diritto di fare e che sarebbe necessario fare per evitare una vacatio legis, una carenza della legge. Siccome non c'è nessun meccanismo costituzionale che possa imporre alla Regione di fare la legge integrativa e poiché non si può lasciare quella Regione senza lo sviluppo totale della legge che regoli interamente la materia, sarà necessario fare in modo, con una modifica dell'articolo, che si stabiliscano le provvidenze opportune. Per esempio, si potrà stabilire che lo Stato ha diritto di fare la legge generale, costituita dai principî direttivi ed anche dagli sviluppi ulteriori e concreti di questi, per modo che, se la Regione non farà per suo conto quella legislazione concorrente, si intenderà che dovrà entrare in vigore la legge generale, per lo meno dopo un determinato periodo di tempo.

Si potrà altresì verificare il caso che lo Stato non si limiti in quelle materie a dare soltanto dei principî direttivi, ma faccia invece delle leggi generali. Io credo che in quel caso lo Stato compia un atto anticostituzionale per il quale sarà opportuno e necessario l'intervento della Corte costituzionale: ma vi si potrà ovviare fin d'ora stabilendo che una parte della legge statale dovrà cedere il posto alla legge concorrente che la regione potrà fare.

Potrebbe anche avvenire che la Regione, nel fare la legislazione concorrente, ecceda i suoi limiti e faccia una legge che violi i principî direttivi tracciati nella legge dello Stato. Ma in questo caso non sarebbe necessario ricorrere a modifiche dell'articolo, perché s'intenderebbe che entri in funzione il meccanismo progettato per l'intervento della Corte costituzionale.

Ora, nell'insieme, tutta la preoccupazione che domina molti spiriti che si accingono ad esaminare il progetto della Regione, mi pare eccessiva e infondata. Non si può parlare in modo assoluto di federalismo, non si può parlare di pericolo di frantumazione dell'unità nazionale anche se, onorevole Gullo, si dovesse assistere, come lei rilevava, ad un contrasto frequente tra Regione e Stato in contesa fra di loro per la costituzionalità delle rispettive leggi. Penso che questi contrasti saranno meno frequenti di quello che si creda e si tema. Si tratterà comunque di contrasti che se saranno frequenti nei primi tempi, non lo saranno nel periodo successivo, dopo che sarà maturato convenientemente l'esperimento.

[...]

Nobile. [...] Quanto tempo occorrerà poi per esaminare ciascuno dei venti articoli che costituiscono la riforma? Alcuni di questi richiedono discussioni amplissime. Non sarà sufficiente quello che se ne può dire nella discussione generale. Basta accennare agli articoli 109, 110, 111, che si riferiscono alla potestà legislativa delle Assemblee regionali. Ciascuna delle voci elencate in quegli articoli coinvolge una quantità di problemi non solo politici ma anche tecnici, anzi essenzialmente tecnici.

L'onorevole Mannironi crede che si possa affidare alle Assemblee regionali questa potestà legislativa senza alcuna preoccupazione per quanto riguarda gli interessi generali dello Stato; ma gli esempi citati ieri dall'onorevole Einaudi ci convincono del contrario. L'illustre collega, ricordando che l'Italia anche prima del fascismo vantava una legislazione esemplare per quello che riguardava le acque pubbliche, ci ha fatto osservare che se l'ordinamento regionale passasse così come è proposto, a questa unica legislazione nazionale verrebbero sostituite ventidue diverse legislazioni regionali. Basta questo esempio per dimostrare che il problema, voce per voce, dovrebbe essere esaminato e discusso a fondo.

[...]

L'onorevole Mannironi poco fa riconosceva che l'economia non può circoscriversi nell'ambito di una regione, ma la conseguenza logica di questa premessa è tutt'altra di quella cui egli perviene, quando giustifica, come fa, il progetto di ordinamento regionale che ci viene proposto. Esaminate, infatti, attentamente gli articoli 109, 110 e 111, e dovrete necessariamente arrivare alla conclusione che alla base di quegli articoli vi è una concezione di economia regionalistica, che costituisce oggi una vera e propria aberrazione.

Non mi dilungherò a dimostrarlo. È evidente che essa sia un'aberrazione perché nel mondo moderno i fatti economici trasbordano i limiti, non dirò nazionali, ma del continente stesso cui una Nazione appartiene. L'enorme acceleramento ed intensificarsi delle comunicazioni ha da gran tempo distrutto l'economia locale. Nessun paese, neppure i più grandi e più ricchi di risorse naturali, può economicamente considerarsi indipendente dal resto del mondo. Abbiamo visto in Europa, di recente, le conseguenze di uno sciopero minerario avvenuto in America. Parlare oggi di economia regionale è così assurdo come voler tornare al bastimento a vela e alla diligenza postale.

Vi dicevo che si può parlare a lungo per dimostrare a quali gravi conseguenze si giungerebbe accettando gli articoli del progetto di Costituzione dal 109 al 111, con i quali noi daremmo nientedimeno facoltà alle Assemblee regionali di emanare norme legislative in materia di agricoltura, foreste, cave, torbiere, acque pubbliche, turismo, strade, acquedotti, industrie, commercio!

Diceva bene ieri l'onorevole Einaudi: questi articoli formicolano — è la sua espressione — di pericoli per l'unità nazionale. Egli ha citato l'esempio delle acque pubbliche, della polizia, del credito: materie nelle quali sostituire ad una legislazione unica nazionale una moltitudine di legislazioni regionali significherebbe veramente voler rifare alla rovescia il cammino della storia. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Io mi fermerò solo a considerare un istante quello delle strade e delle linee automobilistiche. Non si pensi infatti che il problema automobilistico costituisca un argomento di scarsa importanza, perché nel mondo moderno i trasporti automobilistici tendono ad estendersi sempre più e fanno realmente concorrenza alle ferrovie: guardate, sotto questo riguardo, quello che avviene in America.

Or dunque si parla nell'articolo di linee automobilistiche di interesse esclusivamente regionale; ma quale linea automobilistica potrebbe considerarsi di interesse esclusivamente regionale? Tutto al più quella che collega la stazione ferroviaria ad un piccolo paese appollaiato sulla montagna. Ma evidentemente non è di interesse puramente regionale una linea automobilistica che congiunga, putacaso, Napoli con Benevento. Non è di interesse esclusivamente regionale perché anche all'industriale lombardo interessa moltissimo di andare quanto più celermente sia possibile da Napoli a Benevento o a Foggia.

Mi soffermo, onorevoli colleghi, in modo particolare, a considerare questo problema delle comunicazioni, perché sono convinto che esse hanno avuto sempre, e hanno oggi più che mai, un'importanza decisiva nello sviluppo economico, sociale, culturale, politico dei vari paesi.

Mi capita tra le mani in questo momento una relazione presentata alla Camera dei Deputati italiana nella sessione del 1866, che porta il titolo: «Delle condizioni della viabilità in Italia». Varrebbe la pena la esaminaste per constatare come già allora fosse chiara nella mente dei legislatori italiani l'importanza che ha la viabilità per l'economia nazionale. Basta citare frasi come queste: «Le strade sono come le arterie e le vene che portano la vita per ogni dove. La viabilità è il primo fattore della prosperità e della civiltà di un paese». E più avanti: «La stessa prosperità delle provincie ben provviste di strade addiviene una cagione di miserie per quelle che ne sono prive, perocché, non potendo produrre alle stesse facili condizioni, spesso non possono sostenere la concorrenza». E, ancora, basta dare un'occhiata alle statistiche contenute negli allegati della relazione per constatare come misere fossero in quel tempo nel Mezzogiorno d'Italia le condizioni della viabilità! L'allegato I porta questa epigrafe significativa: «Perché un paese possa prosperare deve avere almeno un chilometro di strade ordinarie per ogni chilometro quadrato di superficie». Ma, ahimè, le cifre che seguono mostrano come le province del Mezzogiorno fossero lontanissime da quella meta desiderata. Per la Sicilia, la Calabria, gli Abruzzi si era al disotto dei cento metri di strada per ogni chilometro quadrato di superficie!

L'importanza del problema della viabilità era dunque inteso fin d'allora, quasi un secolo fa. Oggi sarebbe vergogna ignorarlo; ma equivale ad ignorarlo affermare che le strade, le linee automobilistiche, le tranvie extraurbane costituiscono un interesse puramente regionale.

Il fatto è, onorevoli colleghi, che le condizioni arretrate del Mezzogiorno dipendono in gran parte precisamente da questo: che nel momento in cui l'Italia venne unificata le comunicazioni stradali vi erano scarsissime. L'onorevole Gullo Fausto ha ricordato ieri che un'unica strada, senza alcuna diramazione laterale, «quasi un fiume senza affluenti», congiungeva Napoli alle Calabrie, sicché non vi era possibilità di giungere agevolmente nell'interno. I mali da cui ancora oggi sono afflitte tante regioni del Mezzogiorno derivano essenzialmente da quella specie di isolamento in cui esse si trovarono per secoli. Questa è la causa per cui esse, rispetto alle regioni del nord, si trovano indietro, nell'economia, nella struttura sociale, nell'educazione.

Nel secolo scorso la rivoluzione industriale da prima, e quella meccanica dopo, fecero sentire dovunque in Italia, dal parallelo di Roma in su, la loro influenza, mutando profondamente le condizioni economiche e sociali; ma nella Lucania, in Calabria, in Sardegna, tagliate come esse si trovavano fuori delle grandi correnti commerciali moderne a causa delle scarse e difficili comunicazioni esterne ed interne, quell'influenza si risentì con grande ritardo ed assai lentamente, solo dopo che quelle Regioni vennero riunite alle altre parti d'Italia.

Il Mezzogiorno ha avuto le sue strade ordinarie con un ritardo di secoli rispetto alle altre regioni. In Sardegna, ad esempio, perdute perfino le tracce delle strade costruite da Roma antica, soltanto nel 1829 fu aperta al traffico la prima strada nazionale: quella che congiunge Cagliari con Porto Torres, per Orestano e Sassari. Pensate: solo nel 1829!

In quanto a ferrovie permettete che vi citi qualche cifra.

Al momento dell'unificazione su 1829 chilometri di ferrovie esistenti in Italia appena 99 erano nel Mezzogiorno, e non un solo chilometro in Sardegna. Ma dopo l'unificazione, come ne è testimonianza la relazione che vi ho citato avanti, il Governo centrale intraprese in tutto il Mezzogiorno la costruzione di ferrovie, sicché nel 1872, su 6778 chilometri di ferrovie esistenti in Italia, 2186 erano nel Mezzogiorno. Oggi la situazione è questa: mentre in tutto lo Stato si hanno 50.8 chilometri di ferrovie per ogni 100 mila abitanti, nelle regioni del Mezzogiorno, se si fa eccezione solo della popolarissima Campania, le cifre sono molto più alte della media nazionale. Al primo posto è la Sardegna con 120.4 e al secondo la Lucania con 105.7. Che se poi si riferisce lo sviluppo ferroviario alla superficie, si trova che la Sicilia, la Calabria, la Campania, le Puglie, hanno una lunghezza di ferrovie notevolmente superiore alla media statale. Secondo l'indice Mortara, che tien conto a un tempo e della popolazione e della superficie, il primo posto in Italia nello sviluppo delle ferrovie è tenuto proprio dalla Sardegna!

Onorevoli colleghi, della questione del Mezzogiorno, anche senza volerlo, vien fatto di parlare quando si parla di ordinamento regionale. Questo ordinamento viene invocato dai suoi fautori come un toccasana per i guai del Mezzogiorno; ma per mio conto son convinto che esso, anziché far progredire le regioni meridionali portandole al livello di quelle centrali e settentrionali, inevitabilmente condurrebbe invece a rendere più profonde le differenze tra esse esistenti. Questo vi spiega perché i più decisi avversari ai vari tentativi fatti fin oggi in Italia di ordinamento regionale siano stati sempre gli uomini politici meridionali. Si potrebbe citarne uno per tutti: Giustino Fortunato.

Bene ha detto l'onorevole Gullo che nell'unificazione dell'Italia il Mezzogiorno portò non le sue ricchezze, che erano solo apparenti, ma le sue miserie. Queste miserie del Mezzogiorno d'Italia sono soprattutto dovute all'isolamento in cui esso visse, isolamento che fu anche la causa precipua per cui vi mancò durante il medioevo una vita municipale. Certo, a queste miserie contribuirono anche i due secoli di dominio spagnolo che, come disse Leopoldo Franchetti, puntellarono il cadente edificio feudale fecondando i germi di decomposizione morale e sociale sparsi dai secoli precedenti. Perfino la Rivoluzione francese tardò a far sentire nel Mezzogiorno d'Italia i suoi effetti, e a penetrarvi col suo soffio rinnovatore e vivificatore. Il decennio di predominio francese, coi regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, soppresse la feudalità, impose i Codici napoleonici, ma non riuscì a intaccare la composizione sociale ed economica del Mezzogiorno. Questa solo da una rapida espansione delle comunicazioni interne ed esterne con le altre parti d'Italia e col resto del mondo poteva, e può, venir modificata.

Tutti i guai, vecchi e nuovi, delle varie parti del Mezzogiorno d'Italia dipendono per l'appunto da questa scarsezza di comunicazioni. La causa dell'arretratezza della Sardegna va ricercata nel suo isolamento, che costituì il fattore determinante delle sue vicende storiche. Per la sua posizione, nel mezzo del Mediterraneo occidentale, all'isola era nei secoli scorsi difficile accedere; ancora più difficile era penetrare nel suo interno a causa della mancanza di strade. Tutti i mali della Sardegna si ricollegano a questo suo isolamento; ma ad esso non si può rimediare con le sole forze dei sardi. Occorreva ed occorre il concorso di tutte le altre parti d'Italia, e questo concorso vi fu. Strade, ferrovie, opere di bonifica, valorizzazione di miniere, etc., erano tutte cose inesistenti al momento dell'unificazione, ed è difficile, direi anzi impossibile, sostenere che tutto ciò sarebbe stato fatto se la Sardegna si fosse governata da sé.

Si potrebbe, come dicevo, parlare molto a lungo sugli articoli 109, 110 e 111. L'articolo 109, ad esempio, considera lo sfruttamento di torbiere come materia di interesse esclusivamente regionale. Non vi è chi non veda quanto sia assurda tale pretesa in un paese povero di combustibili come è il nostro. L'articolo 110 concede alla Regione la facoltà di emanare norme legislative sulle tranvie e sulle linee automobilistiche regionali. Vi sarebbe quindi la possibilità che in una regione si costruiscano linee tramviarie o si impiantino servizi automobilistici paralleli e concorrenti con le ferrovie gestite dallo Stato, con quali conseguenze economiche ognuno può immaginare.

Secondo il progetto non dovrebbe affatto interessare al resto dell'Italia se una tale Regione sviluppi oppur no le sue strade, i suoi porti lacuali; costruisca o pur no i suoi acquedotti; sfrutti o pur no le sue torbiere e le sue cave; dia o pur no incremento al turismo, che pure notoriamente è una delle fonti più importanti di reddito nazionale. Se una Regione è, e vuol rimanere, arretrata economicamente, socialmente, e culturalmente è cosa che riguarderebbe soltanto essa. Eseguire o pur no un'opera di bonifica o di irrigazione, risanare zone malariche; dare o pur no un adeguato sviluppo all'istruzione tecnico-professionale; sviluppare l'agricoltura; utilizzare o pur no le acque pubbliche, sono considerate faccende di interesse puramente regionale!

Se nel passato, durante quasi un secolo di vita unitaria, fossero prevalsi questi criteri, non sarebbe stato costruito l'acquedotto pugliese, né compiuta la bonifica di Sanluri, né risanate le paludi pontine, né costruite in Sardegna oltre mille chilometri di strade nazionali, cioè l'ottava parte di quelle costruite nel regno, sebbene in superficie la Sardegna rappresenti solo la tredicesima parte del territorio nazionale.

A un tale assurdo porterebbe il frazionamento del nostro Paese in ventidue regioni autonome, ciascuna con un'Assemblea legislativa avente il diritto di legiferare, o anche di non legiferare, su materie che solo apparentemente possono ritenersi di interesse regionale, ma che in realtà sono di interesse nazionale.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti