[Il 22 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Monterisi. Non vi nascondo, signor Presidente, onorevoli colleghi, la mia emozione nell'accingermi a parlare per la prima volta in quest'Aula di Montecitorio.

Non sono né un giurista, né un oratore. Ma ho idee precise e profonde convinzioni. E voi onorevoli colleghi, mi ascolterete benignamente. Per ben intenderci su quanto vi dirò, è necessario stabilire un concetto fondamentale sulla famiglia cristiana.

Si è affermato da taluno che l'idea religiosa è ormai sorpassata. Niente di più falso: l'idea religiosa è vivissima nel nostro popolo, tanto vero che, nelle passate elezioni, tutti i partiti hanno in mille maniere dichiarato la loro religiosità, la loro cattolicità, e si è detto persino che sarebbe stato bene interrompere le prediche religiose da parte dei sacerdoti mentre i candidati tenevano i loro discorsi e comizi.

Si è detto da taluno che i problemi materiali stanno mille volte al di sopra dei problemi spirituali. No; per noi non è così. Pur essendo rispettosi di tutte le ideologie, per noi il problema si imposta in un modo perfettamente contrario.

Non già che noi vogliamo trascurare i problemi materiali, noi cerchiamo anzi di elevare il più possibile le classi umili. Ma, al di sopra dei problemi materiali, poniamo quelli spirituali. Noi diciamo che non l'individuo è per lo Stato, ma lo Stato per l'individuo. Perciò lo Stato deve far sì che l'individuo raggiunga il fine per cui è stato creato: la salvezza eterna.

Ecco perché noi vogliamo la santità della famiglia, la purezza dei nostri figli e delle nostre fanciulle che formano la gemma più bella del sacrario domestico. Conosciamo tutti tante povere famiglie nelle quali non vi è alcun freno morale. I capi di casa sperperano i loro guadagni in bettole e bagordi e naturalmente le mogli trescano alle spalle del marito e le figliole alle spalle dei genitori.

Noi vogliamo conservare integra la santità di tutta quanta la famiglia italiana.

Siamo per questo contrari al divorzio, che mina alle basi stesse la famiglia. Si vorrebbe da taluno ammetterlo in determinati casi. Sono i cosiddetti divorzisti moderati. Essi ammettono come motivi plausibili di divorzio tre cause pietose fondamentali: cause di ordine legale, morale, fisiologico.

Se si ammettesse il principio del divorzio anche ridotto, la società non farebbe che precipitare moralmente sempre più in basso e le passioni prenderebbero al più presto un terribile sopravvento, con immensi disastri per le famiglie.

Uno dei casi più pietosi è, per i divorzisti moderati, rappresentato dalla moglie di colui che è stato condannato all'ergastolo. Perché obbligarla, si dice, a continuare a portare un nome disonorato, a conservare una forzata castità sempre in pericolo? Se concedessimo quel divorzio, il povero ergastolano, perderebbe oltre alla libertà, anche gli unici affetti sacri rimasti, cioè quello della moglie e dei figli.

Forse quel disgraziato, in un momento di follia, di incoscienza, ha commesso un delitto, mosso proprio dall'interesse stesso della famiglia; e noi verremmo col divorzio a privarlo della stessa famiglia causa della sua sventura.

Si legge nella vita di Bartolo Longo «il padre dei figli dei carcerati», la grande commozione che provavano i prigionieri quando qualche volta riuscivano a vedere, anche per qualche istante, i loro cari, ed egli asseriva che il pensiero della famiglia era per essi l'unica forza di riabilitazione. E noi vorremmo col divorzio, togliere loro questa grande possibilità di rinascita!

Si suole dire da taluno che si impone il divorzio almeno in caso di adulterio. Allora noi premieremmo colui o colei che ha commesso l'adulterio e l'aiuteremmo a spezzare proprio quella catena che non vuole più sopportare. Questi avrebbe sempre un premio del male fatto, anche se la legge proibisse l'unione fra gli adulteri, perché riacquisterebbe l'agognata libertà.

Altra causa che si vuole addurre per la concessione del divorzio sono le malattie croniche o infettive o l'impotenza. Non c'è cosa più inumana, più anticristiana di questa.

Il povero coniuge ridotto in cattive condizioni di salute perderebbe l'assistenza ed il conforto del coniuge sano, quando maggiore è il bisogno, mentre pure col matrimonio i due coniugi si sono giurati amore eterno.

Anche nel caso dell'impotenza, non è giusto che il divorzio sia accordato, perché l'impotenza stessa potrebbe essere causata da ragione di ordine superiore, come il servizio della Patria o altro superiore dovere. Si avrebbe allora che mentre la Patria elogia come eroe il suo soldato, la moglie lo abbandona per passare ad altre nozze. Sono questi i casi in cui si impone il sacrificio personale, poiché è mille volte meglio che si sacrifichi qualcuno per la massa e non che la massa sia sacrificata all'interesse di qualcuno.

La Chiesa per questo ha sempre condannato il divorzio. Si è insinuato da taluni che la Chiesa accorda facilmente il divorzio, ma questo è una falsità. Io so, per mia esperienza personale, che tutte le volte che mi sono occupato perché fosse annullato qualche matrimonio ho sempre trovato le più grandi difficoltà. Del resto, per convincersi della inflessibile opposizione della Chiesa, basta dare uno sguardo all'opera sua attraverso i secoli. La Chiesa è stata sempre coerente a sé stessa circa l'indissolubilità del matrimonio, perché connessa alla sua stessa divina costituzione. La Chiesa ha ricevuto la sua legge da Cristo e non può violarla. Verrebbe meno alla sua missione!

Quando Cristo venne sulla terra, la morale del mondo pagano era molto bassa. Eppure Egli è riuscito ad affermare la purezza dei costumi e la santità della famiglia, è riuscito a richiamare tutti a quella grande virtù che è la purezza cristiana. È questo uno degli argomenti in favore della divinità di Cristo, perché soltanto Dio poteva in un mondo così corrotto svolgere tale grande opera di purificazione.

La Chiesa ha sempre sostenuto che anche in caso di infedeltà non è lecito il divorzio; che la moglie sposi un altro uomo o che il marito sposi un'altra donna.

Scorrendo la storia della Chiesa, troviamo che nel quarto secolo San Girolamo e Sant'Agostino sono apertamente contro il divorzio. San Girolamo dice che anche se il marito è scellerato, adultero, la moglie non può contrarre altro legittimo matrimonio. Sant'Agostino dichiara che anche in caso di sterilità l'uomo non può lasciare la propria moglie per sposare un'altra.

Nel concilio di Trento fu affermato chiaramente: «Sia anatema a colui che dice che la Chiesa erra nell'insegnare che il matrimonio non può essere risolto per adulterio, neanche a favore del coniuge innocente».

Anche nei tempi moderni Pio XI insegna che non si può, per adulterio, e tanto meno per altre ragioni, concedere il divorzio. E Pio XII dice che nessuna potestà al mondo può concederlo, neanche «la nostra di Vicario di Cristo».

La Chiesa soltanto per necessità contingenti si mostrò tollerante con i primi imperatori cristiani, ai quali era impossibile promulgare leggi eccessivamente coercitive ai loro popoli, cui in materia di morale tutto era lecito.

Con questi accorgimenti la Chiesa è riuscita a far penetrare il concetto della indissolubilità del matrimonio nel mondo pagano.

E non ha esitato, per difendere l'indissolubilità del matrimonio, ad ergersi contro i re. Innocenzo III ingiunse a Filippo Augusto di Francia di riprendere Ingeburga, dicendosi anche pronto a versare il suo sangue se Filippo avesse reagito.

Clemente VII si oppose a Enrico VIII, che aveva ripudiato Anna d'Aragona per sposare Anna Bolena. Il Pontefice, richiesto di annullare il primo matrimonio, gli rispose il famoso «non possumus». Per cui Enrico VIII diventò apostate dalla Chiesa cattolica, e suscitò una persecuzione nella quale il Vescovo Giovanni Fischer e Tommaso Moro furono martirizzati.

Napoleone I pretendeva la soluzione del suo matrimonio con Giuseppina di Beauharnais e quello del fratello Girolamo con la Patterson. Pio VII gli rispose: «Mi renderei colpevole dinanzi al tribunale di Dio».

La Chiesa, onorevoli colleghi, è stata sempre inflessibile di fronte al divorzio e quando la si accusa di averlo comunque favorito si asserisce cosa del tutto falsa, se non calunniosa. Ed è per questa inflessibilità della Chiesa che noi vogliamo l'indissolubilità del matrimonio.

Noi cattolici siamo contrari al divorzio, perché è contrario alla natura del matrimonio, che richiede la perpetuità dell'amore. Il divorzio è il più grande nemico del focolare domestico. Il divorzio è contro gli interessi della società civile, perché disorganizza la famiglia, e quindi lo Stato, economicamente e moralmente. Siamo contrari al divorzio, perché anticristiano.

Il divorzio è antinazionale, perché finirebbe senza dubbio col creare il dissidio fra la Chiesa e lo Stato. Si spezzerebbe la unione con tanto sforzo ottenuta.

Infine, il divorzio distrugge uno dei fini principali del matrimonio: l'educazione dei figli. Non è ammissibile che i figli possano essere educati come si conviene, se i genitori si separano.

[...]

Monterisi. Onorevoli colleghi, la lotta violenta di tanti oratori contro l'indissolubilità del matrimonio e l'insegnamento religioso è difficile a comprendere.

Per spiegare questo atteggiamento è proprio necessario rifarsi alle parole di Cristo.

«E sarete a tutti in odio nel nome mio!» «Se hanno perseguitato me che sono il Maestro, perseguiteranno anche voi!». Se l'Assemblea accetterà che il matrimonio sia dissociato e impedito l'insegnamento religioso, non è difficile prevedere una lotta tra lo Stato e la Chiesa, lotta che presto o tardi si muterebbe in una vera e propria persecuzione.

Noi non ce ne meraviglieremmo. La Chiesa conta 2000 anni di lotte e di trionfi. Essa è l'incudine che riceve tutti i colpi senza restituirli, ma sulla quale si infrangono tutti i martelli. Dobbiamo solo constatare dolorosamente che nulla ha insegnato ai moderni persecutori le esperienze del passato anche recenti.

Presidente Pecorari. Onorevole Monterisi, la prego di concludere.

Monterisi. La Chiesa è stata sempre combattuta, ma ha sempre vinto. Quante volte, battuta, sembrava che stesse per sommergersi! Ma la storia ci insegna, senza tema di smentite, ininterrottamente, che, all'indomani dei loro effimeri trionfi, i nemici di Dio e della Chiesa mordevano la polvere accecati dallo splendore della divina promessa, mentre sulla barca di Pietro, che navigava vittoriosa tra gli scogli celanti le mille insidie, garriva al vento il fatidico gagliardetto su cui brillava sempre più fulgido il divino motto: Non praevalebunt. (Applausi al centro).

[...]

Corsanego. Onorevoli colleghi, l'ora tarda mi costringe a ridurre il mio compito, che era già umile per sé, perché, dopo aver inteso l'amplissima discussione che è stata fatta in quest'Aula da colleghi autorevoli di tutti i settori dell'Assemblea, in ordine ai problemi della famiglia, io devo soltanto dare delle modeste spiegazioni che giustifichino — come relatore e facente parte della prima Sottocommissione — la formulazione che abbiamo dato ai problemi della famiglia nella presente Carta costituzionale, per sottoporli al vostro vaglio e alla vostra approvazione.

Qualche collega ha osservato che gli articoli sono stati presentati quasi di sorpresa. Un deputato, da questi banchi, ha detto: «Un bel giorno ci siamo trovati davanti a questi articoli; speriamo che la Commissione ce li spieghi».

Noi ricordiamo che gli articoli sono stati preceduti ed accompagnati da quattro relazioni; gli articoli del titolo riguardante i rapporti etico-sociali sono stati lumeggiati dalla relazione dell'onorevole Signorina Iotti, dalla mia relazione, da quella del Professor Marchesi e da quella del collega Moro; di più, le quattro relazioni sono state riassunte in quella del Presidente della nostra Commissione, onorevole Ruini. Aggiungo che tutti i deputati hanno avuto a disposizione i verbali delle Sottocommissioni e quindi la presidenza dell'Assemblea ha posto in grado tutti quanti i colleghi di conoscere la genesi, non soltanto di ogni singolo articolo ma, oserei dire — attraverso le numerose discussioni — di ogni singola parola e di ogni singola virgola.

Mi devo occupare soltanto degli articoli sulla famiglia, perché di quelli sulla scuola vi ha parlato il collega ed amico Moro.

Una prima consolante affermazione, un primo consolante risultato, che è un risultato notevole, oltre che politico, un risultato morale: sia nella Sottocommissione, sia nella Commissione dei 75, sia in questa stessa Aula, da tutti i banchi e recentemente, mi pare ieri, dalla onorevole Nadia Spano, abbiamo avuto un unanime riconoscimento dell'importanza della famiglia nella vita sociale. Tutti hanno riconosciuto che si tratta di un'istituzione fondamentale, di una pietra su cui si costruisce l'edificio sociale, che se essa vacilli o si sgretoli con essa pericola e crolla l'intera società civile. Ora, lo Stato non è soltanto un insieme di palazzi, di ministeri, di ponti, di strade, di aule giudiziarie o legislative; lo Stato è prima di tutto un aggregato di famiglie viventi sullo stesso suolo, legate da vincoli di affetto, di fede, di cultura, di tradizioni domestiche; è un insieme di individui che sono riuniti intorno a tanti focolari, per cui lo Stato e la Nazione prendono il dolce nome di Patria, la terra dei padri.

Lo Stato di fronte a questa famiglia, a questa istituzione fondamentale, ha l'interesse di tutelarla e di difenderla. Viene qui subito una prima questione: la Costituzione si deve occupare della famiglia? Ci sono delle voci discordi su questo argomento, e taluna, anche molto autorevole, che vorrebbe cancellare dalla Carta costituzionale le norme sulla famiglia, riservandole soltanto al Codice civile. Come rispondiamo a questa obiezione? Innanzitutto col fatto: dopo la guerra del 1914-18 le Costituzioni che si vennero man mano formando e promulgando hanno dettato nei loro articoli norme sulla famiglia. Così la Costituzione jugoslava, così la irlandese, così la spagnola del 1931, così quella di Weimar, così il progetto del Giappone. Questo è un dato di fatto; ma c'è un motivo più profondo. Troppo abbiamo sofferto nel ventennio passato, troppo siamo stati scottati dal puro arbitrio del legislatore in ordine alla famiglia. Una gentile collega, da codesti banchi di sinistra, ci ricordava che il legislatore, appunto approfittando del silenzio dello Statuto Albertino in ordine alla famiglia, ha potuto dettare una serie di norme che violavano la libertà della famiglia: ha potuto fare obbligo a talune classi d'individui di sposarsi, pena il non far carriera, ha fatto divieto ad altri individui, per esempio agli ebrei, di sposarsi in terra italiana; ha stabilito divieti di nozze con stranieri ed ha ordinato nel Codice civile l'educazione fascista dei figli. Ora, questo totalitarismo noi vogliamo che mediante gli articoli della Costituzione non sia più possibile, cioè noi vogliamo impedire che un'effimera maggioranza parlamentare, e, peggio, un decreto del potere esecutivo, possa scardinare l'istituzione fondamentale della società, che è la famiglia.

Si è detto che la formula: «La famiglia è una società naturale» non è felice. Quanti si sono fermati su questa formula! Io confermo che la formula a me non sembra felicissima. Non era la formula che noi avevamo presentato per prima. Io ne avevo presentata un'altra, e precisamente questa: «Lo Stato riconosce la famiglia come unità (o istituzione) naturale e fondamentale della Società» che poi, attraverso il vaglio delle discussioni, ha subìto tante varianti fino a diventare questa: «La famiglia è una società naturale». Noi troveremo certamente una via di accordo. Prendendo in considerazione i vostri emendamenti e ascoltando le voci che ce li illustreranno, troveremo insieme una formula migliore.

Però quello che importa è di affermare nella Carta Costituzionale che lo Stato non crea i diritti della famiglia, ma li riconosce, li tutela e li difende perché la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti, e lo Stato non deve fa altro che dare loro la efficace protezione giuridica.

Il legislatore non può «il libito far licito in sua legge». Qui noi stiamo costruendo una Carta costituzionale la quale codifica, cioè dà forma giuridica, ai diritti di libertà: diritti di libertà della persona, diritti di libertà del lavoro, diritti di libertà umana, diritti della famiglia che sono anteriori alla legge positiva scritta. Non facciamo qui la disquisizione teorica sulla esistenza, e sul significato che gli studiosi danno alle norme di diritto naturale; è certo che la legge scritta deve conformarsi a certe norme che preesistono al legislatore, che sono anzi le sue ispiratrici. Avviene questo anche quando si codificano norme particolari, quando per esempio nel Codice penale si pone la discriminante della legittima difesa e si dice che si può impunemente uccidere il fur nocturnus che viene durante la notte a turbare i nostri sonni, a rubarci il nostro peculio. Che cosa fa il legislatore in questo caso? Il legislatore non fa altro che dare formula giuridica a un diritto preesistente, Ulpiano stesso fin dai suoi tempi lo aveva insegnato: vim vi repellere licet idque ius naturae comparatur.

Noi siamo contro il concetto fascista: «tutto per lo Stato, tutto nello Stato, nulla contro lo Stato», e respingiamo la dottrina totalitaria la quale, considerando lo Stato unica fonte di diritto, vorrebbe che individui ed enti possedessero solo quel tanto di diritti che allo Stato — feudo del partito dominante — piacesse consentire. Voi sapete, e l'abbiamo già detto e ripetuto tante volte, che apparteniamo alla scuola moderna che riconosce la pluralità degli ordinamenti giuridici. Ma qualunque definizione l'Assemblea trovi da sostituire a questa formulazione dell'articolo 23, qualunque sia la definizione che si scolpirà nella nuova Carta costituzionale, ammonisca che la famiglia è una istituzione con norme originarie che lo Stato deve tutelare con la sua potestà legislativa. Alla prima formula che, come Relatore, avevo suggerito, qualche onorevole collega — mi pare l'onorevole Badini Confalonieri — propose di sostituire la parola «nucleo» alla parola «società». Io ho pensato che «società» potrebbe essere forse efficacemente sostituita con la parola «istituzione», cioè «la famiglia è una istituzione». Ripeto, vedrà quale dovrà essere la formula, purché il principio sia affermato decisamente.

A questo punto, in seno alla Commissione, sono sorti dei dissensi, e si sono manifestati su alcuni di questi particolari: prima di tutto sull'articolo 24 il quale dice, come tutti sapete: «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Su questo punto ci siamo trovati tutti d'accordo, perché l'articolo riecheggia le più legittime aspirazioni moderne della donna. Debbono essere abrogati per sempre quegli istituti, come l'autorizzazione maritale, che ponevano la donna maritata in una condizione inferiore e ne facevano una perpetua minorenne. Noi vogliamo affermare quindi il valore della madre nella famiglia come centro dell'unità; nei casi di premorienza del marito la donna accentra in sé la patria potestà. Sul primo punto, quindi, l'accordo è stato completo. Ma l'accordo non è stato raggiunto sul secondo comma, in quanto che con la frase: «la legge ne regola le condizioni al fine di garantire (accantoniamo per un momento la vexata quaestio dell'indissolubilità del matrimonio) l'unità della famiglia», noi intendiamo rimandare alla legge tutte le norme con le quali, regolando l'esercizio della patria potestà, non venga sconvolta la naturale gerarchia della famiglia, dove, di regola, il padre deve condividere con la madre diritti ed obblighi.

È un antico vezzo dir male dei giuristi; ma è proprio non tener conto delle esigenze giuridiche il voler affermare in ogni campo la parità assoluta dell'uomo e della donna nella famiglia. Altri colleghi illustri e valorosi hanno affermato che giuridicamente non si possono negare queste esigenze: che ci vuole pure qualcuno nella famiglia che dia il cognome, che scelga il domicilio, che abbia il diritto di rappresentanza, che amministri i beni dei minori.

Anche qui noi troveremo la formula per salvaguardare le due esigenze: da un lato, la parità sociale e giuridica dei coniugi, e dall'altro, la necessaria unità della famiglia che, come ogni società bene ordinata, ha bisogno di esprimere un capo, sia pure il più comprensivo e il più amorevole.

E veniamo alla parte più incriminata, rapidamente, come l'ora ne sospinge. «La legge regola la condizione dei coniugi a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio».

Si rassicurino i colleghi che io non voglio a quest'ora tarda riprendere, neanche in sintesi gli argomenti divorzisti o anti-divorzisti; mi occuperò di questo tema soltanto in ordine alla sua inserzione nella Carta costituzionale.

Ma anche qui cominciamo dal fatto. È stato detto da qualcuno, anzi ripetuto da voci autorevoli: «Perché volete inserire nella Costituzione l'indissolubilità del matrimonio? Nessuna Costituzione ne parla». Ed è una grave inesattezza che si è detta. Parlano dell'indissolubilità del matrimonio, o per ammetterla o per respingerla, alcune Costituzioni: per esempio, quella d'Irlanda. È accaduto qui — permettete una parentesi — un errore curioso: poiché tra le bozze che la Presidenza ci distribuisce, la parola Irlanda, per un errore di stampa, era diventata «Islanda», questo errore materiale fece dire all'onorevole Preti che la Costituzione islandese, cioè degli esquimesi, era una Costituzione la quale non poteva essere tenuta in eccessivo conto come modello. È un lapsus — ripeto — dovuto ad un materiale errore di stampa.

Parlano quindi del divorzio: la Costituzione d'Irlanda, quella del Brasile, quella spagnola del 1931, quella del Nicaragua del 1941, il progetto giapponese, ecc. E non hanno il divorzio nella loro legislazione non soltanto la Spagna, il Portogallo, ma il Brasile, l'Irlanda, l'Argentina, il Canada francese, il Cile, la Columbia, l'Ecuador, il Perù, il Paraguay.

Dunque, non è vero che nessuna Costituzione parli del divorzio.

Si dice, d'altronde, che non è questo un argomento attuale; lo ha detto il Ministro Gullo: non è attuale, non è sentito. In parte possiamo essere d'accordo; anzi, direi, che in gran parte siamo d'accordo che l'argomento del divorzio non è sentito specialmente dalle classi lavoratrici; non è certo una delle rivendicazioni del nostro popolo, oggi, il divorzio; sono ben altre le aspirazioni: le classi lavoratrici desiderano delle riforme agrarie, desiderano delle riforme industriali; desiderano un migliore tenore di vita; desiderano l'adeguamento dei salari alle necessità della vita. Queste sono le vere aspirazioni delle classi lavoratrici italiane.

Allora, chi desidera il divorzio in Italia? Sono alcune classi strigliate di uomini oziosi che vanno ostentando la loro sfacciata ricchezza in un Paese povero, trascinando la vita da un albergo internazionale ad un altro; che danno spettacolo inverecondo nel portare a spasso i loro intrighi d'alcova e che chiamano in aiuto la legge per sanzionare i loro amori di mano mancina e per legalizzare i loro adulterî. (Applausi al centro).

Questi sono coloro che chiedono il divorzio.

Una voce a sinistra. I ricchi vanno all'estero e divorziano ugualmente.

Corsanego. Basta negare la cittadinanza a coloro che l'hanno perduta a questo scopo: il rimedio è subito trovato.

A Roma è nato una specie di comitato divorzista. Ora, per mostrare quanto sia poco consistente e artificioso questo movimento, riferirò un episodio di cui ho avuto notizia per la mia professione di avvocato. Il presidente di questo comitato è stato citato in giudizio per 10.000 lire di pigioni arretrate ed è stato sfrattato per morosità.

Non dobbiamo nasconderci però che c'è stato un discorso che questa Assemblea ha ascoltato con tutta l'attenzione che meritava, un discorso che ha fatto impressione nell'aula e nel Paese per l'autorità del giurista, per l'arguzia del dicitore, per l'abilità del polemista; e questo discorso è stato stampato nei giornali con grossi titoli a caratteri di scatola, in cui si dice che il divorzio c'è già in Italia, ma che è solo per i ricchi e non per i poveri; e si dice ancora che questo illustre onorevole denunzia all'Assemblea Costituente l'ipocrisia dell'articolo 24, che vieta il divorzio in quanto tale articolo mira a introdurre nella Costituzione della Repubblica italiana la indissolubilità del matrimonio, mentre essa è invece praticamente lettera morta nel diritto canonico.

Ora, di fronte a questa grave affermazione, noi abbiamo il dovere di rettificare. Prima di tutto, non fa meraviglia che i profani confondano il divorzio con la dichiarazione di nullità del matrimonio. Ma quello che fa meraviglia è che un giurista di così chiara fama contribuisca a mantenere l'equivoco.

Tupini. E con ostinazione.

Corsanego. E la meraviglia delle meraviglie è costituita dalla seguente affermazione dell'onorevole Calamandrei: che la statistica degli annullamenti di matrimonio ci insegna che presso a poco questi avvengono in numero tale che equivarrebbe a quello che avremmo in Italia se fosse apertamente consentito il divorzio.

Ipocrisia dunque dell'articolo 24. Non basta; ma è stata ripetuta qui la leggenda che solo i ricchi avrebbero ingresso nei tribunali ecclesiastici e che l'indissolubilità matrimoniale è in pratica lettera morta nel diritto canonico.

E di fronte ad una esegesi elegante, ma unilaterale, delle norme che regolano la delicata materia, l'Assemblea è rimasta veramente impressionata. Abbiamo infatti sentito dire: ma è così semplice ottenere un annullamento di matrimonio, che è poi un divorzio travestito. Basta che i coniugi escludano positivamente, all'atto della celebrazione, la sua indissolubilità, o la sua unità, o il suo fine primario, e il matrimonio è nullo:

E qui siamo pienamente d'accordo: la dottrina è esatta. Bisogna soltanto osservare con quale difficoltà si riesca a provare in giudizio questo interno moto dell'animo e della volontà. Dinanzi ai tribunali ecclesiastici deve ciò essere dimostrato con prove che siano al di sopra da ogni sospetto e veramente concludenti. La dimostrazione deve mettere fuori dubbio che gli sposi abbiano avuto al momento del matrimonio la intenzione di escludere il diritto e l'obbligo relativo ad uno dei tre beni medesimi e non del semplice esercizio del diritto o adempimento dell'obbligo.

Ed allora i giuristi capiscono per esperienza come questa sottile distinzione renda estremamente difficile dimostrare che un dato matrimonio è veramente nullo ed ottenere quindi una sentenza favorevole.

Ma, continua, impressionando l'Assemblea, l'onorevole Calamandrei: sapete che questa prova si può precostituire? Anzi, vi sarebbero, secondo lui, degli uffici che egli non osa chiamare legali (e fa bene, perché, se esistessero, non meriterebbero questo nome) dove si può fabbricare una specie di assicurazione preventiva contro l'indissolubilità del matrimonio. Si firma una carta con cui due coniugi si impegnano di dichiarare a suo tempo che essi avevano posto una di queste condizioni alla base del loro contratto matrimoniale, e quando uno dei due coniugi, o entrambi, vorranno interrompere la loro convivenza, andranno nella cassaforte della banca, caveranno fuori il documento e con questa prova precostituita otterranno la nullità matrimoniale, la quale altro non è che un divorzio camuffato.

Ora il professor Calamandrei ha affermato una verità di diritto sostanziale, ma ha taciuto una verità di diritto processuale, cioè si è dimenticato che nel Codice di diritto canonico, c'è il canone, cioè l'articolo 1971, il quale è molto chiaro e lampante a questo riguardo: esso nega l'azione di nullità del matrimonio al coniuge colpevole, cioè a colui che ha posto maliziosamente la condizione di nullità; cosicché, se il coniuge si precostituisse con questa burletta la prova, esso avrebbe la matematica certezza che non potrebbe ottenere la sentenza di nullità. Questo per un preciso divieto del diritto canonico processuale; ripeto: canone 1971. Ed anche nei rari casi nei quali il colpevole è solo uno dei due coniugi, e quindi il coniuge innocente ha diritto di agire, in questi casi sono talmente guardinghi i giudici ecclesiastici nell'ammettere questa prova che non solo sono rarissime le sentenze affermative a questo riguardo, ma spesso, quando la sentenza è pronunziata per una causa colpevole, si aggiunge una clausola poco comoda per chi volesse trasformare la nullità in divorzio, una clausola che vieta ai coniugi il secondo matrimonio.

Dunque non è così facile operare un annullamento burletta.

Vi ha poi parlato il professor Calamandrei di un altro caso. Egli vi ha detto: Immaginatevi come è larga la Chiesa in materia di dispensa matrimoniale per quanto riguarda il matrimonio rato e non consumato; per esempio, due coniugi si sposano, e dopo aver detto il loro sì fatale, uno dei due coniugi va a chiudersi in un convento, entra nella Compagnia di Gesù, e la Chiesa pronunzia la nullità di questo matrimonio rato e non consumato. Vedete che grave rischio per la indissolubilità del matrimonio? Quante volte, voi che avete assistito a tanti matrimoni, avete visto che la sposa o lo sposo, dopo la cerimonia, si è precipitato a rinchiudersi in una cella monastica? Ma sono questi i surrogati del divorzio? La cosa ha un'importanza teorica; perché viceversa il Codice di diritto canonico vieta l'ammissione in noviziato nei conventi a chi è coniugato. Vero è però che a questo divieto si può dare dispensa, ma la dispensa non viene concessa senza il consenso dell'altro coniuge e quindi essa è analoga a quella del matrimonio rato e non consumato chiesta per via ordinaria.

Ma è proprio vero che ci sia soltanto per i ricchi questa nullità matrimoniale ed è vera la gravissima affermazione che in Italia si fanno annullamenti tali che se ci fosse il divorzio il numero sarebbe presso a poco eguale? Io non riesco a capire come possa essere sfuggita una così grave inesattezza ad un uomo del valore del professor Calamandrei.

Si dice che le statistiche dicono quello che si vuole. Però in questo caso sono talmente evidenti, che non c'è nessuna forzatura di parte, nessuna tesi precostituita che possa farle tacere. È di dominio pubblico qual è il numero dei divorzi nei paesi in cui esiste il divorzio: sono a diecine di migliaia i divorzi; ed in America a centinaia di migliaia. Basta ricordare l'Inghilterra che ha cominciato modestamente nel primo anno in cui funzionò la legge sul divorzio con 850 divorzi ed oggi ne ha cinquantamila all'anno. Basta sapere, come ha detto un collega in questa Assemblea, che oggi in America si ha un divorzio ogni tre matrimoni.

Ed allora volete sapere quali sono le statistiche delle nullità matrimoniali che si ottengono dai tribunali ecclesiastici? Le ha già accennate un collega che ha ripetuto le cifre. Io posso precisarle.

In Italia ci sono 18 tribunali regionali che sono autorizzati a conoscere le cause di nullità matrimoniale. Sapete, tutti insieme, quante sentenze di nullità matrimoniali hanno pronunciato nell'ultimo decennio? E badate che queste mie affermazioni sono facilmente controllabili da un lato civile, perché queste nullità sono trascritte nei registri dello stato civile, e poiché attraverso la domanda della Corte di appello competente si ha la trascrizione nei registri dello stato civile, lo Stato viene a controllare giorno per giorno e mese per mese il numero delle sentenze di nullità che vengono pronunciate.

Ora, nel 1936, in tutta Italia furono pronunciate 32 sentenze di annullamento, nel 1937, 34, nel 1938, 45 e così negli anni successivamente 36, 45, 41, 47, 27, 30, 39 e nel 1946 in cui l'influenza della guerra e di tutte le sciagure morali che l'hanno seguita ha fatto alzare il numero, 77. Questo risulta dalla seguente tabella dei matrimoni dichiarati nulli o dispensati perché rati e non consumati in Italia:

Anno Matrimoni
nulli
Matrimoni
dispensati
1936 32 35
1937 34 25
1938 45 31
1939 36 22
1940 45 35
1941 41 42
1942 47 32
1943 27 52
1944 30 26
1945 39 25
1946 77 62

Queste cifre, sommate con quelle degli anni 1929-1935 insieme alle dispense per matrimonio rato e non consumato, ci danno questo totale: in 17 anni, cioè dal giorno in cui è andato in vigore il Concordato fino ad oggi, in Italia sono stati annullati 1156 matrimoni, con una media, compresi i rati e non consumati, di 68 annullamenti all'anno, dico 68, il che significa che, poiché in questo lasso di tempo si sono celebrati in Italia 5.750.000 matrimoni, siamo alla percentuale del 0,02 del totale dei matrimoni. Questa è la minaccia che il diritto canonico fa all'indissolubilità del matrimonio e domando all'equanimità dell'Assemblea se dopo queste cifre, che, ripeto, sono facilmente controllabili attraverso l'autorità civile, sia lecito affermare, e sia serio anche dal punto di vista scientifico, proclamare che l'indissolubilità matrimoniale è in pratica lettera morta nel diritto canonico. (Applausi).

C'è ancora un altro punto, onorevoli colleghi, sul quale le cifre parleranno. Si dice: Ma le nullità di matrimonio sono monopolio dei ricchi. Invano tutti gli anni il Decano del Tribunale della Sacra Rota, che è il più autorevole dei Tribunali ecclesiastici che pronunciano nullità matrimoniali, invano si dà premura di pubblicare la statistica delle sentenze uscite, e di fare la proporzione tra quelle che hanno ottenuto esito favorevole a gratuito patrocinio e quelle che l'hanno ottenuto senza essere ammesse al gratuito patrocinio. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Ora, bisogna che i colleghi sappiano, e io ne farò tema di un mio intervento in sede di discussione sulla magistratura, perché l'esempio meriterebbe di essere imitato dai tribunali civili, che non c'è nessun tribunale al mondo dove il gratuito patrocinio funzioni in modo così perfetto come nei tribunali ecclesiastici. Innanzi tutto gli avvocati, qualunque sia il loro grado, la loro età, la loro abilità, si tratti di avvocati principi o di novellini, sono tutti obbligati dal Tribunale a difendere le cause dei poveri, e questo obbligo è tanto stretto che se un avvocato ha contemporaneamente una causa in cui è difensore di fiducia e un'altra in cui è difensore di ufficio per gratuito patrocinio, il pubblico Ministero o, più esattamente il difensore del vincolo, o il promotore di giustizia, sorveglia le comparse conclusionali dei poveri e le rimanda indietro se non sono redatte con la dovuta diligenza.

Non basta. Le spese dei tribunali ecclesiastici sono elevate, perché elevato è il costo della stampa e davanti al Tribunale della Sacra Romana Rota, tutti gli scritti periziali, le testimonianze e le difese vanno stampate, e tutti sanno quale sia oggi il costo della stampa. Orbene, cosa fanno i tribunali ecclesiastici e il Tribunale della Sacra Romana Rota? Pagano a loro spese la stampa e, mentre per una causa di fiducia, dato l'alto prezzo della stampa, qualche volta si permette che gli scritti siano dattilografati, nelle cause ammesse al gratuito patrocinio gli atti sono tutti stampati a spese del Tribunale.

Non solo. Quando un avvocato non compie il suo dovere nel gratuito patrocinio, viene severamente ammonito e si arriva fino al punto di cancellarlo dall'albo.

Voi dite: in pratica come funziona tutto questo?

In pratica, ecco anche qui delle statistiche. Ma, un momento, mi sono dimenticato di aggiungere che dagli onorari che si ricevono dai clienti abbienti gli avvocati sono costretti a depositarne una parte al Tribunale della Sacra Romana Rota a favore delle cause dei poveri.

Dicevo che ci sono anche qui delle statistiche.

Vediamo una statistica nota: non è una novità, perché ogni anno tutti i giornali portano un piccolo trafiletto — che nessuno legge — nel quale la Sacra Romana Rota dà conto delle sue cause. E voi sapete che il Tribunale della Sacra Rota giudica in seconda o terza istanza le cause di tutto il mondo.

Prendiamo un anno qualunque: il 1940. Le cause di nullità di matrimonio furono 78; ammesse al gratuito patrocinio 33. Nel 1943 le cause furono 91; ammesse al gratuito patrocinio 40.

Ma c'è una cifra ancor più significativa. Voi potete domandare: è più facile ottenere un esito favorevole quando il cliente è di fiducia o quando c'è il gratuito patrocinio?

Rispondo con le cifre:

 

Tributiate della Sacra Romana Rota

Anno

Cause di nullità di matrimoni

Ammessi al gratuito patrocinio

Decisioni negative

Decisioni affermative

gratuito patrocinio

fiducia

Totale

1936

75

38

41

19

15

34

1937

74

40

49

17

8

25

1938

70

39

43

21

6

27

1939

56

25

41

10

4

14

1940

78

33

54

14

10

24

1941

86

39

56

19

11

30

1942

80

38

55

19

16

35

1943

91

40

45

20

26

46

1944

67

30

36

14

17

31

1945

81

38

42

13

26

39

1946

75

36

45

17

13

30

 

833

396

507

183

152

335

 

Ecco, quindi, la cifra totale: nel decennio 1936-1946 il Tribunale della Sacra Romana Rota ha pronunziato, su 833 cause, 335 sentenze affermative. Come vedete, la maggior parte delle cause fu respinta. Di queste 335, 183 erano di poveri, a gratuito patrocinio; 152 avevano il difensore di fiducia. Quindi la maggioranza assoluta delle sentenze affermative, uscite dai tribunali ecclesiastici, sono a favore dei poveri. Come si può ancora sostenere che soltanto i ricchi hanno ingresso nei tribunali ecclesiastici?

Ed allora, arrivati a questo punto, noi dobbiamo rispondere ad un'altra obiezione.

Si dice: «Voi sostenete che nella Costituzione deve essere affermata la indissolubilità del matrimonio per esclusivi motivi confessionali, religiosi e cattolici, in quanto per voi il matrimonio è un Sacramento; perché vi preoccupate dei matrimoni che non sono Sacramento?»

Rispondiamo: «Certo, per noi cristiani il matrimonio è un Sacramento — e non sarò certamente io a sminuire il valore di questa affermazione, perché non erubesco Evangelium; però, non è vero che noi chiediamo di introdurre l'indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale per puri motivi religiosi; la chiediamo anche per motivi civili, per un criterio sociale, perché vogliamo l'indissolubilità del matrimonio per tutti: vogliamo, cioè, che questo istituto salvaguardi l'unità della famiglia italiana; e non è affatto vero che sono soltanto i cattolici praticanti che hanno sostenuto, come giuristi, la indissolubilità del matrimonio, come si è ripetuto diverse volte in quest'aula. Basterebbe ricordare l'origine del nostro Codice civile. Il Codice civile, nato nel 1845-66 introdusse per la prima volta il matrimonio civile in odio alla Chiesa, dopo le leggi eversive del Siccardi, cioè per fare un contro altare al matrimonio religioso; e il Codice si occupava unicamente del matrimonio civile, non del matrimonio Sacramento. Eppure, quel Codice civile affermava la indissolubilità del matrimonio; e non erano certo democristiani i suoi compilatori.

Il Vigliarti dichiarava, con parole testuali: «non per motivi religiosi, ma per motivi dettati dall'interesse della società civile, abbiamo sancito nel Codice la indissolubilità del matrimonio».

Quando noi pensiamo che giuristi insigni come il Gabba, il Codacci Pisanelli, il Salandra, Paolo Emilio Bensa, come Luzzatti, Polacco e Sonnino, che essendo israeliti, non potevano certo tenere in considerazione il matrimonio Sacramento; quando uomini come Morselli, illustre psichiatra positivista, come Zerboglio, deputato socialista, si sono dichiarati apertamente, con scritti notevoli con interventi efficaci, anche nelle aule del Parlamento, contrari all'istituto del divorzio, non si può sostenere che soltanto per motivi confessionali si vuole la indissolubilità del matrimonio.

D'altronde, noi la sosteniamo nell'interesse della società civile, perché siamo uomini cogli occhi aperti, siamo uomini politici, che viviamo nel 1947. E, volgendo lo sguardo intorno, a tutti i Paesi che hanno il divorzio, noi sentiamo il grido raccapricciante di quei reggitori di popoli che sono spaventati dalla devastazione che il divorzio ha portato nel loro istituto familiare. Sono le voci più autorevoli che vengono dagli Stati Uniti, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Olanda, e, recentemente, dall'Assemblea politica del Brasile, dove è stato affermato il pericolo della dissolubilità del matrimonio. Abbiamo lo stesso esempio della Russia; l'abbiamo sentito dall'onorevole Nobile, della Russia che, dopo aver ammesso il divorzio nel modo più largo, lo ha poco per volta ristretto in modo sempre più severo, perché la stessa Russia si è accorta dello sfacelo che il divorzio portava alla istituzione della famiglia.

E allora, mentre in tutto il mondo s'è fatto l'esperimento, e l'esperimento è stato disastroso tanto da arrivare negli Stati Uniti ad uno scioglimento su ogni tre matrimoni, noi che siamo immuni da questo tarlo sociale, dovremmo cercare adesso di fare un esperimento che il mondo ha già fatto e dovremmo marciare sulla rovinosa china, su cui gli altri tentano ormai di porre dei freni, forse troppo tardi?

Un onorevole collega ha dichiarato, come argomento da tenere molto presente: «Ma, badate, che in fondo quasi tutti i Paesi civili hanno il divorzio». Noi abbiamo visto con quali risultati.

Ma non è questo un argomento. C'è un altro istituto che quasi tutti i Paesi civili del mondo hanno nelle loro leggi e nei loro codici, ed è la pena di morte. Ed è orgoglio della tradizione giuridica italiana di resistere alla corrente universale e di insegnare la superiorità civile delle nostre leggi, non dando ingresso alla pena di morte nella nostra Costituzione e nel nostro ordinamento giuridico. (Vivi applausi al centro).

Analogamente, noi avremo questa superiorità civile su tutte le altre legislazioni; e perché noi che siamo stati attraverso i secoli i maestri di diritto nel mondo, perché dovremmo oggi diventare i discepoli e non opporre invece, col nostro esempio, con la nostra dignità, la indissolubilità del matrimonio? Noi vogliamo questo per tutte le famiglie, qualunque sia la forma di matrimonio a cui esse accedano: lo vogliamo per tutti.

Quando si è parlato in questa Assemblea, in senso divorzista, si sono fatti dei casi pietosi che noi riconosciamo: il solito ergastolano, i reduci, che effettivamente meritano una seria considerazione. Ma non si è posto mente che la risoluzione di qualche caso singolo sarebbe talmente pregiudizievole per quel bene comune che deve essere sempre presente agli uomini e al legislatore. Non soltanto nel matrimonio indissolubile ci possono essere dei singoli sacrificati. Quando il giudice infligge una pena a un delinquente viene sempre sacrificato il coniuge innocente e ne soffrono i figli. Sono infiniti i casi della vita in cui il bene comune prevale sulla così detta felicità dell'individuo. Eppure, la legge resiste ad ogni seduzione di natura sentimentale, per mantenere l'interesse comune al di fuori e al di sopra dell'interesse dei singoli.

D'altronde, troppo spesso si sono citati, anche con accenti di eccessiva leggerezza per la gravità dell'argomento e la solennità di quest'Aula, si sono citati casi di corruzione femminile, di adulteri frequenti. Ora, permettete ad un italiano ed a un padre di famiglia che ha vissuto tutte le tragiche vicende della guerra e del dopoguerra, di affermare che, nonostante che sulle nostre terre siano passate tante truppe straniere ed abbiano portato devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, sia permesso affermare nel Parlamento italiano che la maggior parte delle famiglie italiane è sana, che la maggior parte delle donne italiane ha compiuto con eroismo il suo dovere; sia permesso affermare che le madri, le figlie, le spose sono state degne del grande momento storico. (Applausi al centro).

Non sono soltanto quelle poche donne leggiere, che hanno violato la santità di un giuramento che devono essere presenti al nostro pensiero. Il nostro omaggio e la nostra ammirazione devono andare a tutte le madri e a tutte le spose che hanno piuttosto sofferto ogni sorta di disagi e la fame, ed hanno mantenuta accesa e pura la fiaccola del loro focolare. (Vivi applausi al centro).

[...]

Osservando con sguardo sintetico gli articoli che verranno sottoposti al vaglio della vostra critica e della vostra approvazione, voi potrete vedere inserita nella Costituzione la disciplina della famiglia, ma vorrei, — e ve lo dico con animo commosso di italiano — vorrei che l'inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale non fosse considerata una vittoria della Democrazia cristiana. No, noi non vogliamo aggiudicarci il monopolio di pretendere che siamo solo noi custodi del focolare e della famiglia italiana. Siamo tutti noi, dal settore dell'estrema sinistra a quello dell'estrema destra, tutti noi legittimi rappresentanti del popolo italiano, che sentiamo il desiderio che la famiglia abbia nella Carta costituzionale la sua tutela giuridica. Lo vogliamo tutti, senza esclusività di partito; non è il trionfo di una parte politica l'inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale. No, onorevoli colleghi, è veramente il popolo italiano, nella sua espressione più alta e più nobile, che è quella dei suoi focolari, è il popolo italiano che entra così, attraverso le sue ben salde famiglie costituite, nella Carta costituzionale. Anche quando i nostri operai vanno a lavorare all'estero, destano l'ammirazione dello straniero, perché essi ricordano la famiglia lontana, spediscono a casa i loro risparmi, anelano a ricostituire la famiglia, o facendola seguire con loro la via dell'esilio, o ritornando alla terra natia, perché è troppo connaturato nelle nostre tradizioni l'amore per la famiglia, considerata da tutti — non soltanto da questi banchi, ma da tutti — come il porto di rifugio che si abbandona (per necessità di studio o di lavoro o di servizio militare) con rimpianto ed al quale si pensa sempre con nostalgia, e nella quale si ritorna sempre con entusiasmo e con commozione. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti