[Il 29 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cifaldi. [...] E si può porre questa domanda: quando un Parlamento regionale avrà avuta la possibilità di legiferare su queste materie, quale sarà la forza per ottenere che una parte delle locali energie vada al bene comune?

E sotto un altro punto di vista, in qual maniera onorevoli colleghi, la regione potrà assolvere ai suoi compiti, quando ci troveremo di fronte alle regioni povere, derelitte?

È stato con somma sorpresa — mi si perdoni l'espressione — che ho sentito l'onorevole Zotta fare ieri una strana asserzione, quella cioè che egli tanto più restava fermo nel concetto regionalistico quanto più povere sono le regioni dell'Italia meridionale; e ciò proprio per far sì che esse possano sorgere, stimolando le proprie energie e le proprie attività.

Ma quali energie? Quali attività? Come potrebbe, ad esempio, la Lucania provvedere essa sola alle numerose opere pubbliche di cui abbisogna? In quale maniera potrebbe provvedervi, se essa non ha che la disperazione dei suoi figli?

Nella seduta di ieri, con fervore e con profondità, l'onorevole Gullo ci ha discorso delle condizioni in cui si trova la Calabria: oggi ad esse io aggiungo le condizioni della Lucania, che sono state descritte in maniera così perfetta dal Levi, nel suo «Cristo si è fermato ad Eboli»: basta leggere quel libro per avere un senso profondo di quelle che sono le desolanti condizioni in cui si trovano quelle contrade; ed è proprio leggendo quelle pagine che ci si domanda come sia mai possibile che esistano dei paesi i quali si trovano nella condizione in cui sono ancora oggi Grassano e Guglianello.

Lussu. Ma Levi è regionalista.

Cifaldi. È vero che, studiando il problema delle autonomie locali, Levi appare molto perplesso e ricordava che un semplice provvedimento in materia di latifondo o di decentramento non avrebbe potuto ritenersi sufficiente; ma è anche vero che coloro i quali, in queste maniera, si sono fermati a studiare il problema delle regioni meridionali sanno e comprendono che non è possibile, senza l'aiuto offerto dallo Stato, senza il concorso di queste energie centrali, risolvere i problemi e i bisogni di queste regioni abbandonate.

Conti. Ma abbandonate da chi?

Cifaldi. Precisamente dallo Stato, se lei vuole; ma per questo, quando voi portate il problema sul terreno regionalistico, non lo risolvete in modo assoluto.

Dozza. Lo risolveranno i latifondisti!

Cifaldi. Dallo Stato, se lei vuole, sarà risolto.

Presidente Terracini. Almeno gli onorevoli colleghi che sono d'accordo con l'onorevole Cifaldi potrebbero non interrompere.

Cifaldi. Grazie, onorevole Presidente. Ché se, per avventura, questi problemi che non sono stati finora risolti dallo Stato dovessero essere oggi affidati alle forze delle regioni, saremmo veramente caduti nel fondo del sacco, saremmo veramente in condizioni di impossibilità. Noi avremo infatti la regione ricca e avremo la provincia che ne farà parte che non riescirà a farsi valere nei confronti del capoluogo di questa regione. Noi avremo la regione povera la quale non potrà fare che piani e progetti, perché non avrà la forza di poterli attuare.

E allora in che maniera, onorevoli colleghi, sarà possibile che questa regione, che questa autonomia produca del bene? In che maniera creerà la classe dirigente? In che maniera risolverà i problemi locali? In che maniera essa sarà veramente in grado di attuare il bilancio preventivo che essa farà? Guardiamo la realtà quale è oggi. Abbiamo un comune, quello di Napoli, che chiede pel suo bilancio preventivo di quest'anno, allo Stato, un contributo di oltre quattro miliardi. Non so che cosa farà lo Stato italiano; se darà i quattro miliardi e seicento milioni che il comune di Napoli ha chiesto. Ma immaginiamo che per ogni comune sia possibile arrivare al pareggio, che la legge del marzo 1947 consentirà agli enti locali di raggiungere il pareggio: ma pensate voi che questo pareggio risolverà i problemi di sviluppo delle regioni, potrà giovare ad una regione come la Lucania? È assurdo pensarlo. Ogni regione povera potrà unicamente pensare con le sue forze alle proprie guardie urbane e campestri; ma non potrà fare altro. Per quello che riguarda le strade, gli acquedotti o gli ospedali, col suo bilancio, essa non potrà fare altro che programmi. Ma, si può obbiettare, c'è la integrazione, di cui all'articolo 123. E chi giudicherà e valuterà l'urgenza, l'utilità, l'opportunità di quei programmi? Chi sarà che darà un giudizio al riguardo? E quando eventualmente sarà stato anche approvato un bilancio il quale preveda una spesa di centinaia di milioni per un periodo di 10 anni, quale sarà quell'ente che li attribuirà? E quale sarà la reazione delle regioni ricche che dovranno provvedere al riguardo?

Fermiamoci a questo punto. Guardiamo a quella che è la quota di integrazione, alla quale molti ritengono di poter ricorrere con sicurezza. Anch'essa costituisce un elemento preoccupante, perché — come già è stato detto — non è possibile pensare che permanentemente le regioni ricche, che tutte hanno grande bisogno di produzione e di espansione, possano adattarsi a sapere che una parte dei loro risparmi, delle loro entrate, vada spesa in questa maniera. E perciò questi problemi corrono il rischio di rimanere per lunghi anni ancora più abbandonati, ancora più sicuramente non risoluti di come non lo siano stati per il passato.

[...]

Mannironi. [...] questo può essere un esperimento: ma è opportuno si faccia. Se vi è tanta gente che propone la riforma e ne sostiene l'opportunità, io penso che non si tratta di fare un esperimento in «corpore vili»; né di un danno irrimediabile. È un esperimento che può avere la sua importanza politica ed è meritevole che venga fatto soprattutto per il Mezzogiorno dove particolarmente questa riforma appassiona gli animi. Se ne capisce la ragione: il Meridione spera ed è convinto che, con la realizzazione di una riforma autonomistica dello Stato, si possa attuare una maggiore giustizia per quelle popolazioni, anche se si parte dal presupposto che le meridionali sono regioni non autosufficienti, anche se si parte dal principio o dalla certezza che domani lo Stato dovrà integrare i loro bilanci ed intervenire con fondi della collettività nazionale per sopperire alle esigenze di quelle regioni le quali non potrebbero provvedere ai loro immediati bisogni con le loro limitate entrate. Del resto non avviene questo anche in regime di stato centralizzato? Oggi lo Stato paga, per integrare i bilanci degli enti autarchici minori, circa 30 miliardi all'anno. Ora se questa somma, opportunamente rapportata, dovesse essere pagata anche nell'avvenire, ciò può rientrare nei doveri e negli obblighi dello Stato il quale, essendo l'ente di diritto pubblico maggiore e gerarchicamente superiore a tutti gli altri enti autonomi minori, sarà messo in condizione, col sistema tributario, di arricchire il suo tesoro, le sue riserve e poter meglio ridistribuire le disponibilità che riesce ad accumulare attraverso i tributi realizzati nelle varie parti dello Stato.

Questo era il principio che ha informato anche gli autori del progetto quando si parlava di stanze di compensazione — di un ente di solidarietà fra le varie Regioni —; quando si diceva che bisognerà ridistribuire equamente la ricchezza nazionale secondo le necessità che presentano le varie Regioni. Questo è l'esperimento che si vorrebbe proporre e questo era il principio da cui si è partito: principio giusto, di giustizia sociale e politica, che dovrà essere realizzato e che consentirà particolarmente di controllare meglio i bisogni delle Regioni, di organizzarne le attività e distribuirne equamente i redditi.

Le Regioni potranno, così, semmai, regolare meglio la loro condotta e la loro amministrazione, e dovranno forse ricorrere meno o con minori pretese allo Stato, per ottenere integrazioni.

L'onorevole Gullo parlava ieri di un altro aspetto del problema del Mezzogiorno e delle sue condizioni di arretratezza.

Mi permetto di dissentire, perlomeno in parte, dal giudizio da lui espresso.

Posso riconoscere che le condizioni del Mezzogiorno — parlo anche delle isole — siano dovute a particolari fattori sociali, per i quali non vi sono state opportune provvidenze, o per immaturità politica e civile delle popolazioni stesse o per carenza di intervento dei partiti politici o per colpa delle classi dirigenti; ma è anche vero che quelle regioni sono in stato di disagio e sono così disgraziate, perché il bilancio dello Stato, dello Stato unitario centralizzato, non ha mai provveduto sufficientemente ai bisogni fondamentali di quelle popolazioni. Quando si considerino le condizioni di estrema miseria, in cui certi paesi del Mezzogiorno si trovano, non si può dire che quello stato di inferiorità sociale e materiale sia dovuto a fattori sociali; è invece dovuto proprio alla insufficienza dell'intervento dello Stato, perché quando in un paese, anzi in moltissimi centri, mancano il cimitero, l'acquedotto, la scuola, la luce e le comunicazioni, signori, non c'entra la classe ricca. Non è questione di contrasti fra classi; mancano le opere pubbliche, cui dovrebbe provvedere lo Stato. I suoi interventi finora possono aver importato notevoli spese per il bilancio; però tali spese non devono commisurarsi solo colle entrate effettive realizzate in quelle regioni, ma coi bisogni effettivi di esse. In tal modo, soltanto, uno Stato che sia davvero civile, realizza la giustizia per il Mezzogiorno.

Ora, le popolazioni meridionali contano sull'autonomia, perché sperano di potere realizzare da se stesse una giustizia maggiore, in quanto, utilizzando la loro ricchezza ed i loro redditi nel quadro generale della finanza dello Stato, credono di poter provvedere meglio ai loro immediati e fondamentali bisogni.

Il Mezzogiorno confida nell'opera della Costituente.

E voi di questo dovete tener conto e dovete ritenere che il problema è maturo per essere esaminato, affrontato e risolto positivamente.

[...]

Nobile. [...] Si consideri anche l'articolo 113 dove si parla delle finanze. Non m'intendo affatto di questo arduo argomento ma capisco che il problema delle finanze del nuovo Ente che si vorrebbe costituire è un problema gravissimo che dovrebbe impegnare la discussione da parte delle persone più competenti di quest'Assemblea per intere giornate.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti