[Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Treves. Onorevoli colleghi, forse non sarebbe soltanto un pedantesco ricordo di scuola inserire in questa discussione un precetto del Machiavelli, «quelle buone leggi e quelle buone armi» poste dal Fiorentino a fondamento di ogni vivere civile.

Ma io lo farò solo per dire quanto caduca sia la seconda parte del precetto machiavellico e come invece debbano rifulgere «le buone leggi» a dar vita e fondamento ad ogni ordinato vivere di cittadini. Specialmente questo precetto mi sembra valevole per noi, che in questa Aula cerchiamo appunto di creare quelle buone leggi su cui deve per sempre fondarsi la nostra nuova Repubblica italiana. Ma il ricordo machiavellico mi viene suggerito, per contrapposto alle buone armi, proprio da un articolo del progetto di Costituzione che ci sta di fronte, quell'articolo 4 su cui io vorrei soffermarmi un istante, l'articolo per cui appunto le buone leggi dovrebbero per sempre escludere il ricorso alle armi.

È un articolo, nel suo spirito almeno, cui noi attribuiamo un'importanza fondamentale. A noi sembra di vedere in esso — nel suo spirito, se non ancora nella sua lettera — uno dei fondamenti principali su cui costruire il nuovo edificio italiano.

Già l'articolo 4 ha dato luogo ad una discussione elevata ed interessante in questa Assemblea, già si sono manifestati alcuni dubbi, già si sono avute alcune proposte di revisione, di modificazione, di emendamenti, ed è su queste proposte, e soprattutto sullo spirito di esse e su questi emendamenti, che prima di entrare nel vivo dell'argomento io desidererei soffermarmi un istante.

L'onorevole Russo Perez, che mi dispiace di non vedere al suo banco, è stato forse l'unico che ha introdotto una nota discorde — non voglio certo dire una nota stonata — proponendo addirittura di sopprimere questo articolo, forse per la difficoltà in cui egli si era trovato di distinguere fra guerre giuste e guerre ingiuste.

Egli, in fondo, ci ha detto che sono giuste tutte le guerre che si vincono e sono ingiuste tutte le guerre che si perdono. Non vorrei, data appunto l'assenza dell'onorevole collega, discutere questa sua opinione, che evidentemente si presterebbe a parecchie considerazioni, e non voglio neanche che l'onorevole Russo Perez si affatichi a studiare dal Medioevo in poi tutte le opinioni avanzate da teologhi, da politici e da filosofi sulle guerre giuste e ingiuste.

Del resto, l'onorevole Russo Perez non ha forse molta speranza che la sua proposta di soppressione venga accettata, perché egli stesso, in via subordinata, ha proposto un emendamento, piuttosto generico, in cui si dice che l'Italia condanna il ricorso alle armi nelle controversie fra le nazioni. Noi ne apprezziamo senza dubbio lo spirito, ma la Costituzione non è una specie di libro della discrezione, una raccolta di precetti morali, per cui si condanna in astratto una determinata norma, un determinato modo di procedere. La Costituzione è la legge, anzi la legge fondamentale, che permette o non permette, e non giudica sulla bontà morale, sulla bontà in astratto di determinate norme.

Tuttavia l'opinione dell'onorevole Russo Perez è già un passo avanti su quella espressa dal suo collega di Gruppo, onorevole Bencivenga, che anche mi dispiace di non vedere in quel settore deserto che mi sta di fronte. L'onorevole Bencivenga è una nobile figura di soldato, ma ha portato qui nella sua analisi dell'articolo 4, collegato con altri articoli attinenti a materie militari, una mentalità appunto più da soldato che da legislatore, ed ha proposto, fra l'altro, la costituzione di un comitato di esperti, militari e di altre specialità, per disciplinare tutta questa materia della Costituzione. È una proposta che, se fosse accolta, probabilmente ci farebbe rimanere qui parecchi anni e non solo fino al 25 giugno. E poi io vorrei, col permesso degli onorevoli colleghi e senza la minima irriverenza per l'onorevole Bencivenga, ricordare al valoroso soldato un motto, del resto molto noto di un grande uomo politico francese, non di sinistra, il quale durante l'altra guerra sosteneva che «la guerra è una cosai un po' troppo seria per essere lasciata soltanto ai generali».

A noi preme quindi che questo argomento, che questo articolo della Costituzione, non sia specialmente affidato ai generali, ma se mai sia commesso alla coscienza civile di tutti i cittadini italiani. I generali spesso (sia detto, ancora una volta, senza la minima irriverenza personale per l'illustre collega che mi dispiace di non vedere qui) ragionano spesso della prossima guerra con la mentalità della guerra precedente e allora siamo veramente un po' fuori tema.

Anche l'onorevole Crispo si è voluto occupare di questo articolo ed ha suggerito una modificazione che ci trova più vicini, più consenzienti. In sostanza, l'onorevole Crispo propone di ritornare alla grande tradizione costituzionale francese in materia. Ed il suo emendamento riproduce, se non nella forma, nella sostanza, l'articolo 46 del primo progetto costituzionale francese che ritroviamo nel preambolo della Costituzione della repubblica francese. È esattamente lo stesso concetto, anche se forse la formula francese è leggermente migliore, sia nell'espressione che nella icasticità, poiché meglio afferma il concetto che la Repubblica francese non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo. È un concetto che ci piacerebbe di vedere affermato anche nella nostra Costituzione, perché purtroppo la storia recente prova che ci possono essere attentati alla libertà dei popoli anche senza giungere alla formale dichiarazione di guerra, e nei quali sono coinvolte le forze, anche se non legalmente le truppe, di altri Stati.

Ma noi, onorevoli colleghi, vorremmo qualche cosa di più in questo articolo 4; vorremmo un'affermazione più decisa. Noi auspicheremmo che l'Italia desse l'esempio con questo articolo di quel futuro diritto internazionale, e ancor più direi, costume democratico internazionale, che desideriamo possa un giorno reggere un mondo migliore e più giusto. Vorremmo vedere nell'articolo 4 incorporato il principio che la Repubblica non ricorrerà alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali. Se l'articolo 4 ha un senso, effettivamente esso deve superare questa astratta formulazione che condanna le guerre di conquista, specialmente in questa situazione politica e generale, specialmente dopo quello che è successo in questi ultimi anni, la tragedia di cui siamo ancora tutti pervasi e di cui ancora tutti soffriamo le conseguenze.

Io credo che dobbiamo affermare un principio più positivo, un principio valevole per oggi e per domani. È un principio, signori, che a noi di questo settore è molto caro, perché, veramente, risponde a tutta una tradizione del nostro partito. È un principio che da questi scanni i nostri padri e maggiori hanno sostenuto e difeso sin da prima dell'altra guerra mondiale. È un principio a cui noi teniamo a rimanere fedeli. Non è, come ci si potrebbe obiettare, un principio utopistico. Non si sorrida di questa nostra fiducia nella collaborazione, nell'arbitrato internazionale, non si ripeta quella posizione che era una volta, non troppo tempo fa, così diffusa — quella posizione per cui si sorrideva di compatimento e di superiorità di fronte al briandismo al locarnismo e al ginevrismo — sì, sorrisi che ci hanno purtroppo portati a conclusioni amare.

In quest'articolo noi vorremmo che fosse dalla Repubblica codificato che la guerra non deve essere strumento di risoluzione dei conflitti internazionali, un principio che veramente risponde a quella che è l'essenza della nostra nuova democrazia, quella democrazia che è sorta non da spiriti imbelli, ma proprio al contrario — detesto di fare retorica — dal grande apporto della guerra partigiana.

Anche le obiezioni che potrebbero venire da alcuni internazionalisti — per il principio cioè della bilateralità — non ci spaventano troppo, perché, oltre il diritto, a noi sembra che debba esistere anche la moralità internazionale: un principio che vorremmo vedere nettamente affermato nella Carta costituzionale della Repubblica italiana.

Nella situazione internazionale in cui viviamo, in questo urto di blocchi giganteschi in questo scatenarsi di sfiducia e di interessi reciproci, può essere un nobile compito, per noi italiani, proprio quello di parlare della ragione. E non si dica che con ciò si fa del donchisciottismo inutile; direi, se mai, signori, che così si applica il buon senso di Sancio Pancia, che è una cosa diversa.

Ma sento già sorgere e ritorcersi contro di me un'altra frase machiavellica, poiché ho avuto l'imprudenza di nominare il Segretario fiorentino all'inizio di questo mio intervento: il timore cioè che da noi si suggerisca la figura, e quindi la fine, dei profeti disarmati. Ebbene, signori, anche a questo punto io credo che potremmo ricordare i venti anni durante i quali hanno dominato i così detti profeti armati, profeti che non erano che profeti di menzogna ed armati, appunto, soltanto di menzogne, perché anche le millantate armi si sono fortunatamente spuntate contro l'armatura della coscienza civile del mondo. Su questo terreno dei profeti armati e dei profeti disarmati noi non parteggiamo né per gli uni né per gli altri; ma preferiamo parlare di cittadini veramente consci della loro funzione, in questo mondo in tumulto.

Non è disdicevole, nella nostra piena e riconquistata sovranità, io credo, di inserire questo principio di veramente illuminata democrazia nella nostra Carta fondamentale: principio, del resto, che mi sembra si compenetri perfettamente nella seconda parte dell'articolo 4, quella limitazione di sovranità necessaria, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, ad un'organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. In ogni modo, oltre la dizione formale, noi vorremmo che tale fosse lo spirito di questo articolo che, sul limitare della nostra Carta costituzionale, deve dare veramente il senso e la spiegazione della coscienza profonda del nostro popolo. Vorremmo che esso fosse un'affermazione positiva sul piano internazionale e un'effettiva garanzia di pace, di quella pace, mi si perdoni ancora il ricordo scolastico, che un poeta italiano vedeva sorgere con le ali candide dal sangue versato, ma senza saper rispondere all'angoscioso dubbio del «quando?». Ebbene, signori, forse, quando gli italiani, oltre che cittadini della Repubblica democratica dei lavoratori, si sentiranno anche effettivamente cittadini del mondo. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

[...]

Assennato. Onorevoli colleghi, desidero intrattenere brevemente l'Assemblea sugli articoli 3 e 4 del progetto di Costituzione. In realtà l'articolo 3 non si presta agevolmente a una discussione, in quanto che esso è stato approvato quasi all'unanimità dalla Commissione. Parmi però necessario sottolineare anche il fatto che l'articolo 3 sia stato approvato col pieno accordo di tutti, sia perché l'accordo va sempre in qualche modo celebrato, perché può determinare conseguenze utili anche per altre disposizioni, sia perché dopo 25 anni di dispregio di tutte le forme di solidarietà internazionale, di retorica, di supremazia di forze, di indifferenza verso forme di solidarietà, parmi che la dichiarazione formulata dall'articolo 3, contenente l'impegno di immettere nel proprio ordinamento giuridico interno le norme generalmente accettate dall'ordine giuridico internazionale, richieda una certa attenzione da parte dell'Assemblea per le conseguenze, anche di carattere pratico, che ne possono derivare, ma soprattutto per l'orientamento che deve generare nella educazione dei giovani.

Vi è qualche cosa di nuovo nell'articolo 3. Il diritto internazionale era concepito e lo è tutt'ora — non direi che si sia molto allontanato dalle forme originarie — come un complesso di norme giuridiche che determinano gli obblighi e i diritti delle classi dominanti, delle unità che compongono la comunità internazionale.

La rinunzia alla guerra, consacrata nell'articolo 4, non va intesa in senso pacifista assoluto, cioè nel senso di rinunzia al diritto ed al dovere di difesa del territorio, dell'indipendenza, della libertà, della Costituzione, ma come ripudio delle guerre di aggressione, di predominio, di compressione della libertà altrui.

Vi è nell'affermazione contenuta nell'articolo 4 qualcosa di nuovo, che, pur ripetendo formulazioni analoghe del Patto di Kellogg, della Costituzione di Weimar o di altre recenti, ha particolare significato per la nostra Costituzione, essendo stati, purtroppo, noi a fare uso ed abuso dell'elemento guerra nella vita tra i popoli. Il che mi porta a rievocare — e di questo dovrebbero prendere atto particolarmente alcuni, che vorrebbero riallacciarsi al passato — l'operato di Giolitti; il quale, ammaestrato dalla facilità con cui il sovrano era propenso ad apporre firme ad atti di dichiarazione di guerra, propose di riformare lo Statuto nel senso di togliere al sovrano la facoltà della dichiarazione di guerra; il che significa che egli, per la conoscenza dell'individuo, delle costumanze sue e della sua dinastia, aveva ben compreso quanto fosse pericoloso l'avere affidato le sorti del Paese a chi non si preoccupava di osservare le norme costituzionali, ma soltanto di trarre profitto dalla dichiarazione di guerra.

Questo non significa, però, che con grande entusiasmo si possa confidare nelle forze innovatrici di questo diritto internazionale, di cui nelle norme generali si fa cenno. Anzi, si potrebbe rievocare la favola di Fedro: Ovis et leo. Nella realtà il leo si fece capo di questa società e perdurano certamente gli elementi della favola di Fedro.

Vi sono, però, nuove correnti, che danno bene a sperare; e questa speranza è realizzata dal comune assenso d'ogni corrente nel dare il proprio voto ad un articolo così formulato.

Queste nuove correnti sono rappresentate dal fatto che nella comunità internazionale non sono presenti soltanto gli elementi che ho citati, ma ve ne sono altri: vi è una serie di Paesi socialisti, i quali portano all'ordinamento internazionale il tributo del loro ordinamento interno, poiché ogni ordinamento riflette la struttura della società di cui è espressione.

Questi Paesi socialisti portano nella comunità internazionale la voce delle classi lavoratrici; portano un tributo di nuova democrazia, di nuovi orientamenti, tanto è vero che deve essere stato accolto con plauso il tentativo, anche se non riuscito interamente, della Federazione mondiale dei sindacati di far parte dell'O.N.U., tentativo che se non è riuscito appieno, non è detto che per questo non abbia una certa influenza e non determini delle simpatie, non determini cioè un apporto maggiore di democrazia, con una più larga base che viene poi espressa nel nuovo ordinamento giuridico internazionale.

Vi è, naturalmente, negli articoli 3 e 4 del progetto un orientamento, una tendenza e un programma, tanto che forse ad alcuni sarebbe parso opportuno comprendere quella formulazione nel preambolo, come orientamento generico richiamato anche da altre Costituzioni, e con la significazione particolare per noi, dopo 20 anni di fascismo, di dare la certezza che la guerra non avrebbe fatto parte del nostro bagaglio politico, e che avremmo cercato di immettere nel nostro ordinamento quanto potevamo di meglio delle norme internazionali generalmente accettate.

Si è ritenuto meglio di procedere, non ad una formulazione generica, ma precisa, impegnativa che serva come programma, come tendenza, come orientamento. Certo queste norme non sono ancora ben consolidate nella coscienza dei popoli, e potranno trovare maggiore possibilità di successo quando i nuovi elementi che saranno immessi nella vita internazionale potranno dare un maggiore apporto.

In un volume, che è un monumento elevato a se stesso, uno storico inglese, dopo aver parlato delle miserie e delle grandezze del nostro Risorgimento, conclude quella storia italiana, un po' lontana ormai, affermando che all'Italia non è concesso di svolgere una politica internazionale di forza e una politica internazionale propria; ma ammonendo che essa però, se orientata verso una sana democrazia, può costituire in Europa l'elemento più decisivo ed importante per la vita pacifica del consorzio europeo.

Egli osservava, tuttavia, che questo compito richiedeva uomini più capaci, uomini del genio di Cavour.

A noi non interessa di indagare chi potrà essere quest'uomo, ma interessa di conoscere la corrente donde potrà venire questo nuovo contributo che l'Italia potrà dare certamente alla compagine internazionale.

Ebbene, esso non potrà provenire che dalle file del lavoro, della classe lavoratrice. È di lì, dalla più sana democrazia, che potrà venire un impulso maggiore per le opere di bene e di solidarietà. È dalle classi lavoratrici, nella loro marcia verso l'unica famiglia socialista, che potranno sorgere le fondamenta di una vita di pace e di tranquillità.

È per questo che il partito socialista dà la sua adesione incondizionata agli articoli 3 e 4, così come sono proposti nel progetto. (Applausi a sinistra).

[...]

Valiani. [...] E vengo all'articolo 4, a proposito del quale mi sono permesso di presentare un emendamento, di cui do lettura: cioè di sostituirlo col seguente: «L'Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e respinge ogni imperialismo e ogni adesione a blocchi imperialistici. Accetta e propugna, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, qualsiasi limitazione di sovranità, che sia necessaria ad un ordinamento internazionale di pace, di giustizia e di unione fra i popoli».

Perché questo cambiamento? Perché questa proposta? Intanto, perché, se si accetta la dizione per cui l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale, ci si riferisce a un documento internazionale, già esistente, e che l'Italia a suo tempo ha firmato, il Patto Briand-Kellogg del 1928, che conteneva questa dizione. E credo che rifarsi ad una tradizione politica internazionale — in un certo senso, di diritto internazionale — sia cosà utile, perché segna il cammino che noi dobbiamo percorrere, indica la critica alle deviazioni del passato, e dà un senso ben preciso alla nostra volontà di rinunciare alla guerra. Quando invece si dice: «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli», si entra veramente in quel campo in cui si finisce sempre con lo stiracchiare i fatti, per dimostrare che si salvaguarda la libertà di un Paese intervenendo con le armi, o che viceversa la si salva non intervenendo. La storia recente è piena di contraddizioni in proposito.

Basti pensare soltanto all'ultimo grande fatto di politica internazionale: il messaggio di Truman, che pone le frontiere strategiche degli Stati Uniti in Grecia e in Turchia, allo scopo — come dice il Presidente americano — di difendere la libertà di quei popoli. Io potrei anche pensare che la libertà di quei popoli non si difende efficacemente inviando degli istruttori militari a sostegno di Governi che non sono né democratici e neppure liberali. (Applausi a sinistra).

Non so fino a che punto quei governi abbiano dietro di sé il consenso di una parte del popolo. Ho letto recentemente in un grande giornale americano, molto vicino al partito repubblicano, un resoconto della situazione in Grecia, che farebbe supporre come quel Governo poggi soltanto su una ristretta parte del popolo. Ma quale che sia la base popolare di questo Governo, è chiaro che esso, che pone limitazioni di ogni genere alla libertà di stampa e di organizzazione di una parte delle forze politiche del Paese, non può essere considerato come un Governo democratico liberale. Tuttavia si vuole intervenire in difesa della libertà di quei popoli. Si potrebbero citare altri esempi, presi da altre parti; esempi infiniti che sono tutti davanti alla nostra mente, a cominciare da quello sciagurato giorno in cui si intervenne in Etiopia, per sostenere — si diceva anche lì — una libertà del popolo etiopico. Certo, anche quello del Negus non era un esempio di Governo liberale. Da quel giorno ad oggi gli esempi sono numerosissimi e provano soltanto che questo articolo darà luogo sempre a tante interpretazioni quante saranno le forze politiche in contrasto fra loro.

Il patto Briand-Kellogg aveva invece il vantaggio di fissare un principio generale, generalissimo, sul quale non ci doveva essere discussione: qualunque paese avesse dichiarato la guerra e si fosse valso della guerra come strumento di politica internazionale, sarebbe stato un paese condannato dalla coscienza civile.

Ricordo che alcuni uomini politici di rango internazionale del tempo discussero a lungo sulla definizione dell'aggressore, riallacciandosi a quel patto, e quelle discussioni formano ormai un capitolo della storia del diritto internazionale, anche se non contengono precise norme di diritto pubblico internazionale, perché il fascismo lo impedì.

Quindi, con questa dizione noi ci riallacciamo ad una nobile tradizione politica e diamo alla nostra Costituzione un senso ben preciso ed una meta da raggiungere. Noi siamo incondizionatamente, e non soltanto in riferimento ad una certa interpretazione politica, per la rinunzia alla guerra. Se ci attaccheranno ci difenderemo, ma noi abbiamo il fermo proposito di non attaccare mai nessun altro popolo, sia esso un popolo retto con ordinamenti liberali o con altri ordinamenti. Non andremo più in Grecia né per battere Metaxas, né per difendere la libertà della Grecia contro il comunismo, come sostiene l'America.

Io chiedo che sia fatta questa modifica; la quale ne implica una successiva, cioè che noi dobbiamo respingere ogni imperialismo ed ogni adesione a blocchi imperialistici.

Presidente Terracini. Onorevole Valiani, la prego di concludere.

Valiani. Cercherò di essere breve; però faccio presente che un oratore dell'altra parte ha parlato l'altro ieri per un'ora e mezzo.

Respingere dunque ogni adesione a blocchi imperialistici. Mi pare sia necessario di formulare oggi questo concetto nella nuova Costituzione, se vogliamo che questa possa valere nella realtà dei decenni che ci stanno di fronte.

È chiaro che proprio oggi, più che mai, noi siamo sollecitati di aderire a blocchi; è chiaro che grosse pressioni sono esercitate sulla democrazia e sulla Repubblica italiana per portarla ad aderire ad un blocco o ad un altro, ed è chiaro che la politica estera della nostra Repubblica e la sorte dei nostri ordinamenti politici non potranno non risentire nei successivi anni della pressione che sarà esercitata su di noi per farci aderire ad un blocco.

Ma noi non dobbiamo aderire a nessun blocco, nemmeno se ci si presenterà come avente per corrispettivo allettamenti di carattere economico e finanziario. Gli italiani non devono modificare la loro volontà di non commettere più i tragici errori del passato recente.

Credo che rafforzeremo questa volontà, questa capacità di resistenza, se sapremo codificarla nella Costituzione medesima. Infine la dizione per cui si accetta, non la limitazione di sovranità eventualmente necessaria, ma qualsiasi limitazione di sovranità necessaria al sorgere di un ordinamento internazionale di unione tra i popoli, mi pare importante: perché anche qui si finirà, altrimenti, col tirare la corda in un senso o nell'altro per dimostrare che una certa limitazione di sovranità è necessaria e quell'altra no.

In realtà, se ci vogliamo porre ad una altezza ideale nel desiderio di pace, di unione, che esiste fra i popoli e che solo può impedire una nuova guerra, noi dobbiamo affermare qualsiasi limitazione. Quali che siano le limitazioni di sovranità, purché servano a cementare l'unione fra i popoli e in particolare l'unità europea, dobbiamo accettarle. Nella dizione attuale io ho l'impressione che si sia voluto mettere lo Stato italiano un po' sulla difensiva contro questo nuovo concetto dell'interesse comune mondiale, della sovranità mondiale, dell'unità europea e mondiale, che è il concetto nuovo della nostra epoca, il concetto informatore che trionferà, se l'umanità non vorrà distruggere se stessa nella barbarie.

Perciò chiedo il voto sull'emendamento che ho presentato. (Applausi a sinistra).

[...]

Mancini. [...] Questo senso di giustizia arriva fino al punto di condannare la guerra. In proposito ho ascoltato il compagno onorevole Treves che, poco fa, notomizzava sottilizzando l'articolo 4, così preciso nella forma e nella sostanza.

L'articolo in parola deve essere riguardato in se stesso, nei rapporti delle altre Costituzioni ed in quello internazionale. Esso dichiara «la guerra al regno della guerra»; perché non solo rinunzia alla guerra di conquista, ma, nello stesso tempo, auspica qualche cosa di meglio: un'organizzazione internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. Su tali parole io richiamo tutta l'attenzione dell'Assemblea e specialmente quella di coloro, i quali si sono fermati soltanto alle prime frasi dell'articolo trascurando quelle che esprimono il vero ed intimo concetto di coloro che hanno compilato l'articolo. La giustizia tra tutti i popoli uccide per sempre la guerra; perché quando, nel nuovo ciclo storico internazionale, la classe operaia diventerà la protagonista della storia, l'arco celeste della pace si profilerà sugli orizzonti di quei tali «confini scellerati» di cui cantava nell'Inno dei lavoratori un Uomo, il cui spirito è sempre presente in questa aula.

Come si vede è un'esigenza dell'umanità intera, che si è consacrata in questo articolo, della umanità insanguinata, e anelante alla pace fra le genti.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti