[Il 20 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quarto della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti politici».

Vengono qui riportate solo le parti relative al tema in esame, mentre si rimanda alla sezione delle appendici contenente le discussioni generali del Titolo per il testo completo della discussione.]

Preziosi. [...] Articolo 50. Onorevoli Colleghi, a me pare che l'articolo 50 abbia suscitato polemiche dappertutto, e particolarmente a destra. Diceva ieri sera l'onorevole Rodi che l'articolo 50 — sono le sue precise parole — è un riconoscimento del diritto alla rivoluzione. Strana questa affermazione: si vuole assolutamente dire che quest'articolo, immesso nel nostro progetto di Costituzione, può riconoscere un diritto alla rivoluzione. Invero nessun diritto rivoluzionario noi vogliamo riconoscere nella nostra Costituzione; invero l'articolo 50 è posto a difesa della libertà dei cittadini, a difesa della libertà, in ogni momento della vita nazionale, perché quando si dice che «ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate», e si aggiunge che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino», non vi è qui un riconoscimento al diritto rivoluzionario. Invece, secondo l'articolo 50, il cittadino nello stesso momento in cui esercita un diritto, vale a dire difende la propria libertà dalle possibilità di aggressione di un potere costituito che, sorto democraticamente, lungo la strada dimentica la democrazia e si fa arma di dittatura, nello stesso momento, ripeto, il diritto del cittadino si trasforma in un dovere nei confronti della collettività. È cioè un diritto difendere la propria libertà, ma è un dovere difendere la libertà della collettività. Non vi è solamente il diritto di difendere la propria persona, la propria casa, la propria famiglia, il proprio modo di pensare, il proprio modo di dire, ma vi è anche il dovere di difendere la libertà dei propri consimili, il dovere di difendere la libertà del proprio paese. Premesso quanto sopra, come si può affermare che l'articolo 50 è un riconoscimento al diritto rivoluzionario? O non è la più bella affermazione della nostra Carta costituzionale che dà la possibilità al cittadino di difendere la sua libertà, la libertà del proprio paese, la libertà della propria democrazia? È un'arma di difesa della quale non bisogna trascurare l'importanza, è un'arma di difesa che deve rimanere nella nostra Carta costituzionale. Oserei dire che questa configurazione di diritti e di doveri da parte del cittadino a difendere la propria libertà è un po' un esempio alle Costituzioni degli altri paesi; è, comunque, un esempio di come noi in regime di libertà vogliamo difendere la nuova democrazia italiana.

[...]

Di Giovanni. [...] qualcuno degli autorevoli colleghi ha manifestato le proprie preoccupazioni per il riconoscimento nella Carta costituzionale del diritto-dovere dei cittadini di insorgere quando i poteri costituiti avessero attentato ai principî fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.

A me sembra che la preoccupazione non sia assolutamente fondata. Già in una Costituzione che sorge in un momento così delicato e storicamente notevole della vita del Paese, in un clima di libertà democratica e repubblicana, quando si è appena usciti da un disastroso esperimento ventennale, nel quale la coscienza e la libertà dei cittadini erano state attanagliate e compresse da una dittatura che purtroppo aveva ricondotto indietro nei secoli del più tristo medioevo la civiltà italiana, non si poteva fare a meno, non si doveva fare a meno di inserire questo solenne riconoscimento del dovere dei cittadini di insorgere contro ogni manomissione dei loro diritti statutari.

E, del resto, il riconoscimento di quel principio di legittima difesa collettiva, estende e conferma il diritto individuale alla legittima difesa, sancito dalle leggi e, prima che dalle leggi, dal diritto di natura: vim vi repellere licet.

E però la Carta costituzionale pone le condizioni e il limite all'esercizio di questo diritto-dovere, quando stabilisce che esso sorge soltanto allorché i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione.

C'è dunque un limite, c'è dunque una condizione che garantisce dall'abuso e preserva da ogni intemperanza od eccesso. Del resto, un popolo che è salito a maturità di coscienza politica, come il popolo italiano, non abuserà della sua libertà, ed alla resistenza ed alla insurrezione contro l'oppressione farà ricorso solo per i casi eccezionali.

[...]

Azzi. [...] E concludo accennando all'ultimo comma dell'articolo 50, quello cioè di cui hanno poco fa parlato gli onorevoli Preziosi e Di Giovanni, quello che conferisce al cittadino il diritto e il dovere di opporre resistenza all'oppressione in caso di violazione da parte dei poteri pubblici dei diritti e delle libertà sanciti della Costituzione.

Leggendo questo comma, io sono rimasto un po' perplesso perché, se dovessi dar retta al mio sentimento, alla parola «resistenza» sostituirei la parola «rivoluzione». Se però debbo dar retta al ragionamento, non so se mi sia possibile pervenire alla stessa conclusione, perché, in definitiva, chi dirà al cittadino se i poteri dello Stato hanno violato o no le libertà del cittadino stesso, considerato nella sua massa?

E gli appartenenti alle forze armate e alla polizia non sono cittadini anch'essi? E se domani costoro si mettessero tutti d'accordo per dire che i poteri pubblici hanno violato le libertà e i diritti sanciti nella Costituzione e dicessero: «Noi insorgiamo; facciamo un pronunciamento»? Insomma, sono rimasto veramente perplesso ed ho pensato che in definitiva il diritto e il dovere di ribellione, di resistenza e di rivoluzione non si possa regolare con la legge, ma sia una manifestazione collettiva, incoercibile e spontanea, che nessuna legge può regolare, e tanto meno la Carta costituzionale della Repubblica italiana. (Applausi a sinistra).

[...]

Sullo. [...] Riguardo all'articolo 50, capisco la ragione del secondo comma: alcuni hanno sentito la necessità, sul terreno morale, di ripetere agli italiani che bisogna ribellarsi al momento opportuno contro la tirannide.

Un autorevole costituzionalista della Commissione dei settantacinque mi ha detto che attribuiva a questo articolo un valore pedagogico. Con tutto il rispetto che ho per questo collega, devo dire che non capisco come si possa fare della pedagogia attraverso la Costituzione. La pedagogia non è politica, non entra nella politica, non può e non deve entrare nella politica. Gli italiani non possono, attraverso un articolo della Costituzione, ricordare ad un certo momento che essi devono saper essere fermi a difesa della libertà conquistata. L'articolo 50 deve essere sfrondato di questo secondo comma.

Onorevoli colleghi, basta considerare questo: abbiamo messo nella Costituzione il diritto al lavoro e tante altre belle cose; ad un certo momento un uomo, un partito, in nome d'un diritto, che, secondo questo individuo o questo partito, è stato conculcato, dovrebbe, a norma del secondo comma dell'articolo 50, avere il diritto di fare la rivoluzione o di porsi contro le autorità.

Non dovete, onorevoli colleghi, fare il caso più moderato e benevolo, ma il caso limite, il caso estremo: per esempio la regione o il parlamento siciliano, ad un certo momento, ritenendo che un loro diritto è stato conculcato, si ribellano, hanno diritto di ribellarsi. Io non sono un giurista ma tuttavia dico molto modestamente che mi pare che l'elemento primo in una norma giuridica sia questo: che ci sia un'autorità certa, idonea e capace che la applichi, un interprete. Dove è l'interprete che può stabilire e stabilisce a norma dell'articolo 50 quando vi è stata la oppressione, o vi è stata la violazione delle libertà fondamentali?

Se poi si desidera assolutamente affermare questa necessità di ribellarsi, è necessario in ogni caso che di questo articolo si parli dopo, allorché si parlerà della Corte costituzionale.

È naturale che il popolo dovrà difendere ciò che l'interprete della validità costituzionale avrà stabilito, avrà autorizzato ed allora sarà superfluo dirlo, perché basta l'obbedienza all'autorità costituita della Repubblica per affermare che bisogna seguire quella strada.

Io propongo che il secondo comma dell'articolo 50 sia soppresso e che l'articolo 51 formi tutt'uno con l'articolo 50, emendamento che non ho proposto ma che potrò proporre, perché si tratta di elementi che possono essere collegati. Come nel primo vi è un dovere di carattere generico per il cittadino, così nell'articolo 51 vi è l'obbligo più grave di un giuramento, per chi non è un cittadino qualsiasi. Perché altre sono le funzioni che hanno il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, la Magistratura, le Forze armate nello Stato italiano, altro è il dovere del cittadino. Il cittadino ha un solo dovere, quello di difendere la Repubblica ed obbedirle in quanto cittadino.

Il Capo dello Stato, i membri del Governo hanno un doppio dovere, non solo come cittadini, ma anche come strumenti di cui la collettività si serve per l'esercizio delle proprie funzioni. Ma che si voglia sancire questo diritto alla rivolta soltanto perché si pensa che attraverso questa strada ci si potrà liberare di quello che potrebbe di malaugurato avvenire nel futuro, non posso crederlo. Non è attraverso la legge che si difende la libertà; anche attraverso la legge. Il popolo italiano difenderà la libertà se saprà al momento opportuno anche lasciare da parte le comodità quando verrà il momento, se saprà ricordare che la libertà può essere anche non contemporanea allo sfarzo, al lusso, alla ricchezza; sarà libero se al momento opportuno saprà preferire alla servitù senza libertà i sacrifici con la libertà.

È una vecchia massima che ci è venuta da un grande francese, che il popolo italiano deve far sua.

Io penso che saprà il popolo italiano difendere la libertà direttamente al momento opportuno senza alcun comma dell'articolo 50 della Costituzione. (Applausi).

[...]

Giolitti. [...] Questo appello alla coscienza del cittadino che, come dicevo, è proprio nello spirito del Titolo quarto e che costituisce un po' il fondamento solido, la radice in cui si annida la garanzia ultima, estrema della democrazia, trova un'espressione solenne nella formulazione del secondo comma dell'articolo 50. La garanzia essenziale del regime democratico è infatti l'autogoverno, che è fondato evidentemente sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino. Ora, questa ultima ratio deve essere invocata precisamente quando la Repubblica e la Costituzione corrono l'estremo pericolo» il pericolo cioè di essere violate dai pubblici poteri. È dunque necessario, se vogliamo mantenere il significato profondamente democratico che la nostra Costituzione riveste, mantenere un appello di questo genere; specie quando, come nel caso nostro, la Costituzione si forma dopo esperienze storiche quali quelle che noi abbiamo di recente attraversato.

È necessario perciò formulare in sede di Costituzione il principio che la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino. Ciò è anche indispensabile, vorrei osservare, dal punto di vista educativo: nelle scuole, dove i principî fondamentali della nostra Costituzione dovranno essere illustrati ed insegnati, i giovani dovranno infatti sentire questo appello che viene rivolto, perché siano garantite le nostre istituzioni democratiche, alla loro dignità e libertà di uomini. È indispensabile anche, io penso, dal punto di vista giuridico. Al dovere infatti del cittadino di essere fedele alla Repubblica e alla Costituzione, come sancisce il primo comma dell'articolo 50, deve corrispondere, proprio per il coerente equilibrio di diritti e di doveri felicemente raggiunto in questo Titolo, deve corrispondere il diritto del cittadino di resistere alla violazione che venga perpetrata da parte dei pubblici poteri.

Io credo, d'altra parte, che il sancire nella Costituzione tale diritto significhi precisamente consacrare la legalità, nell'ambito della Costituzione stessa, di un atto che altrimenti potrebbe apparire come una frattura nella validità della Costituzione, la quale invece, con tale norma, assicura, in certo senso, la propria vita di fronte ad una violazione che determini la legittima resistenza.

E possiamo noi, onorevoli colleghi, dimenticare che proprio da un simile atto di resistenza all'oppressione sono nate le libere istituzioni democratiche che stiamo consacrando nella nuova Costituzione? Questa Costituzione, questa Repubblica democratica che noi edifichiamo, sono state fondate appunto dalla resistenza meravigliosa che il popolo italiano ha opposto all'invasore. Noi dobbiamo alla lotta di questo popolo, al sacrificio dei suoi figli migliori, questa possibilità che oggi ci è data di discutere, di definire, di perfezionare con metodo democratico le nostre libere istituzioni. Affermando nella Costituzione il diritto di resistenza all'oppressione, noi consacriamo l'atto di nascita, profondamente nazionale e popolare, della Repubblica democratica italiana. (Applausi a sinistra).

[...]

Terranova. [...] Io desidero in modo speciale richiamare l'attenzione di questa Assemblea sul valore politico e sociale dell'articolo 50, e, particolarmente, del secondo comma di tale articolo.

L'articolo 50 vuole riassumere, evidentemente, ciò che in senso stretto può definirsi il rapporto che intercede tra il cittadino e lo Stato. Nel primo comma si precisano i doveri del cittadino verso la Repubblica: doveri di fedeltà, di osservanza delle leggi, di adempimento delle funzioni che gli sono affidate.

Nel secondo comma, invece, si indica al cittadino ciò che deve fare quando ritenga che i suoi diritti siano conculcati e le sue libertà violate.

Il cittadino, dice espressamente questa progettata norma, deve resistere all'oppressione. Ha il diritto ed il dovere, anzi, chiarisce la citata norma, di resistere all'oppressione.

Si tratta, come è evidente, di codificare il diritto di resistenza; un diritto che è, come è noto, assai discusso e che qui si presenta sotto un profilo di eccezionale gravità. Orbene, ritengo che sia un nostro preciso obbligo valutare la portata di una siffatta determinazione; ritengo doveroso che ci si soffermi sul suo significato, sulle sue proiezioni, sulle sue possibili interpretazioni ed applicazioni, prima di assumerci la responsabilità, veramente grave, di approvarla. Intanto conviene subito chiederci: si parla di resistenza. Ma di che specie di resistenza si tratta? Un insigne Maestro di diritto pubblico, il nostro illustre e venerato collega Vittorio Emanuele Orlando, ha dedicato a siffatto tema un suo lavoro che, benché scritto quand'era ancora giovanissimo, è tuttora ricco di dottrina e di sapienza politica e giuridica. Io, che sono inesperto in materia, non potevo trovare, credo, un punto di orientamento migliore di quel libro. Ebbene, nel suo saggio, Vittorio Emanuele Orlando distingue tre tipi di «resistenza» sul piano giuridico e politico: la resistenza individuale, la resistenza collettiva legale e la resistenza collettiva rivoluzionaria. La norma sancita dall'articolo 50 parrebbe riferirsi al tipo della resistenza individuale. Vi si dice, infatti, che il cittadino è tenuto a resistere all'oppressione. Ma non è sulla parola che occorre soffermarsi. Il testo non parla di speciali e determinati casi di violazione di diritti; il testo parla di poteri pubblici che violino le libertà ed i diritti, parla di oppressione, che non può essere esercitata che nei confronti di tutti i cittadini o per lo meno di una gran parte di cittadini. Deve, pertanto, escludersi che si voglia parlare di resistenza individuale; deve ritenersi invece che si tratti di resistenza collettiva. Resta da stabilire se debba intendersi tale resistenza come legale o come insurrezionale; se cioè essa possa e debba effettuarsi con mezzi offerti dalla legge o con mezzi violenti. Tutto lascerebbe presumere che la formula adottata debba interpretarsi più nel secondo significato che nel primo.

In realtà l'articolo parla di «poteri pubblici» che violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione. Chi sono i poteri pubblici che possono effettuare tele violazione in modo da provocare la resistenza, in modo che si possa parlare di oppressione? Sono le alte cariche dello Stato, sono le Assemblee legislative, sono i componenti del Governo.

Ma il progetto di Costituzione prevede già, per l'eventuale violazione delle norme costituzionali, sanzioni gravissime contro tali alte personalità, che si rendessero colpevoli di simile infrazione alla Costituzione. L'articolo 85 precisa che il Capo dello Stato può essere messo sotto accusa per alto tradimento o per violazione della Costituzione. L'articolo 90 determina che possono essere posti sotto accusa dalle due Camere il Primo Ministro ed i Ministri per atti compiuti nell'esercizio delle loro funzioni; e fra tali atti, evidentemente, devono comprendersi anche e soprattutto quelli relativi al pieno adempimento delle norme costituzionali.

È prevista, infine, al Titolo VI, una Corte Costituzionale a garanzia, nei confronti di tutti i poteri dello Stato, della piena e fedele osservanza della Costituzione. Questa è già, dunque, la resistenza legale sancita, giustamente e saggiamente, dal nostro testo, che in tale materia si dimostra più avanzato di altri testi stranieri anche recenti. Ed è opportuno, è necessario, premunirsi da eventuali abusi che i pubblici poteri, dai più alti ai più bassi, potrebbero compiere a danno della libertà, dei diritti civili e politici dei cittadini; è doveroso, e direi persino di suprema importanza, effettuare tale garanzia, perché la libertà è troppo cara per poterne permettere la manomissione da parte di un gruppo o di un partito; ed i diritti civili sono troppo preziosi per rischiare di perderli. Nessuno di noi potrebbe nutrire dubbi di sorta su una siffatta necessità, nessuno di noi potrebbe avere perplessità od incertezze al riguardo.

Ma altro è affermare la garanzia legale, quella che istituti chiaramente determinati ed organi particolarmente adatti possono e devono effettuare; ed altro è aprire la porta alla rivolta, al disordine.

Perché questo rischio include l'articolo 50: il rischio di una rivoluzione sempre possibile. Infatti, è assai evidente che con l'approvazione di tale articolo, qualunque sommossa, qualunque rivolta può essere non solo «lecita» ma «legittima». Che cosa si vuole intendere per violazione delle libertà fondamentali? Che cosa soprattutto si vuole intendere per diritti garantiti dalla Costituzione? Se bisogna dare un significato alle parole ed un senso preciso alle disposizioni del testo costituzionale, ebbene, dobbiamo convenire che questo progetto enuncia molti diritti, che in teoria possono essere assai apprezzabili, ma di cui non potremmo garantire in pratica l'attuazione da parte della Repubblica.

Giorni or sono è stato approvato l'articolo 31, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Indubbiamente si tratta di una affermazione coraggiosa, la cui portata sociale è di grande rilievo; Ma se e quando un tale diritto non sarà operante — e non potrà essere, almeno per ora, operante — se e quando vi saranno masse di disoccupati che busseranno invano alle porte dello Stato per aver lavoro, per godere del pratico esercizio di un diritto chiaramente riconosciuto, allora si potrebbe anche parlare di un diritto che, quantunque garantito dalla Costituzione, si considererebbe violato; allora si potrebbe dire che c'è oppressione di una classe o di una oligarchia e si renderebbe legittima la resistenza e quindi la rivoluzione. Perché, onorevoli colleghi, resistenza significa, nel modo con cui è stato redatto il secondo comma dell'articolo 50, nello spirito del testo proposto, resistenza significa principio di rivoluzione, una rivoluzione che può avere, nell'intenzione migliore, per fine la rimozione dell'ostacolo che si frappone alla realizzazione del diritto conculcato, delle libertà offese; ma che quando scoppia, non ha più un fine preciso, perché le rivoluzioni si può forse sapere come e perché cominciano, ma non si sa mai come finiscono. Ora, nessuno di noi ha paura di battersi per la difesa della libertà e dei diritti; nessuno di noi paventa per viltà le conseguenze, che l'approvazione dell'articolo 50 potrebbe importare. Io non critico questo articolo per amor di reazione o per spirito conservatore o retrivo. Io dico soltanto che è inopportuno, mentre il nostro paese ha bisogno di ordine e di concordia, iniziare la nostra nuova esistenza di Stato democratico con una Costituzione, la quale contenga la scintilla della ribellione e del disordine; lo considero inopportuno, innanzi tutto per ragioni immediate, ma altresì per ragioni che discendono dal convincimento, che un ordine fondato sulla morale cattolica e sui principî sociali cristiani non può riconoscere agli individui la libertà di opposizione violenta ai pubblici poteri. La dottrina cattolica, che non può non costituire la base ed il fondamento della nostra costruzione sociale e civile, è dichiaratamente contraria ad intromettere nella società il disordine e la rivolta in permanenza. La dottrina morale cattolica ammette che solo in casi eccezionalissimi, riusciti vani tutti gli altri mezzi pacifici, può esserci una resistenza attiva contro una insopportabile tirannia; fedele, in ciò, al pensiero di S. Tommaso il quale, nella certezza che una resistenza con le armi generi quasi inevitabilmente avversità assai peggiori dei mali causati dalla tirannia, insegna che qualora si tratti di oppressione non del tutto eccessiva ed insopportabile, il popolo deve subirla in pace, in vista delle imprescindibili esigenze del fine pubblico. Ed è a tale dottrina cattolica, che anche recentemente si sono ispirati molti di noi, tanti di noi, nella lotta per la libertà contro la tirannide e per la giustizia contro l'oppressione politica e civile.

La rivolta, onorevoli colleghi, non è mai codificabile, non può costituire materia di Costituzione. La rivolta, quando è largamente sentita, quando scaturisce dalla coscienza, quando esplode dai fatti, non ha un codice che la regoli, non ha un testo che la disciplini. Essa è da prima guidata, a seconda dei casi, dal sentimento oppure dagli istinti, e poi è giudicata dalla storia, che è quanto dire dal giudizio dei posteri e dagli avvenimenti successivi. Con l'approvazione dell'articolo 50 noi ci assumeremmo la tremenda responsabilità di dare un crisma di legittimità alla rivoluzione, ad ogni rivoluzione, perché si potrà sempre parlare, da parte di chi che sia, di libertà o di diritti violati; ci assumeremmo, soprattutto, la responsabilità ancora più grande di favorire qualsiasi specioso pretesto per dar corso ad ogni sorta di rivoluzione. Ma le rivoluzioni, ripeto, non stanno, non possono stare né nelle Costituzioni, né nel diritto. Esse stanno nell'imprevisto della vita sociale, stanno nei meandri, anche se logici e talvolta stupendi, della storia. Togliamo dal testo di questo progetto, ogni scintilla d'odio, ogni motivo di lotta politica e sociale. Omettiamo il secondo comma dell'articolo 50.

Purtroppo la realtà sociale è già tanto impregnata di rancore e di violenza, da non consentirci di rinfocolare né l'uno né l'altra. Se fosse possibile, io suggerirei di mettere al posto del secondo comma dell'articolo 50 una invocazione alla solidarietà ed alla pace. Ma ciò forse non è possibile. Ed allora, se non possiamo dire una parola d'amore e di concordia, non diciamo neppure parole che suonano di richiamo all'attrito sociale, alla guerra civile, alla contesa fratricida. Altrimenti un giorno, forse non lontano, i nostri figli potrebbero maledirci per aver instillato odio e non umana simpatia, per aver seminato rovine in luogo di promuovere una pacifica ricostruzione. (Applausi al centro e a destra).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti